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«Lo sviluppo sostenibile […] è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali». È evidente il carattere innovativo, per i tempi, di questa teorizzazione: per la prima volta non si parla solo di soddisfacimento e di miglioramento delle attuali condizioni di vita, ma si mette in evidenza come il miglioramento debba essere garantito anche per le generazioni successive, conservando e tutelando quelle condizioni ambientali e biologiche che ne costituiscono le condizioni necessarie.

Nel 1992 in Brasile sembrò davvero che tutto il mondo intendesse impegnarsi per cambiare rotta, per intervenire in modo drastico su quelle storture e quelle derive che tre secoli di industrializzazione galoppante avevano trasformato nelle caratteristiche fondanti del modello economico occidentale predominante.

Nell’ambito di quella conferenza furono stilati alcuni tra i documenti che ancora oggi risiedono nel pantheon della legislazione internazionale in materia di ambiente e sviluppo. Furono redatte la Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (che in uno dei suoi successivi emendamenti diventò il più conosciuto Protocollo di Kyoto), si imbastì il piano d’azione Agenda 21 e, a coronamento delle due settimane di summit, vide la luce la Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, un testo che ancora oggi parla con estrema forza e chiarezza. La conferenza di Rio de Janeiro è stata tutto questo, e tutto questo è anche ciò che si celebrerà a giugno, nell’ambito della conferenza Rio+20.

Devo dire che l’avvicinarsi di questo appuntamento genera in me sentimenti contrastanti. Da una parte ancora una volta la speranza che sia questa l’occasione per far sentire forte e chiaro il messaggio di unità nella comunità-mondo che emergeva da Rio 20 anni fa. Una comunità che tutta insieme si fa carico, nella peculiarità di ogni situazione, dei problemi che affliggono il pianeta e i suoi abitanti. La dichiarazione di Rio del 1992 parlava delle responsabilità dei paesi più ricchi nei confronti di quelli in via di sviluppo, riconosceva la necessità di mettere al centro i giovani e le donne per far fronte alle emergenze mondiali, sottolineava la necessità che ciascuno facesse la propria parte perché, ed è questo a mio parere uno degli aspetti più significativi emersi da Rio, si riconosceva la «natura integrale e interdipendente della Terra, la nostra casa».

D’altra parte alla speranza si contrappone la disillusione generata dal fatto di constatare come 20 anni di dichiarazioni e di documenti di indirizzo non ci abbiano portato sufficientemente in là nel percorso di ciò che si intende per sviluppo sostenibile. Di più, la disillusione e lo scetticismo nascono dal vedere che questa definizione è diventata uno slogan buono per tutte le stagioni e per tutti gli usi, per i ricchi e per i poveri, per i padroni e per gli schiavi, per le organizzazioni non governative e per le grandi corporation. Tutto ciò mi fa pensare che ci sia qualche cosa che non va, e che la conferenza di Rio possa essere un nuovo strumento di anestetizzazione della coscienza collettiva nei confronti di tematiche vitali per l’umanità intera. Insomma, ci si ritrova 20 anni dopo, questo significa che il mondo sta cercando di risolvere il problema, dunque che motivo c’è di preoccuparsi e impegnarsi in prima persona? Bisogna farlo, invece, per essere parte attiva di un percorso di riscatto che è tutt’altro che unidirezionale o stabilito, e che necessita di un nostro coinvolgimento consapevole sia come singoli sia, ancora di più, come associazione Slow Food.

La nostra scelta è stata di connotare la nostra presenza a Rio (dove abbiamo da poco aperto una sede) in una posizione marginale rispetto alla conferenza vera e propria. Vogliamo essere presenti ma marcare una distinzione, sottolineare la volontà di essere concreti, immersi nella realtà. Vogliamo coinvolgere e farci coinvolgere dalla popolazione locale e dare visibilità agli esempi virtuosi già esistenti. Vogliamo lasciare il segno nel cuore della città, non limitarci a discutere con le organizzazioni che parteciperanno al summit. In quest’ottica stiamo consolidando la nostra presenza nella rete dei mercati contadini della città, realizzando nello stesso tempo un lavoro di mappatura di tutti i piccoli produttori ecologici e biologici dello stato di Rio con l’obiettivo di capire che cosa vi si produce e si commercializza. Al termine di questo lavoro verrà pubblicato un catalogo che sarà distribuito nell’ambito della conferenza.

Credo che sia necessario gettare uno sguardo sulle prospettive concrete che si sono aperte e si aprono ogni giorno sui territori e che coinvolgono migliaia di contadini e coproduttori in tutto il pianeta. Il Brasile da questo punto di vista è paradigmatico, nel senso che fa segnare uno dei tassi di crescita economica più elevati, può contare su una grande quantità di risorse naturali ed è il paese che nel futuro prossimo sarà al centro del mondo per i campionati mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi nel 2016. Questi due eventi sportivi non devono essere archiviati solo come tali, al contrario sono l’esempio più evidente di un’intera società che si sta affacciando prepotentemente all’onor del mondo. Nello stesso tempo è un paese che vive tutte le contraddizioni figlie di questo stesso sviluppo, e proprio qui dobbiamo collocare la nostra azione e il nostro impegno.

* Carlo Petrini da Slow Food

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