Dacca, orrore e falsa coscienza
26 Luglio 2017Emergenza, la rinuncia al cambiamento
26 Luglio 2017“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (51)
di Michele Nardelli
(25 luglio 2016) Più ci si avvicina al referendum autunnale, più ci si rende conto di quanto lacerante possa diventare questo voto, al cospetto di regole fondamentali che dovrebbero unire i cittadini piuttosto che dividerli.
Abbiamo recentemente dovuto prendere atto in altri paesi dell’Unione Europea di come lo strumento referendario sia quello meno adatto ad affrontare nodi che richiedono invece l’arte della mediazione, della ricerca di un punto d’incontro nel definire orientamenti che oltretutto influiscono non solo sul presente ma sul futuro di comunità ben più ampie di quelle chiamate ad esprimersi con il loro voto.
L’effetto Brexit ci indica, qualora non l’avessimo ancora compreso, come una scelta (qual è l’esito di un voto) non rimanga chiusa nei confini nazionali, perché in un contesto sempre più interdipendente è lo stesso concetto di sovranità ad essere messo in discussione, in virtù di scelte incomprimibili nell’orizzonte novecentesco degli stati nazionali.
Un contesto che richiede più politica, non meno politica. Più capacità di dialogo, non derive plebiscitarie. Più responsabilità, non il “si salvi chi può“. Ma soprattutto idee, nuovi approcci per affrontare il presente.
Se poi l’oggetto sottoposto al voto referendario è un insieme di proposte di modifica costituzionale su aspetti normativi fra loro almeno in parte disomogenei, si può comprendere quanto il voto di ottobre rischi di assumere significati diversi dal merito che la stessa riforma costituzionale pone.
Ho sperato che la Cassazione si pronunciasse per lo “spacchettamento“ del quesito referendario (il voto per parti separate della riforma costituzionale), un quesito oltretutto fuorviante rispetto alla reale portata delle modifiche costituzionali che s’intendono introdurre. Che recita: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?‘.
Che il bicameralismo perfetto dovesse essere superato in virtù di un Senato delle Regioni lo penso da almeno trent’anni, nella prospettiva di un federalismo che spostasse verso il basso (e verso l’Europa) l’esercizio di quote sempre maggiori di sovranità. Ma l’idea che un parlamentare sia utile solo per avere qualche favore tanto che riducendone il numero le istituzioni ci guadagnino, che i Consigli Regionali non servano a nulla se non a mantenere una casta di inetti e che i (pochi) poteri che sono in capo alle Regioni (comprese quelle “a statuto speciale“) debbano essere riassegnati allo stato centrale… è quanto di più populistico si possa sostenere.
So bene che la qualità di molti dei nostri rappresentanti lascia molto a desiderare e che la politica locale è spesso ridotta a fotocopia sbiadita del quadro nazionale, presidiata da “cacicchi“ prevalentemente occupati alla gestione del voto di scambio, ma tutto questo non è affatto una buona ragione per demolire il valore della partecipazione politica, né delle prerogative di autogoverno dei territori.
Lo “spacchettamento“ del referendum avrebbe permesso di dire dei sì e dei no di merito, evitando che la consultazione diventasse un plebiscito pro o contro il governo e il Presidente del Consiglio. Si è invece voluto andare ad una forzatura simbolica, tanto da parte del governo come delle opposizioni. E questo non farà bene né alla Costituzione, né alla politica, né tanto meno ad una società sempre più radicalizzata e divisa.
Ha probabilmente ragione Massimo Cacciari nell’affermare che ci sarebbe stato tutto il tempo per mettere mano al sistema istituzionale e che se ciò non è avvenuto lo dobbiamo ai conservatorismi di diverso segno politico che l’hanno impedito.
Ma le riforme che sarebbero state (e sono) necessarie alla nostra Carta Costituzionale avrebbero richiesto un ben altro approccio e di svilupparsi in almeno tre direzioni delle quali nell’attuale referendum invece non c’è traccia, semmai il contrario.
La prima poteva essere quella dell’Europa, ovvero di una Carta nella quale la sovranità venisse progressivamente trasferita verso quella dimensione sovranazionale che già oggi informa il nostro presente, laddove larga parte delle politiche “nazionali“ e “locali“ altro non sono se non l’applicazione delle direttive dell’Unione Europea.
La seconda avrebbe dovuto riguardare un più coraggioso spostamento di funzioni verso le Regioni ed il loro autogoverno, una sorta di riequilibrio fra la dimensione sovranazionale e quella territoriale, ovvero il contrario della revisione del Titolo V che invece riporta in capo allo Stato tutte le materie ritenute strategiche e che la timida riforma del 2001 aveva assegnato ai poteri locali.
La terza direzione avrebbe dovuto essere quella della cittadinanza, un ampio campo di questioni che investono tra l’altro le nuove forme partecipative, il ruolo dei corpi intermedi, la parità di genere, il servizio civile e, più in generale, i diritti/doveri delle persone…
Il coraggio delle riforme non può tradursi nel combinato disposto fra rafforzamento del potere esecutivo e leggi elettorali ultra maggioritarie.
