Oggi è sabato, domani è domenica *
5 Marzo 2018Un vocabolario, dalla prossimità al mondo
9 Marzo 2018Perché non c’è un cedimento sensibile della partecipazione al voto, sintomo che – in forme magari non del tutto aderenti alle nostre parzialissime aspettative, all’apparenza con reazioni “di pancia” ma comunque legittime – non è venuta meno l’attenzione per la politica. Per l’intera giornata di domenica ho letto commenti di giubilo di fronte alle file (in gran parte dovute a motivi tecnici e non ideali…) all’esterno dei seggi salvo poi a urne chiuse – e a risultati conosciuti – veder crescere una sostanziale sfiducia nel suffragio universale, non riconoscendo in chi vota in maniera diversa da sé le minime capacità per compiere quella scelta. Un approccio stupido e totalmente privo di capacità di mettersi in gioco.
Perché non c’è (se non forse in Trentino, ma è tema diverso che poi affronterò) uno scivolamento a destra del voto italiano. I numeri ci dicono che – sfrutto il lavoro di descrizione dei flussi elettorali di Tiziano Bonini – un’altra cosa, mentre un ragionamento più sottile sul sentiment di alcune fette di voto mi riservo uno specifico appunto. La Lega si afferma, certo. Salvini straborda (soprattutto in tv, che lo coccola), ma dobbiamo cercare di guardare meglio tra le righe dei risultati.
Nel 2008 quindi: FI + Lega + FN = 16.7 M
PD (12.1 M) + IDV (1.6 M) = 13.7 M
Sinistra Arcobaleno 1.1 M
10 anni dopo: FI + Lega + F.d’I + FN + Casa P. = 12.5 M
PD = 6.1 M (dimezzato rispetto al partito di Veltroni)
LEU = 1.1 MC
Forza Nuova fa 120.000 voti circa. Casa Pound qualcosa come 300.000. Troppi certo, ma non tantissimi.
Cosa è rimasto uguale? Lo spazio a sinistra del PD. Arcobaleno, Sel o LEU, in dieci anni quello spazio vale sempre 1 milione di voti.
Cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa. Il PD ha perso 6 milioni di voti, il CDX 4.2 milioni (totale = 10.2 M). Il mov. 5S, che nel 2008 non esisteva, oggi prende 10.6 M
(edit: dimenticavo di aggiungere che in mezzo c’è stata la crisi e l’aumento della disuguaglianza sociale)
Perché siamo ancora qui a poter discutere di quali saranno le prossime mosse da compiere e questo significa che – al netto delle visioni dai tratti più distopici, comprensibili dentro uno scenario del genere – c’è ancora la possibilità che la politica svolga in pieno la propria funzione, che è quella di mettere in campo decisioni capaci di portare a sintesi la complessità e le contraddizioni delle dimensioni sociali, culturali e politiche (elettorali e non) di un determinato contesto geografico e storico. Che governo si insedierà? Quali priorità le forze politiche sapranno darsi per tentare un accordo di coalizione? Come la dimensione nazionale saprà intercettare da un lato le specificità territoriali e dall’altro la necessaria integrazione sovranazionale, dall’Europa in su?
Siamo tentati di uscire subito dal pozzo per rimetterci in una posizione più comoda per interpretare la realtà che ci circonda. Siamo ansiosi di tornare a osservare il sole e la luna riflettersi nell’acqua e cullarci in quella finzione di riflessi a cui tanto siamo affezionati. Eppure ciò che dobbiamo cercare (la verità, qualunque essa sia) è dentro quel pozzo che tanto ci inquieta. Un pozzo che contiene paura e speranza, rabbia e desiderio, malcontento e spinte innovatrici, passioni tristi e relazioni solidali. Il “non più” al quale in tanti tentano di aggrapparsi e il “non ancora” che si mostra sotto forme che non sappiamo o non vogliamo interpretare con la giusta attenzione e curiosità. Sul bordo del pozzo stanno coloro che credono “non esista alternativa”, che non ci sia la possibilità con altri da sé di mettere in moto un processo di cambiamento. A osservare dall’alto sta chi pensa che descrivere un’altra traiettoria rispetto a quella che ci ha condotto alla caduta non stia nelle cose e che si (auto)convince che sia meglio trovare il modo per non allontanarsi troppo dalla pista che – pur sbagliata, come abbiamo potuto sperimentare – si è percorsa fin qui. Solo dal fondo del pozzo, non subito, potremo tornare a vedere direttamente il sole e la luna. Rimaniamoci per un po’ e vediamo che succede.
