Un tempo è finito. Riduzione del danno e nuovi scenari
17 Ottobre 2018Non palliativi ma un nuovo racconto
6 Gennaio 2019“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (87)
di Michele Nardelli
Faccio legna per l’inverno…
L’esito delle elezioni in Trentino, per quanto previsto da tempo, non mi è facile da accettare, quasi che dell’impegno di una vita per fare del Trentino una terra diversa non rimanessero che macerie.
Così, negli spazi di tempo fra un appuntamento e l’altro – lunedì ero a Firenze a parlare di cooperazione internazionale, martedì all’Università di Parma a presentare “Sicurezza“, giovedì sera a Isera al primo di una serie di incontri promossi da Slow Food sul rapporto fra cibo e ambiente – faccio provviste e legna per l’inverno, come se la “cattiva stagione“ dovesse durare a lungo, almeno una legislatura.
Faccio di tutto, insomma, pur di non prendere in mano carta e penna, laddove pensieri e parole mi sembrano improvvisamente inutili. Penso a questo stesso blog che curo quotidianamente, agli anni dell’impegno legislativo che ho visto svanire per insipienza prima ancora che per il prevalere di altre visioni ed interessi, al lavoro per declinare in forme e approcci originali quel binomio – guerra e pace – che ha rappresentato tanta parte del Novecento e che i pacifisti hanno guardato con sospetto preferendo il manicheismo del “senza se e senza ma“, penso alla ricerca sulla cooperazione internazionale di fronte al vuoto di sguardo di molte Ong tanto da sentirmi ancora riproporre l’idea che dovremmo “insegnare a pescare“, aberrazione che ci racconta più di tante altre cose lo stato dell’arte.
Rifletto sul senso dell’agire umano e su ciò che rimane… Mi vengono in mente le parole di Lidia Campagnano quando scrive a proposito di un orto botanico sul Monte Velebit curato da un professore di Zagabria e spazzato via dalla furia della guerra “Che cosa avrà pensato, del senso che la storia dovrebbe assegnare al singolo, alla sua singola memoria, al suo singolo scegliere un’attività?‘1.
Eppure lo devo in primo luogo a me stesso, a questo nostro modo di stare al mondo, alle persone che si sono riconosciute e che si sentono parte di una comunità di pensiero che nel tempo ci ha aiutati ad essere meno soli.
Dunque, eccoci qui, malgrado l’inverno. In fondo – mi dico – c’è ben poco da aggiungere a quanto già scritto prima del voto, la fine annunciata di un’anomalia nella quale non solo avevo creduto ma che costituiva motivo di orgoglio, come a dire che pur fra mille criticità comunque in questa nostra piccola terra qualcosa di diverso lo si era realizzato.
Avevo anche scritto che non necessariamente s’impara dalle lezioni ed in effetti basta scorrere i commenti degli esponenti della vecchia maggioranza per capire come se non ci si predispone ad imparare non si elabora un bel niente, proseguendo nella cattiva abitudine di attribuire ad altri le proprie responsabilità.
Perché – lo voglio qui ribadire – le ragioni di questo esito elettorale2 risiedono in buona parte nelle nostre responsabilità, dalle quali non mi sottraggo nonostante avessi indicato per tempo – con la nascita di Politica Responsabile, con la pur breve esperienza di “territoriali#europei“ e, da ultimo, con il “Viaggio nella solitudine della politica“ che di mese in mese mi incoraggia in questo tragitto di ricerca – la necessità di uno scarto di pensiero e di una nuova stagione dell’autonomia nello spazio politico europeo.
E’ proprio qui, nell’incapacità di comprendere uno scenario che si andava rapidamente trasformando, dove all’acquisizione di nuove competenze potesse corrispondere la formazione di una nuova e diffusa classe dirigente (e mi fa piacere che Lorenzo Dellai lo riconosca esplicitamente nella sua riflessione post elettorale – vedi allegato), che sono venuti a galla i limiti di un’impostazione dirigista che insisteva retoricamente sull’esistenza di un DNA valoriale che avrebbe fatto diverso il Trentino. Ma il DNA che non è scolpito nella roccia delle nostre montagne e i valori non sono affatto acquisiti una volta per tutte.
