15 Ottobre 2009

giovedì, 15 ottobre 2009

Ultimo giorno in Palestina, ma forse sarebbe più giusto dire "in Israele". Per non aderire all’inganno e non cancellare il sopruso. L’inganno di uno Stato che non c’è, a dispetto della retorica dei "due popoli e due stati" e il sopruso di un territorio sottratto di giorno in giorno, alla faccia del diritto internazionale.  Vivo questo viaggio attraverso lo stato di Israele e – diciamo così – quel che rimane della Palestina con un’intensità particolare, non so se riconducibile al mio stato d’animo, alla fratellanza che mi lega ad un amico o a considerazioni più politiche circa il carattere esplosivo che la frustrazione può determinare fra i palestinesi e l’assordante silenzio di un’Europa che non c’è. Ne parlo con Ali lungo il tragitto che ci porta di buon mattino all’Università Al Quds dove incontriamo il rettore Sari Nusseibeh di cui vi ho parlato nei giorni scorsi a proposito del suo intervento nella conferenza promossa dalla Tavola della pace di Perugia. E’ lo smarrirsi dell’uomo nel tempo globale che ci interessa indagare e questo sarà pure l’oggetto della conversazione con Sari, interlocutore che si rivela attento e curioso. Lo è verso il mio sguardo sul conflitto, le impressioni avute in questo viaggio, l’immagine della Hummer con targa palestinese che stazionava qualche sera fa nel piazzale della natività attorniata da nugoli di ragazzini curiosi che ne coltivano il mito. Immagine vista troppe volte nella vecchia Jugoslavia ferita per passare inosservata. Ricordo di aver espresso posizioni analoghe a quelle di Nesseibeh già all’inizio del 2000 nel corso di un intervento all’assemblea nazionale di ICS (il Consorzio Italiano di Solidarietà) suscitando più perplessità che condivisione, ma dobbiamo anche dirci fuori dai denti quello della pace sa essere talvolta un mondo conservatore e privo di visione. Posizioni che successivamente si sono sviluppate lungo le coordinate che poi con Mauro Cereghini abbiamo tradotto in "Darsi il tempo". La conversazione si snocciola per flash e nonostante il tempo a disposizione non sia molto (di lì a breve il prof. Nesseibeh s’incontra con il primo ministro palestinese) lo svolgersi dell’incontro è disteso ed accetta subito l’invito che gli rivolgo per venire in Italia e in Trentino nella primavera prossima. Fuori ad attenderci c’è Munser, nipote di Ali, che in questi giorni ci ha accompagnati attraverso questo paese. E’ un ragazzo di rara grazia e alla mia domanda se in questi giorni si sia annoiato seguendoci nel nostro cercare il punto da cui ripartire quasi si schernisce. Nell’incontro con gli anziani del villaggio di Turem avevo colto anche in lui la nostra stessa commozione.  Ci salutiamo e raggiungiamo il resto della delegazione nella Gerusalemme vecchia. Per arrivare al piazzale delle Moschee, avendo interdetto ai turisti la possibilità di arrivarci direttamente dai tanti vicoli della città araba, si deve passare dal Muro del pianto, attraverso due posti di blocco e di controllo. Ali può entrare direttamente ma noi siamo costretti a fare una fila sotto il sole cocente dell’estate lungo una passerella artificiale che grida vendetta al cielo, anche perché, quasi lo dimenticavo, l’entrata nel piazzale è permessa dai soldati israeliani solo un’ora al giorno. Mentre facciamo questo percorso innaturale, un episodio colpisce tutti noi: una donna palestinese con uno sguardo di rara bellezza viene portata via in catene, legata ai polsi e ai piedi. Quel macabro tintinnio non riesce a distogliere l’attenzione dalla sua fierezza tanto che i quattro soldati armati la scortano con gli occhi bassi e sembrano quasi chiederle scusa. Prima eravamo stati al Santo Sepolcro, dove ci aveva accolti Wajeeh Nuseibeh. E’ il custode di quel luogo sacro a tutte le religioni cristiane. L’avevo conosciuto quando ero venuto nel 2000 e la sua figura mi era rimasta impressa nella memoria. Ogni volta che, in occasione di seminari e convegni, ho parlato di elaborazione del conflitto e di terzietà ho portato lui come esempio. Sì, perché la sua famiglia da secoli gestisce quella prassi che va sotto il nome di "status quo", ovvero la regola attraverso la quale viene affidata ad una famiglia palestinese e musulmana il ruolo della custodia e della mediazione fra i conflitti che sorgono in rapporto al Santo Sepolcro. Un soggetto terzo, capace di equilibrio e di autorevolezza. E’ lui a scandire i tempi dell’entrata e dell’uscita delle diverse processioni religiose, è lui a decidere tutto quel che riguarda quel luogo che diviene talvolta teatro di risse violente fra i sacerdoti delle diverse fedi. Tre volte l’anno il Custode consegna le chiavi agli ordini religiosi che decidono se rinnovare o meno la loro fiducia al custode. Che da oltre trecento anni viene affidata alla stessa famiglia. Vediamo gente che strofina contro la pietra del sepolcro i propri oggetti personali. Forme di fanatismo ed il commento che ne viene è che "dove c’è troppa religione, scarseggia la fede". Andiamo a prendere qualcosa di veloce nella trattoria del padre di Munser e, a dispetto delle apparenze del luogo, quel che ci portano è di ottima qualità. Pensate che su quell’attività ci vivono sette famiglie palestinesi. E poi con Ali ed Erica andiamo ad incontrare il Direttore della cooperazione italiana a Gerusalemme, Gianandrea Sandri. E’ di origine trentina e almeno nelle parole sembra che ci si possa capire al volo: vorremmo che nelle nostre attività di cooperazione di comunità il loro ufficio ci accompagnasse creando utili sinergie e sostenibilità delle azioni. Ho già conosciuto il dott. Sandri nei Balcani, quando lavorava a Sarajevo, ma non avevamo trovato occasione di positiva collaborazione. Finito quest’ultimo appuntamento con Ali ci salutiamo, lui rientrerà in Italia fra qualche giorno. Sono stati giorni intensissimi e grazie alla sua sensibilità e mediazione di parola siamo riusciti ad entrare nella realtà di un territorio violentato dai muri e dal filo spinato che, come ha detto una psicologa israeliana di Sderot nel corso di uno degli incontri avuti in questi giorni, sono  entrati  a far parte della genetica della sua gente. "Non sanno cos’è la pace e si è creata negli anni una dipendenza dalla paura". Parole che dovrebbero far riflettere. Raggiungiamo gli altri […]
14 Ottobre 2009