Contesti diversi. E uno sfondo sfocato ma necessario.
Italia – Non è marginale il senso di insicurezza. Non è marginale la rabbia. Non è marginale il rancore. Non è marginale la protesta. Non è marginale un (diffuso) sentimento razzista. Non è marginale una confusione di fondo nell’analisi di quest’epoca prima di infilarsi nel seggio a votare. Non è piacevole il mix di sentimenti dentro cui è stato immerso il dibattito pubblico che – non è un dato secondario – mai come ora satura le nostre vite. Delusione nei confronti della politica. Paura e insicurezza (percepite o reali poco cambia) nei confronti dei quartieri che abitiamo. Frustrazione nei confronti delle ingiustizie (vere o presunte) che si subiscono. Tutto shakerato H24 dentro le conversazioni con il barista di fiducia esperto di ogni argomenti, su profili di social network impermeabili a qualsiasi idea diversa dalla propria, nell’accanimento mediatico di ogni genere e tipo, obbligatoriamente urlato, in contesti globali dannatamente complicati e di cui pochissimi sanno interpretare i movimenti. Tutti questi aspetti non marginali hanno contribuito – con diversi gradi di intensità – al risultato elettorale, che sarebbe riduttivo bollare come pura espressione di irrazionale rigetto alle elitè e alle politiche da esse proposte.
Tra tutte le interpretazioni post-voto condivido quella di Eschaton (Raffaele Alberto Ventura, autore de “Teoria della classe disagiata” (2017, Minimum Fax), perché – al netto delle valutazioni sulla conformazione del voto e delle conseguenze per i partiti sconfitti – apre uno spazio di messa alla prova della nuova fase…
«Io continuo a vedere una sola pendenza possibile nell’ordine delle cose: il M5S deve governare con appoggio esterno del PD. Lo vuole Mattarella e lo vuole Di Maio, che ha proposto una lista di fantaministri che va precisamente in quella direzione e presto proporrà un premier “che non si può rifiutare”, un Prodi bis; e infine lo vuole una parte del PD, per arginare il rischio Salvini. La strategia renziana della fermezza, formulata in un concession speech venato di (lucida?) follia, non chiude questa possibilità ma semmai prepara il terreno per la scissione del partito. Il PD deve sacrificare Renzi, e se Renzi recita Re Lear è perché lui per primo vuol essere sacrificato; in un certo senso è Renzi che vuole sacrificare il PD, lasciare che una parte di “responsabili” governino coi Cinque Stelle (di fatto autodistruggendosi) e partire coi fedelissimi a fondare il suo partito personale, che tra cinque anni potrà finalmente far valere il merito di avere fatto opposizione e portarsi a casa quel 5 o 10% con cui fare l’ago della bilancia. La vera domanda a questo punto è: ma i numeri ci sono? Quanti parlamentari mancano per governare? E’ su questo che potrebbe infrangersi la mia previsione, ad ogni modo lo vedremo nei prossimi giorni. Quel che è sicuro è che il quadro è cambiato e ci ritroviamo con una nuova destra e una nuova sinistra più “estreme”, perlomeno sul piano retorico: in linea con il quadro occidentale, una destra che si presenta come ferocemente reazionaria e una sinistra che si offre come ingenuamente modernizzatrice. Negli ultimi anni ci siamo così concentrati suglia aspetti “di destra” del grillismo che non abbiamo capito che infine il Movimento 5 Stelle avrebbe sul serio ereditato la sinistra. Quelli che ci sembravano “di destra” erano semplicemente tutti i difetti della sinistra portati all’ennesima potenza, mescolati assieme in maniera contraddittoria: il plebiscitarismo e il giustizialismo, lo statalismo messianico ma anche il liberalismo più ingenuo, la venerazione per i tecnici. E alla fine chi credeva di votare Le Pen, ovvero l’apocalisse, ha semplicemente votato Macron, cioè il katéchon».
…e rilancio. Di Maio non è Macron (ed è un bene) e di Macron non possiede neppure la maggioranza assoluta in Parlamento. Va sfidato, perché come ha scritto Mauro Magatti lunedì mattina, con incredibile dono della sintesi:
«Primo: la sinistra socialista non esiste più.
Secondo: la destra oggi non è più quella neoliberista
Terzo: c’è un vuoto di proposta per una modernizzazione che metta insieme l’economia e la società, i sistemi e le persone
Ecco le tre lezioni storiche delle elezioni 2018».