Il riverbero dei tratti di spaesamento che venivano dal profondo nord, il non saper cogliere il carattere postmoderno di quanto era accaduto e continuava ad accadere nell’est europeo, la crisi di un progetto europeo nello smarrirsi della sua essenza federalista (e solidale), la paura di dover rinunciare ad una condizione di privilegio – accanto ai processi omologanti indotti della globalizzazione – hanno fatto emergere quanto il Trentino fosse al contrario poco attrezzato, viziato da un’autonomia interpretata come privilegio piuttosto che responsabilità.
E, paradossalmente, di come la Lega sapesse dare una risposta accattivante alle paure, sapendo corrispondere a ciò che le persone volevano sentirsi dire. Il leghismo ha potuto in questo modo divenire una rappresentazione politica anti-elitaria, fatta di gente comune, di una narrazione “terra-terra“ di immediata comprensione, basata sulla semplificazione, sugli stereotipi nonché sul rancore verso una politica (ed una sinistra) che ha smesso da tempo di immaginare un mondo diverso e di dare l’esempio nei suoi comportamenti.
Era già accaduto negli USA con l’affermazione di Donald Trump, nel Regno Unito con quella di Teresa May e con la Brexit, in Italia con quella di Matteo Salvini e di Beppe Grillo… L’inverno è arrivato in queste ore anche dove si attende l’estate, laddove la sinistra ha spianato la strada alla destra più estrema di Jair Bolsonaro. Nei quartieri ricchi come nelle favelas, a testimonianza di come inclusi ed esclusi la pensino spesso nello stesso identico e tragico modo.
Perché il problema non è in fondo tanto diverso, qui come altrove: la sinistra non ha più un racconto da proporre, ferma com’è ad un tempo che non esiste più.
Se invece si continuerà a pensare che il problema sia stata (e sia) la litigiosità, un’inadeguata comunicazione o, ancora, la scarsa presenza sul territorio, non ne verremo a capo. Ovviamente questo non significa ignorare la necessità della mitezza, di far dialogare sensibilità diverse o di mettere radici nel tessuto sociale, ma ciò di cui in primo luogo dobbiamo disporre è di una visione.
E poi, come scrive Leonardo Caffo, “per costruire il futuro bisogna conoscere il presente‘3. Oggi il nostro presente – quello che non vogliamo vedere perché metterebbe in discussione le nostre certezze (e i nostri stili di vita) – è di un’umanità che, malgrado il Novecento, continua a pensare il mito della potenza e della forza come progresso, la guerra come levatrice della storia, la disponibilità di “cose“ come benessere… E’ di un modello di sviluppo sempre più insostenibile, tanto che dal 1988 questo pianeta consuma più di quanto gli ecosistemi terrestri riescono a produrre (nel 2018 la Terra ha un’impronta ecologica di 1,7 pianeti e il giorno del superamento è stato il primo di agosto)… E’ di una terza guerra mondiale che nessun Stato ha formalmente dichiarato e nella quale ci siamo arruolati quando abbiamo affermato la non negoziabilità dei nostri stili di vita. Che si svolge fra inclusione ed esclusione e che sarà ben più cruenta di quelle precedenti…
L’inverno si presenta con piogge torrenziali che spazzano l’Europa e l’Italia. Non è emergenza, è l’effetto combinato dei cambiamenti climatici dovuti al surriscaldamento del pianeta e di decenni di politiche dissennate fatte di cementificazione e di scarsa cura del territorio. Sappiamo altresì che questa situazione è destinata ad aggravarsi nel tempo. Tanto che la Commissione sul clima delle Nazioni Unite4 ammonisce il mondo che abbiamo poco più di dieci anni per evitare esiti catastrofici. Il paradosso surreale è che mentre ancora si contano i danni ambientali, anziché avviare un ripensamento attorno alla nostra insostenibilità (e all’insana idea di sviluppo che ci ha portati in questa situazione), si accenda una vera e propria crociata a favore delle grandi opere. Siamo alla follia.