E’ cambiato il mondo, dovremmo immaginare nuovi scenari e spazi di azione politica europea (un sistema di difesa integrato che superi gli eserciti nazionali, un quadro di macro regioni europee oltre i confini statuali, un rapporto di cooperazione e di integrazione con l’area mediterranea…); dovremmo riscoprire il valore dei territori come chiave per responsabilizzare gli attori locali e valorizzare quelle straordinarie unicità per le quali questa parte d’Europa è conosciuta nel mondo e troppo spesso svilite e banalizzate; dovremmo agire sulle potenzialità umane affinché la conoscenza diventi il retroterra di una nuova partecipazione civica.
Il coraggio delle riforme avrebbe dovuto comportare altresì il mettere mano ad istituzioni anacronistiche, inutili e costose, a corporativismi consolidati, a privilegi delle tante caste (di cui la degenerazione della politica è solo un aspetto).
Il fatto di non averlo fatto sin qui costituisce certamente motivo di riflessione per la nostra generazione, ma a ben guardare questi stessi motivi di ritardo investono l’intera Europa e hanno a che fare più che con il fallimento di una classe dirigente con la necessità di fare i conti con i paradigmi di un secolo che ancora non abbiamo saputo elaborare.
L’esasperazione dei toni sul referendum di ottobre non ci aiuta a capire. Non c’è nessun golpe in arrivo e, per altro verso, il cambiamento è altra cosa. La riforma costituzionale del governo Renzi non è il “male minore“ – come afferma Cacciari – ma semplicemente un approccio sbagliato (e fuorviante) che non ci aiuta ad affrontare i nodi veri che attraversano questo tempo in bilico fra il “non più” e il non ancora”.
Per questo, soppesando i “pro” e i “contro” e nell’impossibilità di un voto separato, le ragioni del no a mio avviso prevalgono su quelle del sì.
Ma per favore evitiamo che questa diventi una guerra di religione e proviamo ad interrogarci sul cambio di prospettiva senza il quale continueremo a dividerci attorno ai paradigmi del passato.
8 Comments
Anzitutto complimenti per tutto questo.
Premetto che di questa questione ho capito ben poco e come me tantissime persone con cui mi confronto, ma non si poteva eliminare del tutto il Senato compreso la miriade di sprechi pubblici che produce? (strutture lavoratori super pagati SENATORI e Presidenti vari).
Ricordo in quanti pochi giorni sono state fatte certe leggi da quelle più NOBILI alle ultime… che per noi ben poco o per nulla servono, ma allora il Senato funziona a Comando dei potenti? Ma per risparmiare non si poteva ridurre il numero di tutti i parlamentari Camera compresa, e lasciare il Senato (come camera di garanzia)? Con questa nuova legge chi nomina i Senatori?
Personalmente vorrei che i sindaci che dovrebbero trasferirsi a Roma per occuparsi delle regioni dicono a gratis rimanessero nelle loro città e risolvessero i problemi delle stesse incominciando dai rifiuti all’ambiente e per i più bisognosi, e non mi esprimo sugli Assessori che già fan poco se poi li mandiamo anche a Roma!!!
Dico la verità sono sempre più confuso e con L’ITALICUM (nuova legge elettorale) eleggiamo chi: un Re? Che fa il bello e il brutto visto che ha il controllo totale.
Penso proprio che per convincermi a votare sì me la devono spigare proprio proprio bene.
Grazie di nuovo per il servizio che fai.
Grazie Michele caro! Sei un mito. Un abbraccio e un saluto specialissimo anche a Gabri! Stella e Antonio
Ciao. Posto che le trasmissioni televisive sono inguardabili, condivido la necessità di rifiutare lo scontro tra sponde non comunicanti: non è buona cosa il clima da ultima spiaggia. Tuttavia penso che serva un no netto, pur con le sfumature di peso da attribuire ai diversi temi in gioco.
Soprattutto non ha senso dire si in base al fatto che altrimenti non ci sarà mai il superamento del bicsameralismo attuale difettoso.
Basterà riprendere il discorso in altro clima , con altro spirito (e senza i calcoli politichesi che si celano oggi dietro tante parole). A me preoccupa maggiormente il pericolo di accentramento di poteri e la mancanza di elementi di controllo e riequilibrio.
Dunque io dico No convinta mente. Micaela
Caro Michele, ti ringrazio per gli spunti di riflessione che condividi con tutti, su questi temi che sono effettivamente complessi ed avrebbero bisogno di confronto e di dialogo.
È questo che più di tutto mi manca in questo esecutivo che non ha ancora capito che capacità di dialogo, arte della mediazione e della convinzione sono le caratteristiche della “politica”.
I temi sono effettivamente complessi e andrebbero approfonditi con libertà e onestà, invece che con il ricatto di chi crede di essere il salvatore del mondo, solo perché occupa quel posto.
Un abbraccio.
Caro Michele,
faccio un po’ fatica a collocarti nella fitta schiera degli oppositori alla legge costituzionale, tra quei rancorosi ci sono anche quelli che la riforma l’hanno votata in Parlamento. Mi pare che siano più speranzosi di veder rotolare la testa di Renzi che fiduciosi/convinti del loro disegno politico. Referendum costituzionale come autodafé, altro che plebiscito.
Comunque, tu usi una formula prudenziale per il tuo No, che assomiglia a una propensione per il No (interpreto?), come una decisione non ancora del tutto presa – come è ovvio,peraltro, visto che c’è ancora tempo e per discutere e per riflettere.