Fossi un dirigente del PD (e per fortuna non lo sono…) proporrei al M5S una serie di temi portanti per una legislatura costituente dal punto di vista sociale, culturale e politico. Una lista argomenti macro come ipotetiche sfide cornice e al loro interno una serie di interventi – dai tratti necessariamente – radicali per affrontare le tematiche principali sul tavolo. Europa (e sua evoluzione federale e democratica) e approccio agli scenari globali, lavoro (welfare e tensione verso maggiore giustizia sociale, partendo dal reddito di cittadinanza) e innovazione, democrazia (e riattivazione dei corpi intermedi, come necessaria cinghia di trasmissione dell’elaborazione politica), ambiente e territori, diritti sociali e civili, istruzione e cultura, immigrazione (con un approccio molto spinto verso l’accoglienza e un nuovi presupposti per una cittadinanza globale e cosmopolita) e redistribuzione della ricchezza unite a nuovi paradigmi orientati alla sostenibilità, non solo ecologica, dei nostri stili di vita. “Noi ci stiamo” – direi – se si parte da un incrocio politico, di mediazione e di compromesso virtuosi su questi obiettivi. Obiettivi che rappresentano – se ben interpretati – l’unica garanzia di fronte al crescere di un sentimento sempre più radicato di sfiducia e radicalizzazione dello scontro tra diversi interessi in campo.
Sarebbe un passo che potrebbe “risolvere” da un lato il corno istituzionale del problema, tentando di dare forma a un Governo, ma sarebbe condizione di partenza anche per mettere mano alle tante passioni tristi che attraversano l’Italia, e non solo. I primi passi intrapresi da Matteo Renzi vanno nella direzione esattamente opposta (“Fate da soli e vediamo di cosa siete capaci”) e a voler esser cattivi questo dato potrebbe essere utile conferma che si tratta della giusta decisione da prendere. C’è da chiedersi se il PD sia nelle condizioni di interpretare questa parte (responsabile e sovversiva allo stesso tempo) e la risposta rischia di essere negativa, a fronte di problemi contingenti (dalla leadership dello stesso Renzi in giù) e filosofico/culturale (non è certo il partito conservi ancora, almeno nei suoi eletti in questa tornata, un approccio di questo tipo al mondo).
Trentino – Il contesto è radicalmente diverso. L’anomalia trentina (da un po’) e il centro-sinistra autonomista (con un crollo verticale e non prevedibile in queste proporzioni) non esistono più. E in questo caso più che il rovescio elettorale – sei a zero subito sui collegi uninominali – a destare preoccupazione è il venir meno, frutto di uno sfarinamento ora giunto a termine, del tessuto connettivo che aveva caratterizzato la precedente fase, quella della cosiddetta “anomalia trentina”. Un tessuto costruito contemporaneamente su meccanismi virtuosi – autogoverno e cooperazione, territorio e comunità – e derive nocive (forte dipendenza dal Pubblico al limite del clientelismo, scarsa propensione all’innovazione e al mettere in gioco le proprie certezze, un diffuso conservatorismo), oltre a una debordante autoreferenzialità delle classi dirigenti (non solo politiche); incapace di rinnovarsi, di sperimentare o anche solo di ascoltare. Un quadro desolante che il risultato del 4 marzo ha solo reso più evidente.
Dentro e fuori la tornata elettorale appena passata il M5S non esiste – raccoglie un 20% “di simbolo” – mentre a montare è la Lega, in una sorta di venetizzazione a scoppio ritardato. Ciò che ci siamo risparmiati negli anni ’90 e ’00 rischiamo seriamente di doverlo subire oggi. Con gli interessi – dolorosissimi – di una Lega nazionalista e regressiva, identitaria e xenofoba. Un meccanismo che ha i suoi effetti più marcati sulle valli (con il partito di Salvini quasi ovunque sopra il 30%, spesso con picchi ancora più alti) e che cinge anche i centri urbani, con i soli quartieri borghesi (la lotta di classe al contrario!) a confermare – pur con minor convinzione che in passato – il sostegno ad una proposta politica di centro-sinistra, più per abitudine che per reale convinzione.
Si è esaurita una fase (con il Patt, espressione del Presidente Rossi, attorno al 5% e alcuni notabili della politica locale rimpallati nei rispettivi collegi uninominali ma apparentemente non ancora pronti a farsi da parte) e non esiste praticamente nulla all’interno del suo concluso climax discendente che sia utile a descrivere l’“inedito inizio” di cui ha bisogno questo territorio per invertire il mood che lo innerva (vera priorità…) e per avvicinarsi alle prossime elezioni provinciali (il cui risultato subirà fortemente l’influenza delle Politiche) e comunali, dove neppure la città Trento si potrà più definire un terreno incontendibile.
