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di Michele Nardelli

Barack Obama saprà far volare un’anatra zoppa?

“Anatra zoppa”. Così titolano i network dopo l’esito delle elezioni di medio termine che hanno assegnato ai repubblicani la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento degli Stati Uniti. Che cosa accadrà dopo questo voto? Torneranno i tempi dell’interventismo militare americano nel mondo? Verranno cancellate le pur moderate politiche di welfare introdotte dalla presidenza Obama?

Il sistema politico statunitense è di natura presidenziale, il parlamento detiene il potere legislativo, ma il governo reale del paese è nelle mani dell’esecutivo e il presidente ha diritto di veto. Al tempo stesso l’azione governativa non può prescindere dal contesto legislativo, ma i repubblicani non hanno i 2/3 delle camere per sfiduciare l’amministrazione. La cosa più probabile è dunque una situazione di stallo e di logoramento del presidente in attesa della fine del mandato di Obama.

Se il presidente Usa non vuole farsi cuocere a fuoco lento ha davanti a sé due strade: quella di riorientare le decisioni dell’esecutivo in chiave conservatrice, nell’estremo tentativo di recuperare il consenso perduto, oppure quella di usare i due anni che mancano alla fine del mandato presidenziale per sfidare di volta in volta il Parlamento come a rendere esplicite le diverse politiche proposte dai due schieramenti in campo. Una sfida culturale, prima ancora che sociale e politica.

Dall’esito delle elezioni di medio termine – come qualcuno ha detto – esce l’America bianca e maschile, sempre uguale a se stessa. Barack Obama nel 2008 era riuscito a dar voce all’altra America ma via via quell’entusiasmo si è dovuto scontrare con la lentezza dei cambiamenti, con il potere delle lobby (pensiamo a quella delle armi, ad esempio), con la forza del potere finanziario (vi ricordate le pive nel sacco con cui Obama uscì da Wall Street quando provò a mettere le briglia ai titoli derivati?), con il condizionamento del non avere dalla sua uno dei due rami del Parlamento, con quella stessa difficoltà di cambiamento di pensiero con la quale abbiamo a che fare anche noi da quest’altra parte del mondo.

Barack Obama avrebbe dovuto usare questo suo secondo ed ultimo mandato per ridare fiato alle grandi speranze che la sua presidenza aveva suscitato, non solo negli Stati Uniti per la verità, verso quel cambio di prospettiva che in molti ci aspettavamo dopo il suo discorso ai giovani del Cairo. Se non saprà affrontare questa sfida, riemergerà l’America profonda che dorme con la pistola sotto il guanciale perché non ha saputo ancora fare i conti con la conquista. E non sarà certo la signora Clinton l’alternativa, raffigurazione di una politica di destra perseguita da un esponente di sinistra (si fa per dire).

Non fare del lavoro un pretesto per dividere il paese“.

Il nostro paese è diviso. Con la disoccupazione al 12,6% e quella giovanile al 42,9% (dati che includono il precariato e i contratti atipici), con le aziende che continuano a ritenere più vantaggioso investire in titoli che nel lavoro produttivo, con produzioni poco innovative e che hanno poco a che fare con i caratteri di un territorio e la loro unicità, senza un progetto europeo di integrazione delle politiche industriali e del lavoro, la situazione non è che destinata ad aggravarsi. E il paese a dividersi, in una guerra di tutti contro tutti. La cura non può essere né l’articolo 18, né l’intervento della polizia.

A meno che… non si cambi radicalmente prospettiva, ma non è il caso del governo Renzi che, al contrario, affida la ripresa ad un modello di sviluppo che non funziona più. Chiusi nel vecchio paradigma dello sviluppo illimitato, tanto i sostenitori dell’economia di mercato (ho cercato un termine per definire la vasta area politico-culturale che va dalla Merkel a Renzi – il Partito della Nazione? – senza trovarlo) che i sostenitori di un modello neo-keynesiano (penso alla sinistra politica e sociale che oggi ruota attorno a Maurizio Landini) non vogliono prendere atto che abbiamo oltrepassato il limite e che è urgente una nuova proposta di economia sostenibile, fondata sulla riqualificazione dell’ambiente come delle produzioni e dei consumi nell’ambito di un accordo globale di salvaguardia del pianeta.