mercoledì, 14 ottobre 2009

Le giornate in Palestina sono così piene che non riesco proprio a trovare il tempo per il "diario di bordo". Troppo lungo sarebbe riportare la cronaca di tre giorni come del resto provare a fare una sintesi della ricchezza di incontri e sensazioni che in parte, del resto, ho cercato di raccontare nell’articolo che trovate nella prima pagina. Scrivo queste note nel viaggio di ritorno da Kana, in Galilea, mentre sono in auto con Ali e Agostino, perché stasera c’è un’altra cosa e perché domani è l’ultimo giorno di permanenza in Palestina e non sarà meno intenso di quelli precedenti. Allora ho pensato di raccontarvi – per quel che le parole riescono ad esprimere – l’emozione che ho provato oggi nell’ascoltare le parole di Ead Khurg, anziano di Turen, villaggio non lontano da Kana. Devo dire che valgono da sole tutto il viaggio, che pure è stato utilissimo per osservare dal di dentro quel che accade in questo scorcio di medio oriente. Perché il vecchio Ead dopo averci ascoltato ci dice che "incontri come questi si svolgono grazie ai profeti oppure per iniziativa di persone dotate di grande umanità". Con gli anziani di Turen ci incontriamo per parlare del progetto del "Vino di Cana", un’idea che con Ali coltiviamo da qualche anno ma che ancora non siamo riusciti a concretizzare pur avendo ricevuto l’imprimatur del presidente Dellai. Le ragioni sono diverse, dai bombardamenti che piovevano in Galilea dal vicino Libano alla difficoltà di trovare interlocutori credibili per un’iniziativa tanto complessa quanto di straordinario valore culturale prima ancora che economico. L’idea progettuale la potete trovare in questo sito nello spazio dedicato alla Palestina all’interno della sezione "Euromediterraneo". E quindi qui non ne parlerò. Ma quando ci sediamo nel "diwan", lo spazio della conversazione e del caffè arabo, con queste persone dai volti segnati dagli anni e che nella loro vita ne hanno viste di tutti i colori, racconto da dove vengo, che rappresento lì non una ong ma una regione che ha conosciuto guerre e nuovi confini, povertà ed emigrazione, e quale sarebbe l’idea progettuale, vedo i loro occhi brillare di commozione (anche quelli di Ali, per la verità).  Ci dicono che, come è ovvio, ne devono parlare ma avverto di aver toccato le corde dell’orgoglio ferito da anni di occupazione. Qui siamo nello Stato di Israele, città e villaggi annessi con la guerra del 1948, ma che hanno conservato gran parte della popolazione palestinese. Sono semplicemente cittadini di serie B di uno stato che gli ha rubato la storia. Per loro non è facile prendere sul serio questa gente che viene da fuori dopo quel che il destino gli ha riservato.  Ma grazie alla voce di Ali che traduce le mie parole, vedo la loro attenzione crescere man mano che si rendono conto che non siamo i soliti "internazionali" saccenti che calano i loro progetti spesso inutili quando non dannosi, su territori che non si possono nemmeno permettere di mandarli al diavolo. Ne parleranno fra loro e con i loro figli, come si fa per le cose importanti, e ci diranno. Intanto parliamo con Mohammed , il nostro riferimento locale per questa iniziativa, sui passi da compiere, in Galilea come in Trentino, per attivare competenze e risorse, tenendo conto che – se la cosa sarà nel loro interesse – dovremmo rivederci e stabilire i reciproci impegni. La circostanza è tale che Agostino Zanotti, fino a quel punto osservatore, racconta loro di quattrocento e passa persone venute in Palestina dall’Europa per parlare di pace e del fatto che nella conferenza di ieri a Gerusalemme si sarebbe aspettato di provare quell’intensità di comunicazione che oggi trova in questo luogo sperduto della Galilea. Perché nella conferenza di Gerusalemme i palestinesi e gli israeliani praticamente non ci sono. Con un’unica vera eccezione rappresentata dall’intervento del rettore dell’Università "Al Quds", considerato dagli organizzatori una positiva provocazione ma pur sempre una provocazione, quel che il sottoscritto va dicendo e scrivendo da qualche anno tanto sul piano della necessità di porre il conflitto israelo-palestinese in una prospettiva postnazionale, quanto di dire basta ad una logica degli aiuti e della cooperazione senza porre alcuna condizione politica. Per il resto, nient’altro di nuovo sotto il sole. A meno di non voler spacciare per nuova l’idea di coinvolgere l’Europa proprio nel momento più acuto della sua crisi di rappresentatività. Credo sia necessaria una diagnosi senza reticenze di questo nostro mondo della pace vittima della propria autoreferenzialità e di una cultura che non sa porsi in una prospettiva di diffuse relazioni territoriali. Era questa la possibile svolta che speravo desse un senso alla parola "responsabilità". Invece nemmeno una parola sulla cooperazione di comunità. Mi spiace, ma proprio non ci siamo. Ne parliamo con alcuni dei partecipanti da "Zalatimo", il pasticcere della vecchia Gerusalemme che ancora sopravvive alla vecchiaia e all’amarezza di non aver più il forno a legna. Suo padre, in punto di morte, lo raccomandò  di aver a cuore il forno che ora è sostituito da un molto più impersonale strumento a gas. Ma la capacità di riflessione dentro i nostri mondi è pressoché scomparsa, preferendo il ricorso ai rituali piuttosto che il nulla. Ma che sa preoccuparsi se un ragazzo di diciotto anni fa una domanda assolutamente legittima al pacifista israeliano che, in quel di Sderot, ci parla dello studente ammazzato nel campus dove siamo da un razzo "Qassan" senza nemmeno dire una parola sull’assedio di Gaza costato la vita a più di mille persone. "Noi abbiamo fatto un percorso di formazione" ci dice uno dell’organizzazione. Mi chiedo cosa cavolo avrà imparato se poi il dialogo diviene vuota retorica. Ogni perdita di vite umane ha valore assoluto, ma la reticenza non aiuta affatto il dialogo. Mentre ce ne andiamo il vecchio Zalatimo quasi rincorre Ali per dirgli che la prossima volta troverà il forno a legna ricostruito per suo figlio che (forse) continuerà a fare le sfoglie più buone di tutta Gerusalemme. Credo faccia bene tanto agli israeliani quanto ai palestinesi ricevere stimoli veri anche se dolorosi  piuttosto che […]
11 Ottobre 2009