Anche qui – dal fondo del pozzo piuttosto che dalle comode postazioni a cui siamo stati abituati – le mosse che decideremo di compiere potrebbero essere meno banali e si spera efficaci di quelle che qualcuno comincia a proporre in queste ore. Non bastano nomi e simboli nuovi, così come il solo richiamo a un ringiovanimento della classe dirigente (pur necessario) rischia di avere più un valore retorico che pratico. Il frame dentro il quale siamo è cambiato e dalla piena comprensione della trasformazione avvenuta potremo trarre le coordinate per ciò che verrà. [Nella seconda parte, di prossima pubblicazione, proverò ad essere più preciso su questo punto]
Europa – Fin qui i due contesti sui quali maggiormente sono stati puntati gli sguardi. Il Trentino. “La nostra terra” o “la nostra Autonomia” (sigh!). E l’Italia (spezzettata e per nulla coesa). “Il nostro paese che deve riconquistare la propria sovranità e nei confronti dei quali dobbiamo mostrare il nostro afflato patriottico e di identità nazionale” (doppio sigh!) La questione non si esaurisce con la denuncia di questo diffuso sentimento di rinserramento identitario. Sullo sfondo rimane – sfocata – l’Europa. Per allargare lo sguardo bisogna saper condividere piuttosto che essere egoisti, bisogna saper interpretare l’apertura piuttosto che dare per scontata la necessità di chiudersi. Ecco che lo slogan “prima noi” – che contrappone la propria appartenenza più prossima (campagna vs città, sud vs nord, Italia vs resto del mondo) a tutte quelle si dispiegano fino al mondo intero in questo momento funziona benissimo per chi riesce a utilizzarlo in maniera flessibile. Personalmente mi chiedo come Salvini riesca a gestire allo stesso tempo il “prima noi” che garantisce – magari nello stesso giorno – la mattina ai trentini, a pranzo ai veneti e dopo cena ai sardi. Si accarezzano in questa maniera identità talmente frammentate e competitive, orientare al non condividere nulla con chi non ne fa parte, da far sembrare fuori posto quel “noi” che, in realtà, altro non è che un potentissimo “io”.
Anche l’Europa – mai così debole e mal sopportata, da ogni parte la si guardi – è in fondo al pozzo e ha bisogno di uno scatto di fantasia e capacità innovativa per non trovare nella primavera del 2019 (elezioni europee) il suo definitivo punto di caduta e per ritagliarsi il ruolo di comunità di destino dentro cui le varie comunità di prossimità – piccole e piccolissime ben oltre l’opprimente presenza degli Stati nazionali – si riconoscono e si sentono coinvolte, capaci di progettare collettivamente il futuro.
Credo Luca De Biase abbia centrato in un suo articolo di questi giorni il tema di fondo che tiene insieme i contesti appena descritti e lo sfocato scenario europeo e mondiale:
«La prossima questione è quella di trovare il senso durevole. Nell’inflazione dei sensi si consumano ideologie e parole d’ordine nel giro di cinque anni. Il senso durevole è paziente, concreto ed empiricamente motivato. Contro la distruzione di risorse, contro la polarizzazione e contro il timore dell’insuperabilità dei problemi si cercano valori durevoli: sostenibilità, civismo inclusivo, innovazione.
Che cosa impariamo dall’esperienza degli ultimi tempi?
1. Non vince nel tempo chi promette risultati immediati: questo modo d’agire delude in fretta. La memoria del pubblico è molto più lunga di quello che sembra.
2. Un’epoca basata sul consumo e la finanza lascia il posto a una nuova epoca nella quale al centro torna il lavoro e la cultura. Il progetto di questo passaggio è tutt’altro che chiaro. Chi saprà averne la leadership acquisirà un’importanza durevole.
3. L’innovazione non è un insieme di novità. È un – piccolo o grande – cambiamento nella direzione della storia. Il discernimento per valutare l’innovazione è un valore culturale che resta molto da sviluppare. L’investimento culturale che serve a sviluppare questo discernimento deve essere un obiettivo di tutti.
Insomma, quello che l’innovazione ci consente di dire è che è importante coltivare uno spirito critico verso ciò che è stato fatto finora, non per lamentarsene, ma per immaginare ciò che può essere fatto in futuro e imparare a realizzarlo».
* da https://pontidivista.wordpress.com