Al tema del limite, paradossalmente, gli artefici del neoliberismo offrono una loro risposta riconducibile alla postmodernità (al post umanesimo, potremmo dire), fondata sull’esclusione e sulla guerra (per il controllo del mondo e per il reperimento delle risorse). Per ritornare un attimo sulle elezioni americane, solo così è spiegabile il fatto che, pur avendo ridotto la disoccupazione, allargato i diritti alla salute per i soggetti più deboli e ritirato i contingenti militari dalle aree di crisi, Obama venga accusato dai suoi connazionali di aver rinunciato al primato economico/militare degli Stati Uniti.

La sfida non è dunque la crescita, ma la qualità del vivere, non è il lavoro, ma la sua distribuzione, non è il rilancio dei consumi ma la capacità di vivere meglio con meno, non è la deregolazione del mercato del lavoro ma l’estensione di regole di civiltà nell’organizzazione del lavoro, nella riduzione delle forme di inquinamento, nel rispetto dei diritti della persona…

Visione europea o difesa dei propri interessi?

“Non andiamo a Bruxelles con il cappello in mano, ma per farci rispettare“ dice il premier italiano e gli sembra di dire una cosa intelligente, efficace mediaticamente. Forse lo è, ma questo è l’opposto di quel “pensare europeo“ che dovrebbe essere richiesto a ciascuno di noi ma in primo luogo a chi è presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea.

Altro che battere i pugni, noi avremmo dovuto farci promotori di un progetto per unire davvero l’Europa sul piano del lavoro sotto il profilo delle tutele, nella consapevolezza che la competitività non ci sarà mai se il costo del lavoro in Romania o in Serbia è un quinto (o anche meno) di quello in Italia. Perché mai un industriale dovrebbe investire qui anziché a Timisoara o a Kragujevac? Un tempo si rispondeva che qui le condizioni infrastrutturali sono migliori, ma non è più così: tanto per fare un esempio, in Romania internet gira a doppia velocità che in Italia. Oppure che in Italia c’è un know how particolare, ma nell’era digitale questo non è più prerogativa di qualcuno in particolare. Per non parlare delle leggi sulla tutela dell’ambiente (e del loro rispetto) e su quello fiscale.

Allora è necessaria una visione nuova, almeno europea, che punti ad integrare le politiche industriali e del lavoro, che valorizzi le caratteristiche e le vocazioni dei territori. Quanti paesi in Europa hanno 4 mila chilometri di costa mediterranea, con quel che significa sul piano della bellezza dei luoghi, delle biodiversità, delle culture che vi si sono incontrate nella storia? Quanti hanno il patrimonio culturale ed artistico delle città italiane? Dobbiamo smetterla di pensare che ogni paese deve avere la sua industria automobilistica, il suo acciaio, la sua compagnia di bandiera e così via. Pensare da europei, questo è necessario. Una visione europea (ed una presidenza di turno) avrebbe dovuto portarci a fare proposte per rendere concreto uno sguardo diverso, non per difendere i nostri interessi contro quelli di qualcuno.

Mi fermo qui. Ma “tempi interessanti“ potrebbe diventare una rubrica permanente di questo blog.