domenica, 11 ottobre 2009

Giornata molto complessa. Siamo ad oriente e a Beit Jala fa giorno molto presto. Sono le sei del mattino e già sono al lavoro. In tarda serata Luciana mi ha inviato un messaggio dal Primiero: all’incontro con Roberto Pinter per le primarie del PD del Trentino c’era tanta gente e tutt’intorno tanti funghi. Così, tanto per farmi pesare l’assenza. Ma la cosa mi rincuora perché riuscire a smuovere il popolo del PD (e non solo) è segno che ancora c’è voglia di discutere e confrontarsi. Alle 8.00 mi chiama Gabriella che ha appena finito di leggere il diario di ieri e mi fa piacere perché sono le emozioni che avrei voluto condividere con lei. Con Erica Mondini proviamo a contattare Flavio Lotti, della Tavola della Pace di Perugia, ma non ha tempo per noi. Così il nostro andare da un albergo all’altro per concordare le cose da fare non serve a nulla. Questo modo di fare tutto verticale, per cui o si è allineati alle disposizioni che vengono dal centro o altrimenti non esisti, non mi piace affatto e mi riprometto di parlagliene alla prima occasione. Che un territorio cerchi di costruire le proprie relazioni territoriali a prescindere dall’iniziativa nazionale dovrebbe essere la vera svolta di questa iniziativa, ma così non è e siamo esattamente alle solite. In tanti sono venuti in Palestina, saranno contenti di testimoniare qualcosa di eticamente importante, magari facendo scandalo come qualcuno ha detto nella preparazione di questa iniziativa, e poi questa terra tornerà nel proprio incubo. Che abbiamo contribuito anche noi a costruire in anni di cattiva cooperazione all’insegna dell’aiuto e del tifo, senza comprendere che oggi noi e loro abbiamo in primo luogo bisogno di ragionare. Di capire quel che non ha funzionato, del perché si è perso. Ne parliamo fra noi e sono coinvolti anche i ragazzi che fanno parte della nostra delegazione e che vorrebbero trovare il modo di sentirsi utili alla causa. C’è la frustrazione di toccare con mano una profonda ingiustizia e di avvertirsi impotenti e nell’impossibilità di attivare risposte radicali. C’è in qualcuno di loro un po’ di pregiudizio, pensano che siamo dei pacifisti all’acqua di rose, un po’ vigliacchi di fronte al pericolo. Ma parlarne è utile e vedo che si apre una crepa nelle loro certezze. Mi viene da dire che un po’ di responsabilità è anche nostra perché non sempre siamo disponibili a parlarne, erigendo muri di incomunicabilità. Fors’anche perché interrogarci su come noi rappresentiamo la politica o semplicemente le nostre idee non farebbe assolutamente male. Andiamo nel Centro civico di Beit Jala dove si dovrebbe svolgere l’inaugurazione della festa per l’inizio del raccolto delle olive e ci accorgiamo che in realtà non c’è nessuna festa, ma un po’ di bancarelle di vendita di artigianato e prodotti locali in una struttura che ancora non è aperta, motivo questo – come abbiamo già scritto in questo diario – di discussione con il Sindaco di Beit Jala che vorrebbe ultimare i lavori esterni prima di aprire il centro. Gli diciamo che verificheremo la possibilità di un piccolo contributo ma che contestualmente vorremmo che la società civile si muovesse affinché quel luogo entri effettivamente nel cuore della comunità. Sono di cattivo umore e un po’ la contraddizione brucia. Brucia il fatto che andiamo parlando di un diverso modo di intendere la cooperazione e poi ricadiamo negli stessi errori, in questo caso nella realizzazione di un centro che fino ad oggi la comunità ha vissuto come un luogo estraneo. Ma nel pomeriggio un po’ dovrò ricredermi. Al workshop con le associazioni e l’amministrazione comunale (quest’ultima in preda ad una forte crisi politica) partecipano molte persone. Si avverte che fra loro non ci sono pratiche comuni, ciascuno a parlare della propria associazione peraltro non si sa quanto rappresentativa. E inizia la litania delle richieste. Mentre finisce il giro di parola delle numerose associazioni presenti (donne, giovani, scout ortodossi e cattolici, anziani, madri, gruppi teatrali ed artistici, gruppi per il recupero dei vecchi prodotti alimentari, assistenzia ed altro ancora) arriva Ali Rashid e nella sala c’è un po’ di brusio. C’è anche un po’ di confusione perché non è chiaro lo scopo dell’incontro. Qualcuno se ne va, ed allora è il momento giusto per intervenire. Parlo loro di noi, non di una ong fra le tante che hanno conosciuto nel corso degli anni ma di una comunità che si mette in gioco in una relazione di amicizia. Non siamo portatori di denaro, anche se il luogo dove siamo l’abbiamo finanziato come Trentino. Dico loro che troppo denaro è arrivato in Palestina senza che questo fosse in grado di sedimentare qualcosa di partecipato e sostenibile e che dovrebbero diffidare dalla logica degli aiuti. Dico loro che siamo lì per comprendere il tempo che viviamo, conoscere, capire quale sia il bandolo della matassa dopo che il popolo palestinese ha provato tutte le strade. Domanda che la cooperazione finora non si è neppure posta, presa com’è da un fare autoreferenziale ed inconcludente. E parlo della ricchezza del loro territorio, che in primo luogo sta nella dignità delle persone. Vedo quelli seduti  davanti a me annuire e alla fine la gente applaude.  Presento Ali Rashid che interviene proseguendo nel solco del mio ragionare. Fa leva sull’orgoglio delle persone, parla della pietra rossa di Beit Jala e da man forte al mio ragionamento con la sua autorevolezza e la sua voce suadente. A questo punto, il tono prima contraddittorio della discussione prende un’altra piega e l’incontro diventa propositivo.  La gente si avvicina, vorrebbe proseguire il confronto, in diversi chiedono di rivederci prima della nostra partenza. Seguono i balli e avverto una straordinaria affinità con quelli balcanici, prodotto di una comune identità mediterranea. E poi la presentazione del più grande vestito tradizionale palestinese, prodotto grazie al lavoro manuale di centinaia di donne e alla tenacia di Paola, ragazza calabrese che vive a Hebron. Saluto Ali che rivedrò nella serata di domani ed andiamo a cena, un po’ più rilassati che al mattino. Quant’è difficile (e costosa in termini […]
10 Ottobre 2009