Da tutto questo ed altro è attraversato anche il Trentino. E se una gestione intelligente dell’autonomia – esito anch’essa di un processo di ripensamento avviato in Trentino negli anni ’80 dopo la tragedia di Stava –, accanto agli elementi di diversità strutturale di questa terra, è stata in grado per un quarto di secolo di operare scelte lungimiranti che ci hanno tenuti relativamente al riparo dagli effetti dello spaesamento e dal modello veneto (un simbolo di questo era la contrarietà alla realizzazione del tratto nord della PiRuBi), con il tempo il tessuto sociale, culturale e politico sono andati omologandosi al vento che si è levato tutt’intorno. I tratti di diversità, banalizzati. La sperimentazione politica, sostituita dalla degenerazione personalistica dei partiti. L’esito è il voto del 21 ottobre.
Che non concede attenuanti. Una storia è finita ed immaginare di ripartire da ciò che rimane della vecchia maggioranza sarebbe come rimestare nel vuoto. Non c’è nulla da rottamare, c’è piuttosto una strada nuova da inventare, nella quale le persone che hanno avuto ruoli di responsabilità nella fase precedente debbano insieme dare e passare la mano.
Serve un nuovo racconto, che sappia far tesoro del passato e cambiare i propri paradigmi. Ciascuno può esserne interprete. Con un viaggio attraverso i limes del nostro tempo5 o con un libro che si propone di disincagliare le ali dell’angelo della storia6. Le strade possono essere molteplici, nessuna autosufficiente. Credo che il bandolo della matassa stia proprio qui: la consapevolezza che una storia è finita e che il “non ancora“ sia – malgrado l’inverno per cui ci stiamo attrezzando – nelle mani feconde di chi avrà voglia di sporcarsele.
1 Lidia Campagnano, Gli anni del disordine. 1989 – 1995. La Tartaruga edizioni, 1996
3 Leonardo Caffo, Vegan. Un manifesto filosofico. Einaudi, 2018
4 Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – http://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf
6 Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Sicurezza. EMP, 2018
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Corsi… e ricorsi
Pur rendendomi conto di correre il rischio con questo mio intervento di abbassare il livello delle riflessioni sulle recenti elezioni, egregiamente tenuto da politologi quali Gaspare Nevola e Paolo Pombeni, vorrei richiamare l’attenzione su alcune questioni di merito e di metodo, partendo da un episodio che mi ha toccato personalmente, e che mette in luce la disinvolta discrezionalità attualmente in uso: mentre nessuna perplessità ha sollevato la candidatura a Presidente della Provincia di Trento di un membro del Governo nazionale, in palese contrasto con l’art.15 della legge elettorale che impone le dimissioni dalla carica a partire dall’inizio della competizione, le autorità accademiche hanno gentilmente invitato il sottoscritto a recedere, in quanto candidato, dall’intervenire con una comunicazione al convegno programmato a suo tempo in ricordo di Mauro Rostagno. Due pesi e due misure, verrebbe da dire. Certo, si dirà che per me non si è trattato di una grande perdita, a differenza dei casi, pure verificatisi, in cui per chi ha candidato ha pesato la forzata rinuncia a ruoli assessorili. Per una democrazia, ricorrere a queste forzature non è segno di ottima salute. Il prevedibilissimo successo elettorale della Lega avrebbe dovuto suggerire un più cauto approccio alla tenzone elettorale, a meno che, pensando con un po’ di malizia, non abbia giocato un retropensiero indotto dal terrore di dover guidare una macchina così problematica come quella trentina: lasciarsi aperta un’uscita di sicurezza. Per quanto riguarda la disinvoltura sulle regole, due parole sono d’obbligo anche per i perdenti. Per il Pd, il cui rinvio nel decidere la strada da intraprendere riguardo all’opzione federalista prevista nel suo statuto, ha avuto come conseguenza, in questo particolarissimo angolo alpino, la riduzione al lumicino del radicamento del partito (tardiva la lectio magistralis tenuta ieri a Milano da Cacciari); per la sinistra, le cui condizioni politiche tendono al brutto per non aver rispettato la tabella di marcia concordata, rimane il ricorso alla protezione civile alla quale possiamo rivolgere l’appello “salvate i militanti smarriti della sinistra!” . Proporrei quindi di azzerare e ricominciare, da noi, con una vera sinistra trentina, rimotivando i delusi, stabilendo un patto federativo con gli eletti di LeU in Parlamento, aprendo un confronto programmatico con Futura 2018, il movimento promosso da Paolo Ghezzi. Una lunga marcia, l’unica praticabile per evitare di schiantarsi nuovamente nelle urne.
