6 Novembre 2009
Nella giornata di giovedì avevo in agenda poche cose, relative al Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Mi ero lasciato il pomeriggio libero da impegni immaginando che avrei dovuto raggiungere Roma per il Convegno internazionale sul Kosovo. La partenza è invece al mattino presto del giorno seguente e dunque il pomeriggio è libero. Si fa per dire, perché ogni tanto bisogna pensare anche alle proprie cose. Sveglia dunque alle 4.50 di venerdì, notte fonda e piovosa. Dopo un paio d’ore sono all’aeroporto di Verona e alle 8.30 a Roma. Anche lì acqua torrenziale, ho fretta di arrivare e provo a prendere un taxi ma la soluzione non si rivelerà granché efficace perché dall’aeroporto al palazzo di rappresentanza del Parlamento Europeo in via 4 novembre ci impieghiamo un’ora e mezza. Roma è una bella città, ma viverci è difficile perché, se non abiti e lavori nello stesso quartiere, due ore al giorno se ne vanno solo di mezzi di trasporto. Moltiplicato per 365 fanno 730 ore. Vuol dire che l’anno qui conta 11 mesi perché il dodicesimo se ne va in mezzo al traffico e allo stress. Ai convegni sui Balcani c’è un popolo che più o meno si conosce. Devo dire che in questo caso non è proprio così. La conferenza internazionale ha per titolo "Per uno sviluppo in partnership Italia – Kosovo" ed oggi è al terzo e ultimo giorno. E’ promossa da un gruppo di ong che da tempo operano nella regione (Ipsia, RTM, Intersos, Ceses, Amici dei Bambini, Celim) con il contributo della Direzione Generale Cooperazione Sviluppo del MAE (Ministero Affari Esteri). Seguo il panel che precede la tavola rotonda nella quale sono relatore e che ha come tema quello delle migrazioni. Poi tocca a noi, in quello che rappresenta il momento conclusivo della Conferenza dedicata alle relazioni di vicinato nello spazio comune europeo. Con me Marta Piccarozzi del Cespi, il giornalista Matteo Sacconi, Mentor Seferi che in Kosovo si occupa di difesa dei diritti umani, Afrim Hoti, dell’Università di Pristina, Hysen Bytyqi, consulente politico del Ministero dell’Agricoltura, Foreste e sviluppo rurale del Kosovo. Parlo del ventennale della caduta del muro, delle speranze che si erano aperte, delle tragedie che ne sono seguite, in Europa e non solo. Parlo della proliferazione degli stati e dei confini, anziché di un’Europa come progetto politico sovranazionale. Dell’Europa fortezza, delle paure, dei fantasmi che la pervadono e di come è oggi ridotta l’Europa, tanto che a parlarne si perdono consensi. Qual è dunque lo spazio comune di cui andiamo parlando? Mi rivolgo ai rappresentanti della Repubblica del Kosovo ancora non riconosciuta dal diritto internazionale e dico loro dell’occasione perduta nel non aver immaginato uno scenario diverso da quello dell’indipendenza (il Kosovo come prima regione europea). Non c’erano le condizioni, per mille ragioni, ma quello che è mancato e che ancora manca è un pensiero europeo, un approccio post-nazionale. Quella visione che non c’era nel 1989 quando cadeva il muro e quando il presidente di turno della Jugoslavia Ante Markovic propose di far entrare il suo paese nell’Unione Europea. Di come sarebbe cambiata la storia se la risposta fosse stata lungimirante. Parlo della necessità di un salto di paradigma che ormai sta nelle cose. Della sollevazione indigena del Chiapas che il primo gennaio 1994, mentre la Jugoslava andava in pezzi, poneva il tema dell’autogoverno piuttosto che quello dell’autodeterminazione e di nuovi confini. Degli incontri avuti in Palestina dove il tema almeno nella cerchia degli intellettuali si pone alla stessa maniera. Della conferenza che si aprirà fra qualche giorno a Trento sul Tibet nell’analisi comparata delle autonomie regionali. Vedo negli esponenti kosovari cenni di assenso verso le mie parole ed è il segno che dopo l’euforia iniziale dell’indipendenza si rendono conto che i problemi sono tutti aperti e vanno oltre gli angusti confini di un piccolo stato, perché l’economia è sovranazionale come lo è la criminalità organizzata, i traffici, i fenomeni migratori e così via. Provo ad indicare lo spazio comune europeo oggi possibile, quello delle relazioni territoriali, di una cooperazione intesa come relazione e confronto. L’applauso che accoglie la fine del mio intervento parla da solo. Così le strette di mano dei rappresentanti della comunità kosovara, che un po’ temevo di urtare con le mie parole. Finisce la conferenza e andiamo a prendere qualcosa insieme, in una bottega del commercio equo e solidale. Nel frattempo mi ha raggiunto Ali Rashid. Eravamo d’accordo di vederci a pranzo e così facciamo. Mi porta la notizia che gli anziani di Turem, villaggio nei pressi di Cana in Galilea, hanno preso una decisione favorevole rispetto alla proposta di riavviare la produzione della vite e del vino di cui ci parla la tradizione biblica. Insieme stabiliamo una scaletta di lavoro per le prossime settimane e mettiamo in cantiere una nuova visita in Galilea. Trovo Ali un po’ più rasserenato di come l’avevo visto nei giorni del viaggio in Palestina e questo mi solleva. E già ora di ritornare in aeroporto. Nel posto accanto al mio sull’aereo per Verona c’è il giudice Caselli, ci presentiamo e scambiamo qualche parola. So che in serata è a Bolzano con don Ciotti, per iniziativa del Centro pace del Comune altoatesino-sudtirolese. Il loro lavoro è fondato sulla promozione di iniziative di grande risonanza pubblica. Un’agenda diversa dal mio sentire la pace. Arrivo a Trento giusto per partecipare all’Assemblea del PD del Trentino chiamata ad eleggere il nuovo segretario. Come era previsto dall’accordo politico fra i quattro candidati alla segreteria, l’incarico viene affidato a Michele Nicoletti. Buon lavoro, segretario.