sabato, 10 ottobre 2009

Quanto è diverso. Dove un tempo mi sembrava albergasse la speranza oggi vedo solo un’umanità perduta. La ragione di una terra è diventata un incubo. Una densità che ovunque nella West Bank sta raggiungendo e oltrepassando Gaza, ovunque rifiuti che bruciano a cielo aperto, militarizzazione del territorio, assenza di libertà, arbitrio. Ho come l’impressione che si sia oltrepassato il limite del non ritorno: forse un giorno si potrà abbattere il muro della vergogna, ma certo non si potrà tornare indietro dalla realizzazione dei nuovi insediamenti che rendono irreversibile il sopruso, così come non si tornerà indietro dalla devastazione del territorio con l’edificazione selvaggia nei territori palestinesi. Una corsa all’occupazione del territorio che rappresenta un massacro per tutti. Non me la sento di contraddire i miei giovani compagni di viaggio che vorrebbero fare qualcosa, dicendo loro che non c’è più nulla da fare. Che la partita è persa, sul piano militare come su quello economico, sociale e culturale. Rimarrà l’orgoglio per un’appartenenza irriducibile, un’identità alla quale aggrapparsi, ma mi sembrano prevalere i processi di omologazione culturale che investono tanto i comportamenti e le scelte collettive. Di fronte al sopruso, una persona sensibile dice "basta" e s’interroga su quel che può fare per cambiare questa situazione. Rischiando però di cadere in questo modo nella logica dell’emergenza, del scegliere da che parte stare visto che qui è abbastanza chiaro chi siano gli oppressi e chi gli oppressori. E’ lo schema percorso mille volte, per un ragazzo di diciott’anni magari è la prima, ma personalmente non voglio ricaderci. Non sono qui per portare solidarietà o aiuti. Sarebbe già tanto saper raccogliere immagini. Ascoltare. Cercare di capire dove sta andando questa terra. Farsi un’idea se ancora esiste un bandolo della matassa dove riprendere la trama di un ragionamento possibile. Comprendo al tempo stesso che fra noi non c’è un percorso comune condiviso. In mezzo a questi pensieri si svolge il nostro programma di incontri e visite. Con il Sindaco di Beit Jala, in primo luogo. Che non intende uscire dalla logica delle grandi opere, ma intanto il Centro sociale realizzato con il contributo sostanzioso della comunità trentina ed inaugurato in primavera dal presidente Dellai ancora non è a disposizione della gente, chiuso perché alcuni lavori all’esterno non sono completati e questa è una buona ragione per chiedere nuovi finanziamenti. E nuove opere, sulle quali anche noi talvolta non sappiamo dire di no. Ricadendo così, più o meno involontariamente, nella vecchia cooperazione. Donatori che non s’interrogano sulla reale utilità delle cose e su come queste vengono intese dalla comunità locale da una parte, dall’altra beneficiari che – pur di far girare quattrini e gestire fette piccole o grandi che siano di potere – ti chiedono di realizzare opere che poi regolarmente rimangono lì come cattedrali nel deserto, prive d’anima perché nessuno le pensa come sue. Proviamo a spostare la discussione sul programma di attività da realizzare nel centro, ma il problema di fondo permane. Tanto che le associazioni del posto che incontriamo in serata non sapevano nemmeno del nostro arrivo. Dopo il sindaco la giornata prevede una serie di incontri a Ramallah e dintorni. Il grosso della delegazione si è già spostato di buon mattino verso la capitale dell’ANP,a visitare un campo profughi. Noi li raggiungiamo in tarda mattinata con un taxi. E qui, su un banalissimo taxi, avviene un episodio che mi riempie di commozione. Il taxista sfreccia come un forsennato verso la nostra destinazione, lungo strade impervie visto che le autostrade sono in larga parte interdette ai palestinesi. Parla con Giulia, donna palestinese che vive in Trentino da molti anni, attivista di "Pace per Gerusalemme e nostra interprete. Gli chiede di dov’è e quando Giulia gli risponde "di Beit Jala" si avvia un fitto dialogo per sapere i dettagli della sua famiglia. Emad, questo il nome dell’autista, e Giulia hanno la stessa età, si scrutano e quando Giulia gli dice di chi è figlia, Emad gli risponde sorpreso che non sapeva che "Ala" avesse una sorella minore. Ma Ala è il nome da bambina di Giulia e così scoprono che un tempo loro due erano compagni di giochi. L’emozione è grande, io e Erica con loro. Piccole storie di vita, di separazione e d’incontro. Raggiungiamo Ramallah dove ci riuniamo con il resto della delegazione. E andiamo a Bilin, nelle vicinanze del muro che si sta costruendo nonostante la mobilitazione della gente del posto. Ogni settimana il Comitato popolare Libertà e Giustizia organizza una marcia nonviolenta ma questo non li mette certo al riparo dalla repressione più brutale, con gas lacrimogeni, pallottole di gomma e tutto il resto. Ce le fanno vedere le pallottole di gomma, veri e propri proiettili che nei mesi scorsi hanno ucciso uno di loro. Entriamo nella casa di Iyad Burnat dove ci viene mostrato un filmato sulle azioni di resistenza alla costruzione del muro e dove ci viene offerto il loro cibo, ottimo e all’insegna del turismo responsabile. Risaliamo sul pulmino e andiamo nei pressi del muro che in questo caso è filo spinato percorso dall’elettricità e sorvegliato dalle telecamere. I nostri accompagnatori non intendono farci scendere, suscitando l’ira dei ragazzi. Vorrebbero fotografare, magari compiere qualche gesto simbolico. Difficile spiegare che non siamo lì per questo. Ritorniamo sui nostri passi e di nuovo a Ramallah. Una grande città, dove grazie al suo ruolo di capitale di fatto sorgono edifici modernissimi e dove le case sono molto costose. Ministeri, ambasciate, attività economiche, i primi centri commerciali. Incontriamo l’associazione Adamir che si occupa della tutela dei prigionieri politici palestinesi in Israele come in Palestina. Cose più o meno conosciute, ma il racconto ti coinvolge e il velo della legalità israeliana e del suo stato di diritto ne esce stracciato. Anche l’AN, per la verità, non ne esce granché…  Accanto a noi, nel bar all’aperto dove si tiene l’incontro, delle ragazze palestinesi tirate di tutto punto e senza traccia di chador fumano il narghilè. E la vita che si svolge nel centro è uguale a quella di altre capitali. Un passaggio alla tomba di Arafat, una […]
9 Ottobre 2009

venerdì, 9 ottobre 2009

Scrivo da Beit Jala, Palestina, dove ritorno dopo quasi dieci anni. E prima di ogni altra cosa mi guardo attorno, cercando di mettere a fuoco alcune immagini. Non è solo il muro a far vergognare questo lembo di terra.  E’ anche l’incredibile proliferare di case e palazzi, ovunque, a segnare confini, accanto ai muri e al filo spinato. Non ne ho mai visto così tanto, di filo spinato, che non lungo gli improbabili confini fra le zone controllate dagli israeliani e quel che rimane del territorio palestinese. Eppure, la storia… Sì, perché ormai ogni collina intorno a Gerusalemme e Betlemme è un nuovo insediamento di coloni israeliani provenienti da ogni dove, migliaia di case sorte nella più totale illegalità ma legittimato dalla forza delle armi. A cui corrisponde un degrado urbanistico che fa male alla terra, a prescindere che sia "promessa", santa o dei profeti. Una seconda immagine. E’ l’ingresso di Gerico, insediamento umano fra i più antichi della terra ed anche con le radici più profonde visto che siamo a 260 metri sotto il livello del mare, nella depressione che porta al Mar Morto. Città biblica suo malgrado, se consideriamo che il luogo dove secondo le ricerche Giovanni Battista battezzò Gesù di Nazareth è oggi un campo minato. Ebbene all’ingresso di questa città palestinese campeggia un enorme parallelepipedo di cemento armato e pietra, circondato dal verde quando tutt’intorno la terra è arida. E’ l’Intercontinental, grande hotel e casinò dove il denaro non conosce confini. Per nulla diverso dagli "Intercontinental" che incontri altrove, siano essi a Belgrado o a Nairobi, se non per lo scenario che lo scenario che lo circonda. Ma segna lo spazio e il tempo. E’ la cifra della postmodernità. Quella stessa cifra la puoi osservare anche nei market diffusi dappertutto, strapieni all’inverosimile dei sottoprodotti dell’economia globale. Non si vendono libri, ma schifezze di ogni genere le trovi ovunque, a testimoniare di un’omologazione culturale strisciante che a sua volta se ne frega dei confini. Un’economia senza qualità, fatta di commercio e di businnes, di automobili e di carrozzerie, di cantieri e di cumuli di detriti. Non diverso lo schema sul mar Morto. Ci portano a visitare uno stabilimento balneare modello Rimini d’estate, con tanta di bandiera israeliana tanto per dire di chi è quel luogo. Bob Marley e i Beatles a tutto volume, ma i musulmani qui non possono entrare. Quando ce ne andiamo troviamo in nostro piccolo pulmino con targa palestinese circondato dai Gran Turismo israeliani, senza alcuna possibilità di uscita. Dobbiamo spostare delle pietre per poter prendere una via che attraverso un campo ci permette di metterci di nuovo sulla strada. Piccole storie di cattiveria e prepotenza. Al Monastero di San Giorgio. Nella spettacolare valle di Giuda,  dove solo le capre riescono a trovare di che vivere, scendiamo a piedi fra le pareti di roccia scavata dalla natura, nella speranza di trovare sul fondo almeno un rivolo dell’acqua che un tempo scorreva. Ma la guerra, si sa, si combatte anche deviando il corso dei fiumi, non ammazzando bensì "togliendo la vita".  Giovani e vecchi beduini, un tempo nomadi orgogliosi ed ospitali, trasformatisi anch’essi in venditori di cianfrusaglie, si azzuffano per  conquistarsi un cliente. Chissà che cosa penseranno di loro quei poveri asini condannati a fare avanti e indietro su una stradina di cemento per sollevare i turisti dalla fatica, si fa per dire, di qualche centinaio di metri di risalita. Ritorniamo al muro della vergogna. Il suo tracciato taglia il territorio della municipalità di Beit Jala, ma in qualche tratto non è ancora completato. Grazie ad una battaglia sociale ed una causa civile s’è aperto un contenzioso sulla legittimità di esproprio per aree che producono frutta e olive. Coltivarle significa dare meno strumenti in mano agli israeliani per legittimare la loro prepotenza. Nel tardo pomeriggio, proprio mentre stiamo sulla strada del ritorno, chi di noi s’è dovuto fermare in Comune a Beit Lala per preparare l’evento di domenica prossima viene contattato per andare a vedere di questa incresciosa situazione. Pane per la nostra relazione di comunità. Nell’imbarbarirsi delle relazioni c’è chi trova la forza del dialogo e dell’elaborazione del conflitto. E’ Sami Adwan, professore all’Università di Betlemme, autore de "La storia dell’altro", edizioni Una Città, che qualche anno fa ha ricevuto per questo il Premio Langer. Nelle sue parole vedo i miei racconti balcanici, la fatica e la gioia di raccogliere i racconti degli altri, le interviste agli anziani, i filmati delle testimonianze di vita. Storie parallele, in latitudini diverse. Gli spieghiamo perché siamo qui, lui che è di Beit Jala non sa nulla della relazione fra il Trentino e la sua comunità, il che ci dice molte cose sulle quali riflettere. Ma in serata, nel centro della cittadina che confina senza soluzione di continuità con Betlemme, vediamo molti cartelli che parlano di questa nostra relazione e degli incontri che avremo nei giorni successivi. La realtà è davvero sempre complessa. Ci attendono giornate intense. Buona notte Palestina.  
8 Ottobre 2009

