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Tagliare le spese militari, finalmente se ne parla.

Quando iniziammo ancora cinque anni fa la campagna contro l’acquisto degli F35 (ricordo che l’approvazione della mia mozione in Consiglio Regionale è del giugno 2009) l’isolamento sul piano politico era pressoché totale anche se la scelta di spendere 14,6 miliardi di euro per questi strumenti di guerra era invisa ad ogni persona di buonsenso. Con la larghissima maggioranza dei parlamentari, a prescindere dallo schieramento politico, a sostenere la necessità di mantenere gli impegni internazionali che pure venivano via via messi in discussione da molti paesi che al pari dell’Italia avevano in un primo momento aderito alla proposta di dotarsi dei cacciabombardieri Joint Strike Fighter (JSF).

Dopo la decisione del Parlamento Italiano di subordinare l’operazione F35 alle conclusioni della commissione d’indagine conoscitiva della Camera dei Deputati ora si è arrivati – secondo quanto annunciato dal ministro della Difesa Roberta Pinotti – alla moratoria nel pagamento delle tranche della commessa in attesa di tale esito.

E’ indubbiamente un passo in avanti, dettato più che da un ravvedimento antimilitarista dalla situazione economica in cui versa il paese. Sarà ancora poco, ma sentire da parte di esponenti del governo italiano il riferimento all’articolo 11 della Costituzione (il ripudio della guerra) o alla necessità di ripensare il sistema di difesa nell’ambito di “un’efficace azione integrata europea nei confronti delle complesse sfide globali di sicurezza e difesa" (ricordo che i paesi dell’Unione Europea spendono annualmente una cifra intorno ai 260 miliardi di euro per i loro eserciti) rappresenta un dato di novità che oltre al valore in sé ridicolizza tutti coloro che – più realisti del re – sin qui adducevano insuperabili ragioni di stato (o di PIL) per giustificare l’impossibilità da parte dell’Italia di ritornare sui propri passi.

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