La mia propensione è per il Sì alla riforma Boschi. Probabilmente è favorita da una valutazione più positiva dell’azione del governo Renzi, che tu consideri non all’altezza, soprattutto in Europa ma c’è un dirigente politico europeo all’altezza?
Non sono d’accordo con te che il presidente del consiglio italiano persegua una politica in Europa grettamente di interesse nazionale: rivendicando che sui migranti ci debba essere una politica europea, chiede che tutti i paesi membri siano ugualmente coinvolti; quando chiede maggiore flessibilità sui bilanci degli stati per favorire la crescita (merito a parte), lo fa per tutti, non solo per l’Italia e infatti ne stanno usufruendo Portogallo, Spagna e Francia.
Mi pare che liquidi troppo in fretta o quasi scontato il superamento del bicameralismo.
A me viene in mente che, a bicameralismo perfetto vigente, sono state approvate leggi fondamentali: la scuola media unica, lo statuto dei lavoratori, leggi sul divorzio e sull’aborto, la legge Basaglia, la legge Merli, il nuovo diritto di famiglia.
Tutto questo perché tra i cittadini, gli elettori e il Parlamento c’era un “mezzo” che sapeva aggregare spinte potenti della società e letteralmente far approvare leggi di riforma di grande importanza. Questo “mezzo” oggi è vuoto né esiste una bacchetta magica per riportarlo in vita.
E’ necessario che qualche cosa di nuovo nasca.
Sento dire “…ma perché non eliminarlo del tutto, il Senato?”. In verità, del vecchio senato, è rimasto solo il nome e forse sarebbe stato più logico chiamarlo senato delle Regioni o anche camera dei Territori. Quelle e questi sono chiamati a comporre il nuovo organismo, a dare una rappresentazione più vicina e precisa del paese, non una replica del punto di vista della Camera, a raccordare tra loro le istituzioni e , testo alla mano, a esercitare “funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della repubblica e l’Unione europea”.
E’ impensabile che si possa coltivare una nostalgia per l’attuale andirivieni legislativo tra Camera e Senato, dove si giocano tutti i giochi possibili, si varano leggi che vengono fatte a pezzi dalla Consulta e ci si diverte come i pazzi con l’algoritmo di Calderoli.
Anche, è poco lungimirante operare per rendere vera la profezia del fallimento o dell’insignificanza del nuovo organismo.
Alla mia età, io punto sulla potenzialità positiva di un nuovo nascere.
Le Regioni potranno trovare nel nuovo Senato l’occasione per riscattare una stagione del regionalismo/federalismo non esaltante. Anche il richiamo in capo alla competenza statale di alcune materie, come energia e turismo (Rutelli lo propose all’indomani stesso della modifica costituzionale del titolo V del 2001), non sembra una tale punizione o un richiamo a Canossa dei poteri regionali.
Agli stessi, continua ad essere affidata la delicata competenza sulla sanità anche se, nell’esercitarla in questi anni, si sono alimentati debito pubblico, sprechi e corruzione, senza tuttavia che venissero eliminate o ridotte vaste aree di disomogeneità qualitativa di un servizio che, definendosi nazionale, dovrebbe garantire parità di trattamento a tutti i cittadini. Anche là dove la sanità risulta ben organizzata e di eccellenza per la generalità dei cittadini, vedi Lombardia, non si è riusciti ad evitare episodi di becero localismo ideologico, leggasi vicenda Englaro/Formigoni e più recente caso maternità assistita versus Maroni, entrambi sanzionati dalla Corte costituzionale.
L’autonomia è certamente una scelta fondamentale ma non può, non deve essere un’opzione assoluta, sciolta dall’obbligo di equanimità e rendiconto; nel caso di perdurante inefficienza o inettitudine, deve pur essere consentito all’autorità sovraordinata di esercitare un’azione di sostegno, di moderazione ma anche di controllo e di richiamo.
Sul punto, tu proporresti “…un più coraggioso spostamento di funzioni verso le Regioni ed il loro autogoverno…” , questo si chiama “gettare il cuore oltre l’ostacolo”: temerario!
Altro argomento, si ironizza e polemizza sul contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni – il tema figura anche nel titolo della legge – , che sarebbe irrilevante, potrebbe essere molto più consistente se… ecc. ecc..
Ma, a proposito delle provincie abolite, forse in modo troppo spiccio, mi viene da ricordare che ci fu un tempo in cui le provincie spuntavano come i funghi, anche Rovereto ambiva a diventarlo, per separarsi da Trento? Per stare da sola, anche in comunità di valle?
Prendi l’abolizione del CNEL, forse ingiusta, immotivata, propagandistica? Non si sono registrate obiezioni di sorta e la CGIL pensava da tempo di uscirne.
E poi, per concludere: sono d’accordo con te che il voto sulla riforma costituzionale non limiterà i suoi effetti al contesto nazionale: ma il No sa di Brexit.
Grazie Michele,
avevo letto il tuo contributo e non avrei molto da aggiungere, penso hai toccato tutti i temi caldi.