giovedì, 8 ottobre 2009

Ritorno in Palestina. C’ero venuto nel 2000, poco prima che Sharon mandasse all’aria gli accordi di pace di Oslo, in un clima completamente diverso da quello attuale. Sembrava, nonostante la presenza di forze contrarie, che la strada maestra fosse segnata. La speranza prevaleva sopra ogni difficoltà, anche se nelle piccole cose si poteva cogliere l’assenza di un reale processo di riconciliazione. Allora, la rappresentazione della "Pietà" con le musiche del maestro Piovani nel piazzale della Natività, sembrava quasi annunciare l’inizio di una nuova pagina di storia. Ma, come spesso è accaduto nella disgraziata vicenda di questa terra, quando sembrava possibile la pace, la situazione è precipitata. Con il pullman percorriamo un’autostrada chiusa dal muro della vergogna e dal filo spinato. Tutt’intorno i nuovi insediamenti dei coloni occupano ogni collina ed ogni altro spazio vitale. Fra un insediamento e l’altro gli antichi terrazzamenti che raccontano di un popolo che amava la terra, ulivi millenari che ancora provano a resistere alla follia. Fatico a ricordare, tanto sono cambiate le cose. Compresa la piazza della Natività di Betlemme dove un centro intitolato alla pace impedisce lo sguardo che un tempo spaziava verso le colline circostanti. L’impatto con il muro che passa fra le case a Betlemme è un pugno nello stomaco. Dove può arrivare la stupidità? Come non capire che un muro imprigiona anche chi lo costruisce? Come non vedere la comunità di destino che a questo punto unisce palestinesi  e israeliani? Ritrovo luoghi conosciuti e una certa famigliarità che viene dalle storie di vita, dalla mia amicizia con Ali, dalla vicinanza con una causa persa, dal sentirmi parte di una cittadinanza europea che a questi luoghi deve in gran parte le sue origini. Mi chiama Ali che ci raggiungerà domenica. Gli descrivo la sera di Beit Jala che vedo dall’hotel in cui siamo alloggiati, la civiltà dei muri a secco che circondano gli ulivi e quella dell’uomo moderno che i muri li costruisce di cemento armato attorno alla vita delle persone. E’ preoccupato per la situazione di tensione che c’è in queste ore a Gerusalemme. Ci sono i primi contatti con i nostri referenti locali e, come sempre accade, ci si rende conto che nella preparazione delle iniziative che faremo insieme le aspettative fra noi e loro sono un po’ diverse.  Non è solo un problema di comunicazione, riguarda gli equilibri locali, le piccole dinamiche di potere, il significato che diamo alla nostra relazione, le macerie della cattiva cooperazione. Ma nei prossimi giorni avremo modo di spiegarci. I vicoli di Betlemme la sera testimoniano di un antico splendore. Forse sarebbe il caso di ripartire da qui ma temo che sia troppo tardi.  
7 Ottobre 2009

mercoledì, 7 ottobre 2009

Domani, ben prima dell’alba, si parte per Gerusalemme. E quindi oggi c’è da diventar matti nel correre dietro alle ultime piccole cose che riguardano il viaggio ma soprattutto l’aver concentrato tutto il possibile in questa giornata. Inizio con la riunione di "Viaggiare i Balcani" presso la sede dei "Tavoli Balcani" di via Milano. Con Claudia, Luca e, via skype, Eugenio facciamo il punto delle attività e predisponiamo la scaletta delle proposte da presentare come progetto alla PAT. Ormai la cosa è più loro che mia ed è bene che sia così. Ora che gli itinerari sono ricchissimi e diversificati, ora che l’idea di un turismo in armonia con la natura, la storia, le identità dei territori piano piano si va affermando, è necessario puntare grande parte del nostro lavoro sulla conoscenza e sulla diffusione delle proposte di viaggio. Nelle scuole, nei Comuni, nelle associazioni, il viaggio di studio può diventare una pratica diffusa ed anche piacevole, senza dimenticare la bellezza dei luoghi e della natura. Alle 11.30 ci incontriamo al Forum con Elio Srednik che da tempo coordina i gruppi folkloristici locali per ragionare sulla realizzazione di un evento del quale abbiamo già parlato in queste pagine su proposta di "Danzare la Pace". Proposta che in un primo momento (e forse a ragione) non era stata presa in considerazione perché calata dall’alto e senza il minimo coinvolgimento di chi sul territorio ci lavora, ma che se impostato diversamente attraverso il coinvolgimento dei soggetti può trovare spazi aperti. Che cosa meglio della danza può favorire il "corpo a corpo" di cui andiamo da tempo parlando a proposito della necessità di rompere l’isolamento (e l’autoreferenzialità) dei luoghi della pace? Alle 12.30 riunione del Gruppo Consiliare provinciale del PD del Trentino sul tema della scuola. L’assessore Marta Dalmaso ci spiega il provvedimento assunto dalla Giunta in tema di orari scolastici, moduli, necessità di contenimento della spesa corrente. Una parte del mondo sindacale e della scuola superiore la vogliono mettere sotto accusa, con l’imputazione di avere maggior zelo nei tagli della ministra Gelmini. Avverto che il confronto nel Gruppo è privo di fondamenta e che il dibattito sollevato attorno all’accordo Pat – Miur di qualche anno fa qui non trova traccia se non nella contrarietà, un po’ demagogica e politicamente inconcludente, della Cogo. In assenza di una valutazione condivisa su quel delicato quanto strategico passaggio risulta piuttosto difficile proporre un approccio ragionevole che difenda al tempo stesso l’autonomia della scuola trentina, la sua razionalizzazione, nonché il suo grado di specialità sul piano della qualità dell’insegnamento e dei servizi offerti. Finiamo che sono passate da poco le 14.30 ed ho un’intervista telefonica con la rivista "Carta"  intorno alla legge sull’educazione al consumo e le filiere corte. Le informazioni fanno il giro del mondo e la giornalista vuole saperne di più, capire come inquadrare nello schema interpretativo della rivista questa proposta. Le racconto la genesi e l’evolversi del progetto. Davvero con questo DDL potremmo fare scuola in Italia. Verso le 15.30 mi vedo con Francesca Vanoni dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. Dobbiamo parlare dell’impostazione del programma del convegno internazionale "Il lungo ‘89" di metà novembre e dell’impostazione della sua introduzione nella veste di direttora supplente (fin quando Luisa non finisce la maternità). Nel confronto ci troviamo più d’accordo che altre volte nell’inquadrare l’attuale stato dei Balcani in relazione ai processi di non elaborazione della natura paternalistica e corrotta dei vecchi regimi ma anche della fase di transizione seguita alla caduta del muro. Ormai sono le 17.30 e fra un po’ ci attende la riunione dei candidati delle liste "Democrazia è partecipazione" a sostegno di Roberto Pinter. La riunione alla sede del PD del Trentino è abbastanza affollata di persone molto diverse fra loro, il dibattito buono e – dopo esserci chiariti sull’impostazione della campagna e sulle iniziative da mettere in cantiere, mi dirigo verso casa. Cucino due tagliatelle ai funghi e poi mi tocca di fare la valigia. Sono le 22.00 e dovrei fare un po’ di cose che mi ero ripromesso. Ma dopo un po’ mi rendo conto che le ore di sonno ormai sono ridotte al lumicino. Alle 2.30 la mia sveglia naturale mi butta giù dal letto. Buon viaggio in Palestina.  
6 Ottobre 2009