3 Comments

  1. silvano falocco ha detto:

    Caro Michele mi permetto però di osservare che si può essere “keynesiani” anche sostenendo che occorre investire di più in servizi collettivi, tutela del territorio e biodiversità, istruzione, beni culturali, salute e ricerca. Perché abbiamo bisogno di una conversione ecologica della domanda pubblica sia per quel che riguarda la sua composizione che la sua qualità ambientale e sociale. Insomma c’é keynesiano e keynesiano: chi gli interessa solo l’impatto della spesa sul PIL echi invece l’impatto sulla qualità del vivere. In ogni caso non bisogna mai scordare che il moltiplicatore della spesa pubblica è compreso tra 1,5 e 1,6 e quindi 1 euro in più di spesa genera una volta e mezzo di Ricchezza, mentre, al contrario quello delle tasse (su consumo e lavoro) è compreso tra lo 0,2 e lo 0,6%. Quindi si può aumentare di un pari ammontare spesa e tasse o diminuirle dello stesso ammontare, ma gli effetti sono decisamente diversi: se si aumentano ambedue l’effetto espansivo delle spese è superiore all’effetto recessivo delle maggiori tasse; se si diminuiscono ambedue l’effetto espansivo delle minori tasse è superato dall’effetto recessivo delle minori spese. Quindi, mi permetto di osservare, Keynes non basta ma da lì bisogna partire per evitare errori quando si parla impropriamente di deficit e debito (errore che più volte ho visto compiere a Viale). In ogni caso hai ragione che tutti questi ragionamenti vanno fatti nel quadro di un contesto geopolitico mutato, dove altri popoli hanno avuto accesso alla produzione di beni e occorre drasticamente ridurre il metabolismo sociale ed economico dell’economia, ma tutto questo va fatto a scapito della spesa privata e meno di quella pubblica, e qui Keynes ci torna utile. Un abbraccio

  2. Michele ha detto:

    Caro Silvano, figurati se non sono d’accordo tanto sull’intervento del pubblico (nelle sue dimensioni molteplici non necessariamente statali) nell’economia quanto sulla necessità di una conversione ecologica della domanda pubblica. Vivo in una Provincia autonoma dove in questi anni l’intervento pubblico in economia è stato criticato da destra e da sinistra (uso queste categorie tanto per capirci) e l’ho sempre sostenuto. Il problema è che le risorse pubbliche (che entrano attraverso la fiscalità) saranno sempre meno per effetto di una redistribuzione globale dell’economia che produrrà effetti di continua decrescita (a meno di un ricorso alla guerra per continuare a controllare le risorse). Verrà cioè meno non l’esigenza di investimenti pubblici in economia (nella sua accezione più larga ovvero produttivi, ambientali, welfare, ecc.), bensì la loro quantità. Quello che Keynes forse non poteva prevedere proprio per l’assenza della cultura del limite. Ma noi, keynesiani o no, non possiamo far finta che non sia cambiato il mondo, soprattutto del fatto che i 3/5 dell’umanità hanno smesso di “non esistere”. Non possiamo immaginare un’umanità dimezzata dove chi è arrivato prima ha diritti e chi è arrivato dopo deve accontentarsi di quel che rimane. Bisogna purtroppo dire che il modo di pensare di tanta parte della nostra gente è questo. Ovviamente ciò non significa essere d’accordo con le cretinerie di Renzi, che nel suo rivendicare l’italianità in Europa fa esattamente lo stesso discorso, bensì porre la necessità di un altro approccio.
    Il dramma è che fra questo altro approccio e la guerra (come le elezioni di medio termine in USA dimostrano, ma non è molto diverso in Italia) la maggioranza è per la guerra.
    Le guerre della postmodernità non hanno bisogno di essere dichiarate.
    Un abbraccio. Ci vediamo a dicembre a Roma.

  3. adriano ha detto:

    …iniziamo a lavorare per dar vita ad un un nuovo soggetto “a sinistra”, che come ricordava Cacciari deve essere post Renzi e non pre Renzi.
    Così l’azione politica non funziona più urge un cambio di paradigma. Rabbrividisco di fronte a dei corpi intermedi come i partiti, i sindacati… incapaci di leggere il presente e immaginare il futuro.