Anche uno sul quale riflettevo negli scorsi giorni e cioè che il referendum, oggi, sembra rappresentare la massima espressione della democrazia diretta. Sembra appunto, perché stimola un dibattito strano. Mi sembra che oggi in Europa i referendum siano usati sempre più frequentemente come uno strumento per canalizzare la rabbia e le inquietudini degli elettori. Il voto su un argomento preciso viene preso a pretesto per punire le istituzioni al governo: quelle nazionali o, sempre più spesso, quelle europee. Negli ultimi mesi è stato questo il caso della Grecia con quello convocato dal governo di Alexis Tsipras per bocciare le proposte della troika; o del referendum dei Paesi Bassi per bocciare gli accordi tra Unione ed Ucraina, il nostro sulle trivelle ha avuto una dinamica da fazioni religiose ed infine nel giugno di quest’anno il referendum è stato utilizzato per votare la rabbia contro l’Unione europea. Ecco oggi penso che forse la Germania che ha proibito il ricorso abbia colto nel segno: evitare l’uso sbagliato di questo strumento nel far deragliare il dibattito pubblico ed evitare l’annichilamento delle minoranze.
Un abbraccio
Comincio da quella che dovrebbe essere la conclusione del mio ragionamento: al referendum confermativo della legge di riforma della Costituzione voterò “no”.
Ora cerco di motivare questa scelta.
Cominciamo da un paio di rilievi di metodo che, nel caso in questione, sono anche rilievi di sostanza.
L’articolo 138 della Costituzione prevede le modalità di revisione della Costituzione stessa. Nei settanta anni di vigenza essa è stata revisionata (riformata) più volte ma credo che un intervento di tale entità, 47 articoli modificati, e di tale eterogeneità, di cui parlerò dopo entrando nel merito, non sia mai stato proposto. Ora questo fatto non è un elemento neutro nella valutazione della legge di riforma perché per quanto riguarda il secondo aspetto detto, l’eterogeneità, è un intervento che obbliga l’elettore ad una scelta poco libera per i diversi aspetti della riforma tant’è vero che qualcuno ha fatto perfino una proposta irrealizzabile di voti disgiunti. La proposta si è rivelata irrealizzabile alla luce dell’attuale normativa sui referendum confermativi costituzionali anche se, sempre alcuni costituzionalisti, hanno fatto notare che se fosse stato un referendum abrogativo, con molta probabilità, la Corte Costituzionale l’avrebbe fatto decadere proprio per l’eccesso di eterogeneità del quesito che ha la conseguenza di mettere l’elettore in difficoltà. Per quanto riguarda la prima caratteristica indicata, l’entità dell’intervento, essa è tale che è difficile parlare di revisione mentre sarebbe più corretto parlare di cambiamento di Costituzione.
L’altro elemento di “forma” riguarda le modalità con cui si va al voto. Il presidente del consiglio ha cambiato la natura del voto modificandone l’oggetto: da un voto sulle modifiche costituzionali a un voto sul governo in carica. Errore doppio in quanto, per sua natura, la Costituzione dovrebbe essere estranea alla dialettica maggioranza-minoranza e dovrebbe vedere una condivisione se non totale almeno fortemente maggioritaria. Nella Costituzione dovrebbero riconoscersi tutti (o quasi). Se, invece, viene percepita di parte, rappresentante la volontà della sola maggioranza pro-tempore, ad ogni cambio di maggioranza si assisterebbe ad un cambio di Costituzione. Il secondo errore, strettamente legato al primo, è il fatto che si spinge verso alleanze tra forze non in base al giudizio sulle modifiche alla Costituzione ma sulla vita del giudizio sul governo in carica; la cosa può essere vista come un boomerang lanciato dal presidente del consiglio o come un delirio di onnipotenza dello stesso. In entrambi i casi è un sintomo di poca intelligenza politica.
Entrando, poi, nel merito della riforma, argomento che dovrebbe essere l’unico scopo della campagna elettorale, esaminiamo i quattro grossi argomenti che mi sembrano il corpo della riforma costituzionale: l’abolizione del CNEL, la modifica del bicameralismo, gli strumenti di partecipazione popolare e i rapporti tra stato e regioni, ossia tra le istituzioni che hanno potestà legislativa.
Sul primo punto c’è un accordo trasversale dovuto al mancato funzionamento dell’ente. Non sembra esservi nessuno che lo difenda e, vista l’esperienza, la sua abolizione è giustificata. Se, però pensiamo a come era stato pensato dai costituenti e per tutti citiamo un breve pensiero di Di Vittorio a presentazione dello stesso CNEL in sede di assemblea costituente: “…Pensiamo particolarmente alla costituzione di un Consiglio nazionale del lavoro che abbia la facoltà di promuovere una legislazione sociale adeguata ai nostri tempi ed alle nostre possibilità, e il diritto di esame di tutti i progetti di legge di carattere sociale da proporre alle Camere legislative. Lo stesso Consiglio nazionale, inoltre, dovrebbe essere dotato di potere e di mezzi sufficienti per controllare efficacemente, anche a mezzo di suoi organi periferici, l’effettiva applicazione delle leggi sociali e protettive dei lavoratori….”, allora, forse, sarebbe bene trovare un sostituto o, comunque delle modalità di attuazione di quelle volontà. L’abolizione è giustificata, ripeto, ma sembra una via troppo facile per altro in linea con tutta la cultura prevalente e corrente di abolizione di vari enti ritenuti inutili, dalle province alle circoscrizioni e così via, nella sola logica che l’eliminazione di enti porti alla diminuzione di personale politico e di risparmio sui costi. Obiettivi che potrebbero essere anche positivi se conseguenza di una riforma che cerca di rendere più efficiente la politica e, se del caso, anche con un risparmio. Qui invece sono presi, sbagliando, come l’unico obiettivo che, quasi, viene preso a pretesto giustificativo della stessa riforma costituzionale.