martedì, 6 ottobre 2009

Al Colle di Miravalle oggi si tiene una cerimonia particolare. Dal 22 gennaio 2009 la Fondazione Opera Campana dei caduti di Rovereto è diventata "osservatore speciale" all’Onu, riconoscimento che permette alla Fondazione di sedere tra gli Osservatori permanenti nel Consiglio delle Nazioni Unite. Per celebrare questo evento il reggente della Fondazione Alberto Robol ha promosso un singolare incontro fra i consiglieri della X legislatura che il 10 giugno 1991 votarono la legge istitutiva del Forum trentino per la Pace e quelli della XIV e attuale legislatura, come a farne un bilancio nell’anno della maturità. Mi immaginavo una limitata partecipazione di vecchi e nuovi consiglieri ma così non è. Segno che in fondo quella legge rappresentò al meglio quel delicato passaggio di tempo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, la speranza che la fine del bipolarismo avrebbe aperto un futuro di pace e le nubi che si addensavano, nel cuore dell’Europa come in Medio oriente. E che ancora oggi la pace continua a rappresentare un terreno decisivo di riflessione e di impegno. Intorno alle 11.00 iniziano gli interventi. Apre il padrone di casa Alberto Robol. A ruota, seguono gli interventi del vicepresidente del Consiglio Provinciale Claudio Eccher, del presidente della Giunta provinciale Lorenzo Dellai, del primo firmatario della LP 11/91 che istituì il Forum Paolo Tonelli. Ed il mio intervento a chiudere. Con emozione parlo dei diciott’anni della legge, di come in questo tempo sia cambiato il mondo e di come noi stessi dovremmo interrogarci di quanto le nostre istituzioni e gli strumenti legislativi sanno interpretare i cambiamenti e trasmettere i valori della pace. La pace, i diritti umani, la solidarietà… anche le parole, queste nostre parole, hanno bisogno di manutenzione, ed è questa, del resto, l’impervia strada che abbiamo intrapreso come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Non senza incontrare resistenze e conservatorismi. Ha ragione Lorenzo Dellai nel rivendicare una continuità politica ed istituzionale che in questo incontro è ben rappresentata. Così, quello che avrebbe potuto essere un rituale autocelebrativo non lo è stato affatto. La cerimonia si conclude con la lettura di una poesia di Sandro Boato e con i cento rintocchi di Maria Dolens. Il resto della giornata se ne va davanti al computer. Prima di partire per la Palestina ho un sacco di cose da scrivere, ma già intuisco che mi porterò un po’ di compiti nel viaggio.  
5 Ottobre 2009

lunedì, 5 ottobre 2009

Giornata fittissima di appuntamenti e impegni. Il primo di questi è con la Cassa Rurale di Aldeno e Cadine. Ci si trova per verificare quali sarebbero le condizioni per il servizio di tesoreria per il Consorzio di Miglioramento Fondiario di Sopramonte. Nell’assemblea di domenica 27 settembre finalmente la proposta di costituire il Consorzio è stata approvata ed ora si tratta di mettere in moto la complessa macchina per attivare tutte le iniziative funzionali alla valorizzazione fondiaria e agricola dell’area interessata. Sono curioso di come i quotidiani locali trattano la prima Convenzione del PD del Trentino. Per il Trentino quasi l’evento non esiste, relegato in uno striminzito articoletto. Niente male, viene da dire. Ben altro trattamento su L’Adige dove, oltre alla cronaca, campeggia in prima pagina l’editoriale di Luisa Patruno. Come sempre tagliente nel suo descrivere (ed in qualche misura anticipare) la vittoria di Giovanni Kessler nella disputa con Ale Pacher ed il conseguente autolesionismo del PD del Trentino. C’è del vero in quel che scrive, ma non è affatto detto che questo sarà l’esito delle primarie del 25 ottobre. Alle 10.30 incontro in ufficio l’assessore del Comune di Malé Marina Pasolli che mi illustra il progetto "Pace e diritti umani" che il suo Comune insieme a quello di Cles intendono realizzare nella primavera 2010. Si tratta di un complesso di iniziative per sensibilizzare le comunità locali attraverso una camminata per la pace che unisca simbolicamente i due Comuni, seguita da incontri pubblici, seminari con la partecipazione di studiosi della pace e dei diritti umani, una mostra fotografica con oggetto le installazioni che nel mondo rappresentano i diritti umani, un libro dedicato. Viene richiesto il patrocinio del Forum e rimaniamo che ad un primo orientamento positivo seguirà un’espressione formale. Affermo, quasi anticipando l’esito della serata, che il rapporto con le comunità locali sarà fra i punti centrali del programma di lavoro che proprio oggi viene discusso nell’assemblea del Forum. Programma sul quale opero gli ultimi ritocchi e invio al Forum affinché possa essere stampato prima della riunione del tardo pomeriggio. Verso mezzogiorno mi vedo con Roberto Pinter per ragionare insieme sui temi della formazione politica, in relazione all’incontro programmato nel pomeriggio all’Università e rivolto ai quattro candidati segretari del PD del Trentino. E’ un tema che mi appassiona, convinto come sono che l’educazione permanente sia un passaggio chiave per una partecipazione consapevole. Tema quello della formazione che oggi trova una crescente attenzione, ma che se viene affrontato nell’ambito di appartenenze partitiche rischia di morire sul nascere, come del resto è già avvenuto con il "vivaio" proposto da Lorenzo Dellai. Alle 13.00 ho appuntamento al ristorante della cooperazione con gli amici del coordinamento del Progetto Prijedor che mi aggiornano sulle attività e sulla programmazione del Consiglio dell’Associazione. Con Giuseppe Ferrandi che da un paio d’anni ne è il presidente abbiamo cercato di impostare un lavoro di straordinario valore sui temi dell’elaborazione del conflitto e della memoria in un’area tragicamente segnata dagli avvenimenti degli anni ’90. Un boccone al volo e poi alle 14.30 mi trovo in Municipio con il Sindaco Alessandro Andreatta. Abbiamo molte cose di cui parlare, in primo luogo il  tema dell’inceneritore. C’è anche nelle fila del centro sinistra un po’ di fibrillazione intorno alla realizzazione di quest’opera: gli parlo della mia posizione (vedi articolo in dialogo con il direttore de L’Adige sulla home), della necessità che il ciclo rifiuti si chiuda in Trentino e che la regia dell’operazione sia pubblica, perché solo così avremmo certezze sul carattere modulare e "a termine" dell’impianto. Mi sembra di trovare attenzione e consenso. Parliamo anche della necessità di avere fra il Comune di Trento e l’attività del Forum una stretta collaborazione, anche indicando una figura di riferimento nel Consiglio Comunale. L’incontro si protrae più del previsto e quando arrivo al gruppo consiliare la riunione prevista è già quasi terminata. Qualche altro veloce contatto e poi inizia l’assemblea del Forum. E’ la prima dopo la mia elezione a presidente e l’incontro è dedicato alla proposta di programma, ma meglio sarebbe dire all’approccio programmatico che intendiamo dare nel corso dei prossimi cinque anni. Il documento presentato lo trovate in prima pagina e rappresenta, come dice Erica Mondini nel suo intervento, effettivamente quel cambio di passo che ci si era riproposti. E che già nelle prime battute dell’attività del Forum abbiamo cercato di realizzare, uscendo dagli schemi di un pacifismo talvolta autoreferenziale. L’adesione degli intervenuti è molto favorevole ed anch’io sono piuttosto soddisfatto della proposta che rappresenta la sintesi dei molti pensieri emersi durante la consultazione estiva. Ora staremo a vedere la nostra capacità di attuare quel "corpo a corpo" auspicato affinché la pace diventi cultura ed azione di governo.  
4 Ottobre 2009