p.s. Registriamo il fatto che l’avvocato Alfonso Pascucci si è fatto carico di rappresentare il disagio di numerosi cittadini davanti alla commissione di convalida degli eletti. Analoga strada verrà presa dalla lista LeU del Trentino.
Vincenzo Calì
Tra le molte cose che vengono in mente tento di accennare ad un aspetto che mi sembra significativo.
Una delle “diversità” che abbiamo sempre considerato importante nella nostra terra è data dalla ricchezza di realtà associative e cooperative nelle quali i trentini si riuniscono, spinti certo da interessi specifici ma disponibili a fare rete di solidarietà nelle comunità e contribuendo a creare una narrazione unitaria e un senso di appartenenza (tendenzialmente non chiuso, mi vengono in mente i figli di genitori non trentini che partecipano ai corsi per diventare vigile del fuoco o ai ragazzini di colore sempre più presenti nelle squadre sportive dei nostri paesi…). Queste associazioni ci sono ancora, numerose, ma a me sembra che siano “frammentate”, che tendano a chiudere la loro esperienza nella coltivazione del proprio interesse o del proprio oggetto sociale e si sentano meno di un tempo parte di un progetto più largo, di una visione di comunità grande che dà senso anche al mio particolare campo (cantare, suonare, recitare, giocare, occuparmi delle povertà, assistere gli ammalati…) A me pare che la politica abbia smesso di “cucire la tela”, di essere vicina, dentro queste realtà, di farsi rigenerare da esse (anche a livello del ricambio delle persone) per diventare addirittura un fattore della frammentazione coltivando, quando va bene, solo un rapporto amministrativo o di “do ut des” e contribuendo così a far sommare all’egoismo e all’individualismo crescente delle persone una sorta di egoismo anche delle realtà associative … come se una comunità potesse vivere trasformata in sommatoria di egoismi.
Si permetta all'”ultimo degli ultimi” d’entrare nel merito di questa cocente e preventivata sconfitta. Sconfitta che certamente ha delle precise cause e responsabilità. Sopra si richiama ad una persa collegialità, ad individualismi più o meno evidenziati dai “nostri” che per anni hanno gestito l’onere e l’onore della cosa pubblica. Come potrei non concordare! Cos’altro ci si poteva spettare se una “classe dirigente” innalza la bandiere del personalismo e del potere fine a se stesso! Ho ben chiaro dentro, nel profondo dell’anima mia (e mi si permetta, con un po’ di nostalgia!), l’alta concezione della politica d’un tempo lontano. Quel senso d’appartenenza collettiva ad un “credo” ad una “fede”, supportata da principi base nei quali prevaleva il “NOI” e con i quali si “combatteva” l'”IO”. Questi principi (che purtroppo si son persi durante un accidentato e lungo percorso), erano supportati e condotti da “comandanti” portatori d’alta moralità politica, la voce era una, una sola! All’interno della sinistra, partendo dalla base stessa, si sviluppavano concetti, le discussioni nei circoli erano vive e partecipate, molto partecipate, sia nei toni che nei numeri! Ma la sintesi finale era univoca. Proviamo a rammentare, la composizione del Comitato Centrale era formata da Uomini con una forte e differente personalità: Paietta, Ingrao, Napoliotano Berlinguer, Natta, Occhetto ecc. Ognuno di loro, grazie ad una ben radicata formazione politica, portatori d’una visione sul sociale diversificata. Le discussioni all’interno del C.C. erano quindi da considerarsi “forti” grazie alle personalità sopra nominate, sia sul/i metodo/i sia per le politiche atte a raggiungere gli obbiettivi… la voce che amplificava poi la linea comune raggiunta, era una, quella del Segretario! Oggi, purtroppo abbiamo (mi si conceda) un pollaio con tanti galli… da quel pollaio escono tante voci ma così distoniche che non riescono a fare coro! Ognuno cerca di sopraffare l’altro creando correnti e alleanze… sete di Potere? Eccessivi personalismi? Tutto ciò comporta confusione alla base che supporta “quello” o “quell’altro” riproducendo nella stessa uguale incapacità di ascoltarsi per ricercare la linea comune. Forse sarebbe il caso che la mia generazione (ho 75 anni vissuti e partecipati!) facesse un passo di lato. Ho avuto il piacere di ascoltare nella mia zona, confrontandomi con loro, dei baldi giovani, esponevano concetti e problematiche sociali quali: paure del diverso, ambiente, gestione partecipata, politica locale, provinciale, nazionale ed internazionale, si esprimevano in maniera così limpida, con quella bella voglia ed entusiasmo giovanile di essere e di dare, a prescindere dagli ostacoli e delle difficoltà… ho dato loro il mio voto, ben sapendo che non ce l’avrebbero fatta, ma l’ho dato perché mi hanno acceso una assopita luce di speranza!