Questo obiettivo, assieme ad altri per fortuna, viene messo in capo anche al secondo punto della riforma costituzionale. La riforma del bicameralismo che passa anche sotto il nome di “abolizione” del senato. Invero il senato non viene abolito ma viene riformato come riformata viene la potestà legislativa. Le due camere assumono funzioni diverse, la camera strettamente politica, che ha anche il compito di dare fiducia all’esecutivo, diventa la sola Camera dei Deputati, mentre il Senato ha compiti legislativi limitati, anche se importanti, e una funzione di controllo e rappresentanza delle autonomie locali. In realtà per le modalità con cui vengono scelti i senatori e per come si organizzeranno all’interno del senato è difficile pensarli come rappresentanti delle autonomie locali ma, più che altro, delle forze politiche che li candideranno per cui anche l’assemblea senatoriale diventa un’assemblea prettamente politica. Per questo riesce difficile pensare che i tempi con cui dovrà funzionare siano coerenti con i compiti assegnati affinché l’azione risulti efficace. Inoltre le diverse modalità legislative previste possono essere piuttosto ardue da gestire con probabili conflitti tra il senato e la camera di difficile soluzione. Quindi il pericolo concreto è che l’efficienza e la semplificazione delle istituzioni che poteva essere un obiettivo della riforma si risolvino nella realtà nel loro esatto contrario. Nel campo della valutazione di una Costituzione le questioni di forma sono spesso questioni di sostanza e la validità del documento si misura anche sul piano della sua leggibilità; ebbene basta una lettura del novellato articolo 70 per capire come l’efficienza e la semplificazione siano un mito non realizzato. Resta, poi, la questione fondamentale della rappresentanza politica. Qui è obbligatorio mettere assieme un ragionamento sulla riforma costituzionale e quella elettorale. Per volontà dei proponenti il legame è forte. La legge elettorale approvata è volutamente fortemente maggioritaria e si fonda sul presupposto della individuazione immediata del potere esecutivo. In realtà la nostra costituzione, anche riformata, è una costituzione che delinea una repubblica parlamentare nella quale il corpo elettorale sceglie i componenti dell’organismo legislativo il quale voterà anche il potere esecutivo. La precedente riforma elettorale è stata cassata dalla Corte costituzionale anche perché non aveva un equilibrio tra le due esigenze della rappresentatività e governabilità. Nel quadro costituzionale votato, salvo che non ci sia una certa maggioranza al primo turno elettorale (dove comunque il premio di maggioranza è notevole), la rappresentatività viene del tutto negata e piegata all’esigenza primaria della governabilità. Tenendo conto poi che la camera dei deputati così costruita, avrà anche rilevanti compiti di individuazione degli organi di garanzia, è evidente che si pone un problema di legittimità della gestione del potere con conseguenze rilevanti sul riconoscimento di autorevolezza sia del legislativo che dell’esecutivo e sulla partecipazione democratica e popolare. E qui siamo al cuore della questione. Tutta la riforma, ma si potrebbe dire tutta la filosofia che sta dietro le iniziative legislative in tema di istituzioni, è improntata al mito della democrazia decidente. A questo scopo vengono sacrificate tutte le altre questioni che in una democrazia sono, però, essenziali. Una democrazia non potrà mai essere del tutto “efficiente”. Essa, dovendo conciliare la complessità di una società, passa attraverso il dialogo tra diversi. E’ contemplato sicuramente il conflitto ma non patologico secondo formule mai risolvibili. Essa presuppone un metodo di confronto e, se del caso, di mediazione, che, invece, la riforma, aggravata dalla legge elettorale votata, esclude. Sono, quindi, in discussione due visioni di società politica: una che privilegia solo le decisioni, l’altra che tiene conto anche del metodo per arrivare alle decisioni. Io preferisco sicuramente la seconda. Costruire un sistema “disproporzionale”, come si è convenuto di indicare tale sistema, ha altre controindicazioni inerenti il tema della legittimazione al potere. Nel senso che viene meno la ragione della delega data dai cittadini all’organismo preposto alle decisioni in vece loro. Come noto questo tema è stato discusso a lungo nel corso dei tempi; si è passati da una legittimazione in base alla nascita o alla forza o ad una data a saggi o presunti tali. Tutte forme di legittimazione che cercavano di razionalizzare la delega e, diciamo, tutte ovviamente imperfette. Infine e dopo un lungo percorso si è deciso che il sistema meno ingiusto fosse quello di lasciare alla maggioranza dei cittadini la responsabilità di prendere decisioni vincolanti per tutti (con ulteriori sviluppi quando da una democrazia liberale si è passati ad una democrazia costituzionale dove alcuni principi sono esclusi dalla possibilità di decisione). Ora se viene meno questo sistema e si decide che basta avere una maggioranza relativa anche non molto ampia (e questo avviene nel sistema elettorale votato se non scatta il premio di maggioranza al primo turno) viene meno la legittimazione all’esercizio del potere. Con conseguenze sulla tenuta del sistema sociale dove molti potrebbero non sentirsi rappresentati e trovare altre strade per autolegittimarsi. E’ quello che in realtà succede anche indipendentemente dal sistema elettorale ma che un simile sistema elettorale facilita.