domenica, 4 ottobre 2009

Fine settimana intenso quello che sta per concludersi. E il tempo per tirare il fiato bisogna ritagliarselo a fatica. Sabato mattina c’è il Convegno "La civiltà nel piatto" che dà il via alla due giorni di "Naturalmente Bio!". Già l’anno scorso vi avevo partecipato, ma da persona attenta a questi temi e per aver portato altrove in Europa il messaggio del "Buono, Pulito e Giusto" caro a Slow Food. Quest’anno invece mi ritrovo relatore, estensore e co-firmatario del Disegno di Legge sulle filiere corte e l’educazione alimentare che a breve arriverà in Consiglio per l’approvazione definitiva. Ed è proprio attorno a questa iniziativa che ruotano il saluto del dott. Fezzi in rappresentanza dell’assessorato all’agricoltura e quello dell’assessore Vaccari del Comune di Rovereto, a testimonianza del valore che assume questa iniziativa consiliare. Devo dire che un po’ mi stupisce che l’assessorato non abbia qualcosa di più da dire e del resto la stessa assenza di Mellarini non è casuale. Le relazioni che seguono sono interessanti e testimoniano di un impegno a sostegno del biologico che attraversa le regioni italiane. Nel mio intervento cerco di sottolineare il valore interdisciplinare dell’iniziativa legislativa, il suo rappresentare la possibile risposta di un territorio alla crisi globale, il suo valore culturale sul piano della coesione sociale. Nei presenti in sala e nei loro interventi si coglie la fatica nel dare cittadinanza a questi temi, ma anche l’orgoglio di avercela fatta e di veder premiata la scelta della qualità nella produzione alimentare come nell’offerta alberghiera o nella ristorazione. Ed anche la speranza che la politica sia capace di attenzione verso l’agricoltura biologica, come nelle parole di Sergio Ferrari, direttore di "Terra Trentina", che mi esorta ad un nuovo disegno di legge proprio sul biologico. Finisce con un ottimo pranzo curato da Walter Montibeller, cuoco e titolare di un agritur, anzi di un bioagritur, a Roncegno. Tutti i prodotti utilizzati – ci spiega – sono biologici, tranne il grana trentino. Il pomeriggio se ne sta andando ma trovo il tempo per andare a vedere se c’è qualche porcino in valle. Nonostante il nubifragio della notte precedente, l’ora tarda e le orde dei raccoglitori, i miei posti non tradiscono e quando arrivo a casa stupisco Gabriella che pure aveva fatto un giro con Nina al mattino, ma senza grandi risultati. Fin che non mi prende la stanchezza (e dopo aver curato e messo nel congelatore le "brise") mi metto a scrivere la relazione per l’assemblea del Forum di lunedì. E’ un lavoro complesso perché la fase di preparazione durante i mesi estivi è stata ricca di stimoli e di idee. Vorrei inviarla anticipatamente a tutti i componenti l’assemblea ma a mezzanotte sono ancora lì, alla prima scrittura. La rivedrò nella serata di domenica. Domenica mattina c’è invece la prima Convenzione del PD del Trentino. "Convenzione provinciale" dice la scritta che campeggia nella sala e questo ci dice quanto la cultura federalista sia ancora poco di casa in questo partito che si vive come articolazione di un soggetto nazionale, non come un soggetto autonomo e federato. Tante persone affollano la sala della Cooperazione, una platea ancora diversa dai partiti di provenienza e questo ci descrive effettivamente qualcosa di nuovo. La convenzione è sicuramente un atto formale, il dibattito c’è già stato nei circoli e continuerà ad esserci fino alle primarie del 25 ottobre quando insieme al segretario nazionale si eleggeranno il segretario e l’assemblea del PD del Trentino. Ciò nonostante, negli interventi del segretario uscente Maurizio Agostini come in quelli dei quattro candidati emergono i profili politico culturali delle diverse proposte. Ad intervenire per primo è Roberto Pinter. In suo è un intervento sferzante, efficace, politico. Ed anche forse il più applaudito. Lo riporto integralmente nella home page. Segue Giorgio Tonini. Con Giorgio c’è affinità culturale ma si avverte che è sulla difensiva. Non sarà uno dei suoi migliori interventi. Indica la necessità di oltrepassare il ‘900, ma poi si fa risucchiare dal pensiero di Alcide Degasperi, dirigente politico di straordinarie intuizioni ma anche uomo del suo tempo. Ed il riferimento alla dimensione nazionale, che propone come sua prerogativa, non lo aiuta affatto ad una visione che invece dovrebbe essere territoriale e sovranazionale. Dopo Giorgio, Renato Veronesi. Un intervento, il suo, retorico e vuoto. Come del resto la sua mozione congressuale. E non è sufficiente il richiamo a Bersani per accattivarsi il consenso. Che invece sarà piuttosto tiepido. Infine Michele Nicoletti. Un bell’intervento il suo, forse più culturale che politico, come del resto gli viene naturale. Che accoglie consenso, ma meno di quello che ci si poteva aspettare. Complessivamente un profilo positivo, che ci fa ben sperare nel dibattito delle prossime settimane e nel dopo congresso, quando finalmente questo partito avrà un gruppo dirigente speriamo all’altezza del primo partito trentino. Il dibattito che segue è un po’ scontato, così come la presentazioni delle mozioni nazionali. Alle 16.30 è tutto finito. Eletti i delegati all’assemblea nazionale, naturalmente su lista bloccata. Tant’è che non serve nemmeno una votazione. Me ne torno a casa. Un breve stacco e poi a sistemare la relazione per il Forum e a scrivere il "diario di bordo". Domani inizia una settimana senza tregua. Almeno fino a mercoledì, perché giovedì di primissimo mattino si parte per la Palestina. Il che mi riempie di gioia.  
2 Ottobre 2009

