di Simone Casalini *
(1 settembre 2021) Nella segmentata rivoluzione tunisina il 25 luglio 2021 s’iscrive come l’ennesimo sbalzo di un cammino non lineare. La rivoluzione, intesa come trasformazione radicale e destrutturazione dello status quo, si ciba di contraddizioni, di profonde lacerazioni, di umori incerti. Kaïs Saïed ha creduto di interpretarli, forse, sospendendo il parlamento e congedando il governo (contestato) guidato da Hichem Mechichi.
Il presidente della repubblica, il costituzionalista conservatore il cui sottile sibilo meccanico gli è valso l’etichetta ilare di “Robocop”, ora ha in mano il destino di un popolo e di una transizione – inedita e osservata speciale nel mondo arabo – avviata dalle fiamme che hanno avvolto il corpo di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010 e incenerito il regime di Ben Ali, almeno nelle sue geometrie apicali.
Hamadi Redissi, professore di Scienze politiche all’università di Tunisi, co-fondatore dell’Osservatorio tunisino sulla transizione democratica che decifra ogni passaggio della primavera sbocciata per le strade della periferica Sidi Bouzid, è uno degli intellettuali più conosciuti e impegnati nel processo che ha superato i dieci anni di vita. Nelle sue parole non c’è una verità, ma la rappresentazione di una transizione complessa e aperta ad ogni esito che ricalibra anche riconnettendo la Tunisia con la sua storia, anello di congiunzione spesso derubricato nell’emotività dell’analisi occidentale.