Sul terzo punto della riforma non mi soffermerò molto anche perché l’efficacia delle norme votate sarà verificata nella prassi. Io non sono convinto che la via per risolvere la crisi della democrazia sia quella di privilegiare gli strumenti della cosiddetta democrazia diretta ma penso che istituti che agevolino la partecipazione dei cittadini organizzati o meno alla costruzione delle decisioni sia un bene purché entro regole che non agevolino solo minoranze organizzate e rumorose. Nello specifico penso che sia stato utile il mantenimento dei quorum, meno quello dell’aumento delle firme; che sia stato utile pensare ad altri strumenti referendari che, però, devono ancora essere precisati nel loro funzionamento. Sarebbe stato anche utile pensare ad un meccanismo di partecipazione diretta, per esempio dei primi firmatari di una proposta di legge popolare, alla discussione delle proposte negli stessi organismi istituzionali di discussione.
Il quarto punto, invece, mi sembra proprio negativo. Si risponde alle difficoltà di applicazione delle riforma del 2001 semplicemente invertendo la tendenza. Da una specie di innamoramento collettivo dello stesso termine “federalismo”, spesso senza comprenderne bene nemmeno i termini, si è passati ad un centralismo che cerca di risolvere i problemi complessi della coabitazione di più soggetti aventi potere legislativo con una risposta apparentemente facile come quella di un neo centralismo. Come spesso succede la risposta facile ad un problema complesso risulta sbagliata. Non è che l’abolizione delle materie concorrenti faciliterà la risoluzione dei conflitti tra le istituzioni, anzi penso che proprio la mancanza di questo elemento potrà portare ad un aumento dei conflitti proprio perché, vista la interconnessione delle problematiche, ognuno dei livelli istituzionali potrà vedere una interferenza in una sua materia di competenza primaria in provvedimenti dell’altro livello istituzionale (senza entrare nel merito della discussione in corso sul fatto del superamento del criterio delle competenze per materie). In questa situazione una particolare attenzione deve, poi, essere messa nell’esaminare la presenza delle autonomie speciali che rischiano fortemente di accentuare la propria particolarità e, quindi, il proprio isolamento dal restante contesto istituzionale. A questo proposito la cosiddetta clausola di salvaguardia mi sembra abbastanza debole nel senso che difficilmente (e sarebbe un po’ eccessivo) essa può diventare un reale blocco di iniziativa parlamentare avversa. Vorrei ricordare che, a differenza delle autonomia normali che approvano i loro statuti salvo ricorso successivo dello stato, gli statuti delle autonomie speciali vengono votati dal parlamento e, quindi, sottratti al potere legislativo locale. Ora è ovvio che tutto si gioca sulla capacità negoziale politica ma anche su una cultura del valore dell’autonomia che trovo estranea a questo disegno di legge costituzionale.
In conclusione trovo negativo sia le modalità con cui si modificata la Costituzione sia almeno due, che sono poi i principali, dei quattro punti toccati dalla riforma per cui non mi resta che confermare il mio personale non consenso a questa riforma anche se mi rendo conto che mi trovo in cattiva compagnia ma questo risulta inevitabile in un referendum che sta diventando una specie di inopportuna ordalia.
Caro Michele, offro un mio contributo, probabilmente potrà apparire un tanto schematico, però penso che viviamo un’epoca nella quale sarebbe meglio mettere da parte raffinati discorsi che rischiano di non consentire la messa a fuoco della reale portata del quesito referendario.
Desidero premettere che in questa epoca, come un mantra, il termine “riforme” è invocato come la panacea di tutti i mali della nostra società. Alla fine appare importante non tanto i contenuti delle riforme bensì il loro semplice varo. Così dobbiamo assistere alle riforme promosse e realizzate dal Parlamento attuale, anzi meglio dire dal Governo attuale, visto che quelli che dovrebbero legiferare mostrano aver rinunciato al loro compito, ridotti a semplici “approvatori” delle imposizioni del Governo. Con questo ci siamo già trovati di fronte a una “innovazione” non certo positiva di quanto previsto dalla Costituzione.
Ovviamente non c’è nessuno che possa sostenere che le riforme non devono essere realizzate, pero si tratta, altrettanto ovvio, della condivisione dei suoi contenuti. Di quelle realizzate nell’attuale legislatura ci sarebbe molto da discutere.
Mi limito ad accennare a quella del lavoro, soffermandomi su 2 aspetti.
La riforma adottata, a parte la penosa commedia sui numeri dei contratti stipulati o meno, sulle risorse spese per sostenerli, etc., ha aggravato lo stato dei diritti dei lavoratori e le loro condizioni di lavoro. La precarietà e la subordinazione dei lavoratori senza diritti, in particolare in alcuni settori, non hanno precedenti, nemmeno all’epoca pre Statuto dei lavoratori. Solamente chi non vuol vedere la realtà non si rende conto di tutto ciò. Nemmeno il triste fenomeno del ”caporalato” è stato debellato, anzi, con i “voucher” per alcuni versi e in determinate situazioni parrebbe essersi “legittimato”. La sua ispirazione iniziale, da applicare alle ridottissime situazioni di lavoro stagionale, ora è applicata nelle mostruose e scandalose modalità che sono continuamente denunciate. E non pare che all’orizzonte siano previste “riforme” per ovviare concretamente questa situazione.
