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Ritorno a casa Bouazizi, culla dell’incompiuta rivoluzione tunisina

“Bouazizi partecipò alle manifestazioni di protesta degli agricoltori nel luglio 2010 e da allora la polizia lo aveva schedato e preso di mira. Prima di diventare un ambulante, gestiva un terreno dello zio Salah. Ma gli venne tolto dalla banca e dai potentati locali perché, a loro dire, era gestito in modo irregolare” racconta Slimane Rouissi dai tavolini del caffè Samarkand, punto di ritrovo dei manifestanti, ora come allora. Rouissi presiede una commissione che si occupa di difendere i giovani dalle prevaricazioni del potere, è un ingegnere e stimato professore di educazione tecnica, e coltiva la memoria di Mohamed.

“Dopo essere stato ingiustamente sanzionato dalla polizia né il sindaco né il governatore vollero riceverlo – prosegue ricostruendo una dinamica diversa da quella conosciuta – Allora andò in un negozio vicino e si procurò del solvente per vernici. Si cosparse i vestiti, ma l’accendino non funzionava. Le esalazioni del solvente e una scintilla furono sufficienti poco dopo a incendiarlo. Probabilmente il suo era solo un atto dimostrativo, non intendeva uccidersi. Quella di Mohamed è una storia di rivolta”.

La situazione oggi non è migliorata. Disoccupazione e precariato erodono ogni brandello di futuro. E “il suicidio è diventato un fenomeno all’ordine del giorno, innescato dalla disperazione – prosegue Rouissi –. Nessuno ne parla, le istituzioni sono silenti e senza rispetto”.

Sidi Bouzid, sette anni dopo. Già, i suicidi. Da peccatori (per l’Islam) sono diventati martiri e continuano ad alimentare il disagio. Nella tormentata Kasserine, un altro epicentro delle rivolte, l’Osservatorio sociale tunisino ha censito 34 suicidi o tentati suicidi nel solo mese di settembre, quasi tutti nella fascia dai 26 ai 35 anni. L’assenza di prospettive.

Sono ripartite anche le proteste collettive. A settembre sono state 53 a Sidi Bouzid, 35 a Kasserine, 58 a Kairouan, 70 a Gafsa, 10 a Sfax. “In questi sette anni sono mancate le risposte per i disoccupati e un progetto di speranza per le persone. Ma un fatto positivo c’è: il popolo non ha più paura dei governanti” analizza Naceur Dhahri, anima dell’Union générale tunisienne du travail e tra i leader delle rivolte del 2010.

Sidi Bouzid si conferma la spia del malessere tunisino – come ai tempi del protettorato francese – , la patologia che non trova rimedi significativi nonostante una democrazia avviata dove Ennahda, il partito dei Fratelli musulmani tunisini perseguitato da Burghiba e Ben Ali, rappresenta il vero elemento di discontinuità. “Il paradosso è che Ennahda non credeva nella rivoluzione, si è attivata solo quando ha osservato i suoi militanti partecipare alle proteste – racconta Dhahri -. Ma sono arrivati dopo, quando la spallata al regime di Ben Ali era stata già assestata. Hanno accettato che Beji Caid Essebsi (attuale presidente della repubblica ed ex ministro di Burghiba, ndr) diventasse primo ministro nel febbraio 2011. Lui, un uomo dell’ancien régime. E’ cominciata così la controrivoluzione che ha anestetizzato la domanda di cambiamento”.

Sidi Bouzid, sette anni dopo. I giovani cercano di superare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia e l’Europa, altri hanno imbracciato un fucile e sposato il jihad in Siria (da 3.000 a 6.000 i foreign fighters risucchiati nello scacchiere di guerra). Qui i salafiti, nell’imponente moschea che si affaccia su avenue Burghiba, propagano il loro assolutismo religioso con seduzione perché l’alternativa latita. “Il 60% dei ragazzi è disoccupato, nemmeno la laurea aiuta a costruire una prospettiva di vita. Non so dire con precisione quanti si siano arruolati in Daesh, tanti. Chi torna viene consegnato alla giustizia per essere processato. Il lavoro degli imam nelle moschee è determinante, non si possono lasciare agli estremisti” afferma il sindaco Fadhel Heni che da cinque anni si batte per attrarre finanziamenti e sensibilizzare il governo nazionale sulla disparità che da sempre affetta la Tunisia, tra la prosperità della costa e le ristrettezze dell’entroterra.

L’economia informale allevia solo in parte le sofferenza di una regione claudicante, psicologicamente e materialmente disorientata dallo scarto tra le attese della rivolta e i suoi esiti. Pompe di benzina artigianali (e abusive) si alternano lungo le strade, in garage improvvisati, rivendendo a prezzi ribassati (1 dinaro al litro contro 1,25) il carburante smerciato alle frontiere della Libia. Ma i dati macroeconomici descrivono una congiuntura complessa in tutto il Paese. Il debito pubblico è salito nel corso del 2017 a 63,1 miliardi di dinari (dieci in più rispetto al 2016), il tasso di disoccupazione è del 15,3% (31% per i laureati), un numero crescente di lavoratori finisce fuori dal perimetro dell’assistenza sociale e previdenziale di Stato.

Intanto nella vicina Souk Jedid la scuola primaria dedicata a Mohamed Brahmi – il leader politico di “Movimento popolare” ucciso nel 2013 probabilmente dai salafiti, la cui morte aveva precipitato la Tunisia sull’orlo di una guerra civile – è animata dalle lezioni della mattina. I bambini salutano, “bonjour monsieur”, dall’interno di strutture fatiscenti. Il preside Mustapha Alibi è disarmato: “Lavoriamo in condizioni disperate. Questi bambini, una volta adulti, hanno una sola possibilità: emigrare da questa regione. Dal 2010 non è cambiato nulla, forse servirebbe un’altra rivoluzione”.

* da eastwest.eu

 

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