Possiamo accettare che un combiamento non in linea con le nostre aspettative sia anche figlio dei nostri limiti di comprensione?
C’è molta legna da ardere ma i boschi non sono infiniti.
Ciao Michele,
Concordo con questo pensiero di prospettiva
“Serve un nuovo racconto, che sappia far tesoro del passato e cambiare i propri paradigmi. Ciascuno può esserne interprete. Con un viaggio attraverso i limes del nostro tempo5 o con un libro che si propone di disincagliare le ali dell’angelo della storia6. Le strade possono essere molteplici, nessuna autosufficiente. Credo che il bandolo della matassa stia proprio qui: la consapevolezza che una storia è finita e che il “non ancora” sia – malgrado l’inverno per cui ci stiamo attrezzando – nelle mani feconde di chi avrà voglia di sporcarsele.”
Spero altresì che la fase del “non ancora” non sia così lunga da non porsi il problema che il “sonno della ragione” può diventare lungo (forse, perpetuo?).
Buon lavoro,
Giacomo Pasquazzo
Scrive su fb Thomas Miorin, invitando a leggere questa riflessione: Da più di un anno Michele Nardelli ci ha racconta le diverse dimensioni di un Trentino che, come lui diceva, ci sfugge tra le dita. Ora che se ne è andata anche la mano, vi invito a leggere le sue parole che vanno oltre la riflessione post elettorale e invitano a “sporcarsi le mani per costruire, collettivamente, un nuovo racconto”.
Come anche tu, lo dico da tempo che il cuore del problema sta nel fatto che “la sinistra non ha più un racconto da proporre, ferma com’è ad un tempo che non esiste più”. Scrivo da una regione (la Toscana) in cui la falsa sinistra ancora governa, ma dove anche qui comincia a temere le prossime verifiche elettorali. E comunque non è questione di localismi, non si può sperare di vivere in un’isola felice in mezzo alle destre montanti: o si riesce a cambiare almeno un po’ la cultura generale, o prima o poi si finisce per essere risucchiati.
E quindi il punto è proprio dar vita a un nuovo racconto, cosa per la quale concordo servano molte strade e strategie diverse, che tuttavia dubito possano andare a buon fine senza un “regista” (non intendo una persona, ma un soggetto collettivo) che – con apertura, disponibilità, comprensione e discrezione – funga da “regista”, perché senza una regia ogni storia si disperde in molte narrazioni collidenti.
E qui la cosa che mi inquieta: nessuno mi pare si candidi, o semplicemente si rimbocchi le maniche, per dar vita a questo “regista”. Molti appelli, molte esortazioni, molte dolenze e soprattutto molti (anch’io, anche tu) che si sentono ormai “troppo anziani” per esserne parte, quasi che il giovanilismo rottamatore dei Mattei e dei “cittadini” avesse colpito i singoli ancor prima che la società.
Come rimediare a questa immensa (e ormai storica) lacuna?