Altro aspetto della riforma del lavoro è altro “mantra”. Si sostiene che con la ripresa economica, e quindi con gli investimenti e l’innovazione, saranno risolti i problemi della disoccupazione. Ê una pia illusione, se non vero e proprio inganno.
Sui media è difficile trovare informazioni complete sugli effetti degli investimenti e l’innovazione. Ê ovvio che essi siano necessari, ma in concreto nessuno tratta l’effetto meno benefico, ossia l’inevitabile la riduzione dei posti di lavoro. Difficile trovare nel sistema informativo attuale determinati avvenimenti. Per esempio il fatto che in Cina !!!! in un distretto industriale con 150.000 occupati, investimenti e innovazione, comportano una perdita di 50.000 posti di lavoro. Così pure appare stranamente essere distratti dai risultati del recente Foro di Davos, dove i “potenti del Mondo” hanno fatto presente che gli investimenti e l’innovazione provocheranno una perdita di 5 milioni di posti di lavoro, in particolare nel settore manifatturiero. In Italia, dove quest’ultimo settore è chiave dell’intera economia, si pensa di affrontare queste problematiche con la ripresa economica, avvitandosi nella commedia permanente della ripresa dello zero virgola…? E se si parla di ripresa e sviluppo economico occorrerebbe aprire un intero capitolo di discussione su che tipo di sviluppo si vuole, sulla sostenibilità dello sviluppo così come lo abbiamo vissuto in questi anni.
Quindi come affrontare la questione?
In occasione di crisi di alcune imprese che prevedono riduzione di personale, si cercano – e si trovano soluzioni – attraverso i cosiddetti contratti di solidarietà, ovvero riducendo l’orario di lavoro e mantenendo l’occupazione. Questa soluzione, ossia la ripartizione del lavoro disponile vale solamente per queste situazioni? Non ci si rende conto che nelle varie epoche storiche di rivoluzioni industriali, compresa la prima dei primi anni del 900, si è agito sempre sulla riduzione degli orari di lavoro per dare risposte alle conseguenze delle innovazioni e degli investimenti che comportano inevitabilmente riduzioni de mano d’opera? Certo, la questione è difficile e complicata, ma sarà inevitabile affrontarla.
Sul referendum: sono un convintissimo sostenitore del NO. Aderisco alle motivazioni fornite da vari Comitati del NO, in particolare dagli ex Presidenti e componenti della Corte Costituzionale, derisi e oltraggiati per la loro età, come se il novantaduenne (92) Giorgio Napolitano fosse un giovincello. Anzi, pentito della sua auto personalizzazione sul referendum, legando le sue sorti politiche e quelle stesse del Governo alla sua approvazione, Renzi ora fa marcia indietro e lo proclama come il vero e unico “padre” della riforma Costituzionale.
Anche quest’aspetto indica il livello di serietà nel quale siamo immersi.
Ci sono aspetti di metodo e merito per il NO
Sul metodo. Questa è una riforma fatta in modo disorganico, con una maggioranza ‘pur che sia’, con soluzioni “work in progress”, con eccessiva e ingiustificata fretta. Il tutto condotto in un quadro politico estremamente conflittuale, all’insegna dei proclami di rottamazioni, di messaggi e dichiarazioni attraverso le reti sociali da parte del Governo troppe volte aggressivi, arroganti e squalificanti gli avversari, provocando reazioni che non hanno certamente contribuito a creare nel Paese quel clima necessario per realizzare riforme, specie quella Costituzionale.
Inoltre, ho già citato “l’anomalia” di una riforma Costituzionale promossa dal governo con Camera e Senato che hanno rinunciato al loro ruolo di legislatori.
Fa quindi tenerezza il Presidente Mattarella quando invoca l’unità della Nazione quando tutto questo processo di riforme è stato costruito con metodi esattamente opposti alla ricerca dell’unità del Popolo e delle sue rappresentanze, anche se occorre prendere atto della crisi dei Partiti politici, nessuno escluso, che ovviamente ha agevolato questo stato di cose.
Sul merito.
1. La Costituzione è il patto di convivenza di tutti i cittadini di una Nazione. Quindi il suo ordinamento scritto dovrebbe essere intellegibile per i cittadini. Solamente leggendo il nuovo art.70 della Costituzione riformata e la sua procedura non intellegibile per il comune cittadino è motivo per dire NO. Attualmente in Costituzione quel procedimento è spiegato in una riga e mezzo, nella nuova formulazione servono due colonne in gazzetta ufficiale per descrivere sette-otto procedimenti diversi. La nuova struttura e identità del Senato è ambigua e confusa, Il meccanismo di designazione è affidato ai consigli regionali e a un’indicazione popolare che non si sa bene come sarà regolata. E’ facile prevedere molti conflitti al pari di quelli che vi saranno tra Camera e Senato sul nuovo procedimento legislativo. Non è possibile che la Costituzione preveda norme che dovranno essere posteriormente interpretate, trasferendo ai legulei e/o azzeccagarbugli il “potere” della loro applicazione. E sorprende molto che ora anche taluni fautori del Si ammettono che alcune correzioni sono necessarie, ma incredibilmente dicono che si possono fare dopo. Se ci sono errori è grottesco che si possa chiedere di votare prima per il sì.