venerdì, 2 ottobre 2009

Per prima cosa mi preparo gli appunti per la presentazione della Proposta di legge sulle filiere corte e l’educazione alimentare al Convegno nazionale di Naturalmente Bio che si svolgerà domani (oggi per chi legge) a Rovereto. Mentre butto giù gli appunti penso alla distanza che avverto crescente fra il dibattito congressuale del PD e i processi reali che investono l’economia locale e, più in generale, la vita delle persone. Nessuna retorica populista, sia chiaro. La società civile e la politica si rispecchiano abbastanza fedelmente, ma al tempo stesso alla politica è richiesto qualcosa di più, interpretare il proprio tempo, cogliere i cambiamenti, indicare le soluzioni. Se invece la politica si riduce al rispetto delle regole o ad un "nuovismo" molto spesso vuoto di idee, non si va molto lontano. Un "nuovo" per modo di dire, ed il fatto di essersi tenuti lontani dalla politica, magari al riparo dei poteri forti o di potenti famiglie, non dovrebbe costituire motivo di vanto. Mettersi in gioco per molti di noi è costata l’amarezza dell’emarginazione e molto altro. Oggi invece sembra quasi che la politica possa rappresentare una parentesi, "prestati alla politica" si usa dire e alla domanda "perché ci si dovrebbe impegnare in politica?" si risponde "per contare di più nei luoghi del potere". Alla faccia delle idee… Perdonatemi questa parentesi, ma proprio non riesco a sopportare l’ipocrisia del "vino nuovo". Preparo un piccolo dossier da distribuire al Convegno di domani. Leggo la posta, aggiorno il sito e poi vado al Gruppo. E verso le 11.00 ho un appuntamento al Forum con Vincenzo Barba, protagonista negli ultimi anni di "Danzare la pace". Mi presenta la sua proposta di realizzare un festival del folklore trentino, a partire dal fatto che la nostra comunità ha da tempo smarrito le proprie tradizioni di danza. Avverto questa proposta in profonda sintonia con la necessità di far uscire la pace dalle secche del pacifismo, esplorando mondi e creando contaminazioni attraverso il tema della memoria. Vincenzo aveva immaginato un’iniziativa rivolta al mondo della scuola ma gli propongo di andare oltre. Non si aspettava che io rilanciassi e la cosa quasi lo spiazza. Ovviamente la cosa gli fa piacere, e allora stabiliamo insieme un percorso di incontri e una rimodulazione della proposta che si vorrebbe realizzare a maggio del 2010, nello splendido scenario di Castel Beseno. Già che ci siamo anticipiamo l’incontro che avevo messo in agenda per il pomeriggio e con Luisa, Francesca e Martina facciamo il punto sulle varie attività del Forum anche in preparazione dell’Assemblea di lunedì prossimo. Mettiamo a fuoco la proposta da avanzare all’assessorato all’istruzione intorno al "progetto formazione" e al rinnovo della convenzione che sta alla base di "Millevoci", luogo dell’interculturalità che risente la fatica del tempo. E non solo. Abbiamo fatto le 13.30. Ritorno in ufficio e mi metto a scrivere fin quando perdo la concentrazione. Arriva Luca Zeni e mi metto a conversare con lui sul PD e sulla mia preoccupazione circa l’inadeguatezza di quel che oggi questo partito rappresenta. Domenica ci sarà la prima Convenzione del PD del Trentino. Venti giorni ci separano dalle primarie e finora il dibattito sui temi veri del futuro del Trentino e della nostra autonomia non è ancora decollato. Ci riusciremo o prevarranno gli umori? In serata mi chiama Mauro Cereghini reduce dalla presentazione del nostro "Darsi il tempo" a Bolzano. E’ soddisfatto per la partecipazione e per l’accoglienza ricevuta. Chissà che le buone idee, a lungo andare …  
1 Ottobre 2009

giovedì,1ottobre 2009

Finalmente una giornata tranquilla. Dedico la mattinata a farmi una passeggiata nei boschi della mia valle d’adozione e verso mezzogiorno preparo il pranzo a Gabriella. Orecchiette al guanciale, guarnite di pecorino non troppo stagionato ed annaffiate con un buon bicchiere di vino. Davvero ottimo. Alle 14.30 abbiamo una riunione del Gruppo consiliare dedicato all’aggiornamento del piano rifiuti e alla questione inceneritore. In questa prima riunione esaminiamo i dati relativi alla raccolta differenziata e al residuo. Che parlano chiaro sia per quanto riguarda gli obiettivi del terzo aggiornamento ancora da raggiungere, sia di quel che rimarrà da smaltire anche in presenza del pieno raggiungimento degli obiettivi. Ritornerò nei prossimi giorni sull’argomento riportando i dati completi, ma sin d’ora dobbiamo sapere che oltre allo smaltimento di quel che è finito in discarica in questi anni, quel che non finisce in differenziata supera ad oggi le 120.00 tonnellate annue. A cui si deve aggiungere l’umido che viene portato fuori provincia per un costo annuo stimabile oltre i 10 milioni di euro. A proposito dell’opposizione ai biodigestori… Se la cornice condivisa è quella della chiusura del ciclo in Trentino, appare chiara la necessità di dotarsi di un piccolo impianto, flessibile, modulare, a tempo, affinché gli obiettivi sempre più virtuosi nella prevenzione come nella differenziata, accanto ad un sistema di biodigestori per l’umido, possano metterci nelle condizioni di non aver più bisogno di un supporto tecnologico per lo smaltimento del residuo. Finito l’incontro, alcune telefonate e poi l’incontro con Franca Berger sul progetto di sviluppo sostenibile dell’alta Val di Non. Franca sta facendo un bel lavoro di animazione e di coesione di quella porzione di territorio oggi segnata peraltro dalla crisi della filiera del latte e delle difficoltà in cui versa l’agricoltura, aggravata dal fatto che la monocoltura intensiva non aiuta certo ad affrontare con flessibilità la situazione. Franca ha in mente un "Accordo di programma" per l’alta Valle di Non ed in questa direzione sta cercando di coinvolgere le municipalità locali e i soggetti economici e sociali della zona. Le parlo della legge in via di approvazione sulle filiere corte, del fatto che essa andrà a favorire le azioni di sistema territoriale a sostegno dei prodotti di qualità e certificati. E così ci accordiamo per dar vita ad un percorso di confronto con altri sistemi territoriali e sulla legge dopo la sua approvazione da realizzare in loco coinvolgendo gli attori locali. E’ bello vederla entusiasta di questo progetto e di quel che sta facendo per la sua valle. Una passione di cui c’è assoluto bisogno se vogliamo stare nella crisi con intelligenza e creatività e per questo si rendono sempre più necessarie figure di "animazione" territoriale come la sua. Già che ci sono le parlo del progetto "Politica è responsabilità" e si dice interessata all’idea anche se per un suo coinvolgimento mi dice che deve pensarci. A questo proposito, presi come siamo fra mille impegni, stiamo un po’ facendo slittare i tempi e per questo credo sia bene all’inizio della prossima settimana fare il punto e decidere quando diamo inizio a questa nuova avventura. La giornata finisce qui. Le mazze di tamburo impanate di Gabriella sono eccezionali, così come i porcini crudi. Il resto viene preparato per il congelatore, questa sera si lavora per l’inverno.