2. Su alcune motivazioni a sostegno del SI esiste quella che consente poter accelerare i percorsi legislativi, ora – si dice – rallentati o resi addirittura bloccati dal doppio passaggio fra Camera e Senato. A prescindere dalla necessità o meno di porre fine al potere di Camera e Senato paritario (di cui dirò in seguito) questa motivazione è quantomeno ipocrita, giacché si mette a lato il fatto che in Italia sono fatte migliaia di leggi, anche in questi due ultimi anni l’approvazione di leggi è stata molto sostenuta. Il problema vero è dato dai contenuti e dalla loro applicabilità. Non è forse vero che leggi già approvate sono ancora in attesa dei decreti attuativi del Governo, e quindi inapplicate? O forse sullo sfondo potrebbe esserci una visione per la quale solamente con un Governo “forte”, con un capo altrettanto forte, le cose potrebbero funzionare meglio? Magari riducendo i poteri del Legislativo?
3. La riforma prevede un forte accentramento di poteri allo Stato Centrale a danno delle autonomie locali. Ossia il contrario di quanto prevede la Costituzione attuale. Si sostiene che questo sia conseguenza dalle cattive amministrazioni delle Regioni. Se tuttavia questo per alcune Regioni è vero, si deve buttare l’acqua sporca con il bambino dentro? E poi chi può assicurare che l’attività del Governo Centrale sia sempre e comunque migliore di quella delle autonomie? Ciò è inaccettabile, non si può rinunciare alle battaglie e alle aspirazioni di autogoverno locale, a un federalismo equo e solidale! E in questo ambito inserisco l’Autonomia della nostra Provincia, dove la sua intangibilità non è scontata e tantomeno garantita nel testo della Riforma. Del resto basta osservare i nostri Governanti provinciali, che dopo aver votato la riforma assicurando lo scampato pericolo per la nostra autonomia dall’ondata taglia autonomie, in questi giorni chiedono disperatamente quanto pateticamente un incontro con il Governo centrale per ricevere garanzie, come se un “patto politico” come quello che chiedono – ammesso che lo ricevano – possa avere una valenza superiore a quanto scritto nella nuova Costituzione. Altra forte motivazione per votare NO!
4. Vi sono ovviamente molti altri aspetti della Riforma che meriterebbero, essere analizzate. Non tutti gli aspetti devono essere giudicati negativamente. Mi rimetto ai contenuti dei documenti elaborati da vari soggetti che sostengono il NO, in particolare quello da me citato all’inizio di questo mio contributo. Desidero però soffermarmi ulteriormente sulla questione del Senato, tenendo conto che gli aspetti relativi ai poteri dello Stato devono garantire pesi e contrappesi, evitando, come purtroppo avviene in molti Stati, soprattutto a carattere presidenziale, il potere possa essere detenuto da una sola persona. A questo fine la Legge elettorale votata a colpi di voti di fiducia deve essere modificata, è strettamente legata alla Riforma Costituzionale.
5. Mi chiedo per quale motivo non si sia pensato a un Senato formato da rappresentati delle Autonomie locali, votati dai cittadini assieme all’elezione dei deputati, i cui compiti dovrebbero poggiare prioritariamente sulle problematiche delle autonomie locali? Ovviamente da definire il loro numero e i poteri reali, che consentono il superamento del Parlamento e Senato paritario.
Dico mi chiedo, pero sono cosciente della risposta. Chi ha una visione contro le autonomie e sostiene lo Stato Centrale che fa tutto, non può essere ovviamente d’accordo con un Senato rappresentante delle autonomie. Quindi si è scelto un Senato formato da Sindaci e consiglieri Regionali, il che non si può che qualificare che si tratta di una “farsa”. Lasciamo da parte i nominati dal Presidente della Repubblica, privilegio ormai inconciliabile con una democrazia moderna, e semplicemente da cancellare. Pensare che i Sindaci e i Consiglieri Regionali possano avere il tempo per svolgere correttamente i loro compiti specifici e svolgere adeguatamente e contemporaneamente i compiti di Senatore non si può considerare cosa seria. Come si può pensare di approvare una riforma simile?
In quest’ambito da parte dei sostenitori del Si viene addotta come motivazione anche l’aspetto dei risparmi economici che derivano dalla riforma del Senato. Ê un argomento poco serio, è inevitabile chiedersi e chiedere quanti risparmi si potrebbero realizzare nelle pieghe della politica e dell’amministrazione centrale? E d’altronde, per quale motivo il Parlamento deve essere composto da oltre 600 deputati? Se fosse considerare solamente il tasso di presenza dei deputati ai lavori parlamentari, una robusta riduzione sarebbe gia di per se giustificata.
Ovviamente esercitandosi nell’analisi delle questioni attorno del referendum, vi sarebbero molte altri aspetti da trattare e che ho tralasciato, eventualemente in altra occasione.
Resta un’ultima questione: dal Fronte dei SI, si adombra, perfino si minaccia, il caos in Italia in caso di vittoria dei NO. Ê uno degli aspetti maggiormente odiosi e inaccettabili di questa campagna, s’intravvede la visione di una concezione della democrazia autoritaria. Anche cadesse il Governo, ed io sono fra quelli che pensa che non debba cadere per le conseguenze del referendum, semmai per la sua politica in generale, altra soluzione si troverà. Parrebbe che si dimentichi la sapienza popolare, quando ricorda che nessuno è indispensabile.
Ciro Russo