Etica oggi
E’ ora di ritornare a pensare
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I confini della libertà economica
16 Maggio 2011
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Non intendo in questo scritto indagare il primo aspetto, se non per annotare che nel secolo che ci siamo messi alle spalle abbiamo consumato la speranza nel cambiamento collettivo tanto che le istanze di liberazione dall’alienazione si sono trasformate nel loro opposto. Voglio solo dire che a questo non dovremmo rassegnarci.

E’ invece sul diritto ad un progetto di vita che mi vorrei soffermare. Perché è davvero difficile vivere in assenza di un’idea di futuro. Tanto per cominciare, i nostri giovani hanno già messo in conto che una pensione non ce l’avranno mai. In buona sostanza che le leggi sul lavoro e la previdenza sociale non valgono per tutti e comunque non per loro. Non è il mito del posto fisso: sono convinto che se ad un ragazzo di vent’anni chiedessimo di scegliere fra un’occupazione che continuerà sempre uguale per tutta la propria esistenza oppure un lavoro che gli possa aprire diverse strade professionali, sceglierebbe questa seconda opportunità. Ma purtroppo la realtà è un’altra, si chiama precarietà, non certo  flessibilità. E questo nonostante fra i giovani vi sia una grande disponibilità a mettersi in gioco, a misurarsi sulle proprie competenze, a lavorare senza l’orologio in mano. Che sbatte il muso con un mondo adulto fatto di meschinità e di gerarchie, di paternalismo peloso e di ricatti ("se ti va bene così o…"), di incapacità di cogliere l’innovazione magari per poi appropriarsene indebitamente. Insomma l’umiliazione della precarietà.

Che ti impedisce di avere una vita tua. Di avere una casa diversa da quella dei tuoi genitori, per esempio. Con l’attuale mercato immobiliare, la possibilità di mettere su casa diventa remota, passa attraverso la fortuna dell’eredità oppure l’accensione di un mutuo trentennale per cui in una coppia di giovani uno dei due stipendi (sempre ad averli, perché le banche non ti fanno il mutuo senza garanzie) se ne va nel pagamento delle rate mensili per una vita intera. Rimane l’affitto, certo, non così diverso nella sostanza dal mutuo che almeno ti offre la possibilità di essere un giorno sotto un tetto tutto tuo senza la preoccupazione che qualcuno ti possa dire prima o poi "mi spiace ma questa abitazione serve a me".

La precarietà può essere descritta in tanti altri modi, come la disponibilità di fare lo stesso lavoro con salari cinque volte inferiori e il ricatto che ne viene, in assenza di condizioni di tutela della salute delle persone, senza oneri previdenziali…  O altro ancora, come l’idea che ci viene quotidianamente propinata dalla televisione, pubblica o privata che sia, di affidare ad un colpo di fortuna la risoluzione dei propri problemi. Tanto che più un paese vive nell’incertezza economica, più è esposto al diffondersi di macchinette mangiasoldi, lotterie, casinò. Oppure all’associare l’avvenire alla mercificazione del proprio corpo. 

La precarietà e l’incertezza del futuro dovrebbero essere al primo posto dell’agenda politica. Non per tutelare qualcuno rispetto a qualcun altro, usando la paura come grimaldello per ottenere consenso, bensì nel sapere leggere la precarietà di uno come l’insicurezza di tutti. L’opposto del "non nel mio giardino", del corporativismo, della difesa con le unghie di quel che si ha o del proprio modello di vita e di consumi.

Se non riusciremo in questa grande sfida di civiltà, se non sapremo avanzare e far vivere una proposta improntata alla consapevolezza del carattere limitato delle risorse e dunque alla sobrietà, se prevarrà il "si salvi chi può", sarà il tempo del "tutti contro tutti", sarà (è già?) la guerra. Questa attenzione non solo è assente nell’azione del Governo Berlusconi, ma il modello sociale che ci viene proposto – nei provvedimenti come negli approcci culturali e nei comportamenti – va esattamente nella direzione opposta, quel farsi furbo che mina alle basi il senso stesso di una comunità: privatizzare risorse come l’acqua, condonare gli abusi e cementificare il territorio, vendere le spiagge, incentivare il gioco d’azzardo.

Non è dunque affatto casuale che le parole "precarietà" e "futuro" siano state al centro dello sciopero generale promosso nei giorni scorsi dalla più grande confederazione sindacale italiana, la Cgil. E che i giovani ne siano stati ovunque in Italia i protagonisti. 

Proprio perché la sfida è di quelle belle toste, richiederebbe un disegno condiviso, a cominciare dall’unità nel mondo sindacale, che invece è diviso. E non per un rapporto più o meno subalterno verso il governo Berlusconi o la politica. Il movimento sindacale è diviso sulle risposte da dare, se mettersi a difendere quel che si ha o accettare la sfida dei processi di trasformazione, che richiedono grande capacità di innovare le nostre chiavi di lettura come gli strumenti per metterci mano. Riguarda tutti, organizzazioni sindacali, partiti, società civile. Una sfida che va oltre l’unità dei lavoratori, richiede coesione sociale, la consapevolezza che ne usciamo tutti insieme o non se ne esce.

Vale anche per una realtà pure diversa come il Trentino. Che non è un’isola felice, perché nel villaggio globale nessun uomo è un’isola, figuriamoci un territorio. E’ pur vero che c’è una storia ed un patrimonio importanti, che ci hanno messo a disposizione strumenti efficaci con cui affrontare le dinamiche di questo tempo come le prerogative dell’autonomia. So bene che siamo su un crinale difficile da percorrere, tanto è facile cadere nel privilegio. Ma se intendiamo l’autonomia come opportunità di autogoverno delle unicità di ogni territorio, in dialogo e in competizione (cercare insieme) con il mondo, siamo sul terreno della responsabilità, del farsi carico, della partecipazione e della democrazia.

Se migliaia di persone, in una manifestazione come nel silenzio assordante dell’atomizzazione sociale, esprimono (in forme diverse)un grido di dolore, io credo che compito di chi ha a cuore il futuro e pensa alla politica non come affermazione personale sia quello di saperlo ascoltare. Non di rincorrerlo purchessia, ma di provare a farlo diventare proposta collettiva, progetto di futuro.

Per questo vorrei ringraziare la Cgil del Trentino, per aver saputo dare voce al silenzio, impegnandosi in questi mesi nel cercare strade che allo sterile antagonismo preferiscono la coesione. E’ sempre più facile gridare che proporre, porre veti piuttosto che farsi carico. Lo dico senza nulla togliere al valore dei conflitti, purché siano improntati alla ricerca del bene comune. Il mio auspicio è che questa strada vada nella direzione dell’unità sindacale, che potrebbe trovare proprio qui, su questa terra, capacità e intelligenze per una sperimentazione originale. Alla quale far corrispondere idee innovative capaci di dare risposte alle grandi sfide del nostro tempo.

3 Comments

  1. Daniela Zecca ha detto:

    Quale idea di futuro può avere un giovane, italiano, di 40 anni? Mi lego così all’intervento del 9 maggio di Michele Nardelli: parafrasando le sue stesse parole di inizio. Come sempre sensibile ai problemi civili e sociali, Nardelli si impegna con onestà intellettuale a spronare la ricerca di risposte collettive e idee innovative per rispondere alle sfide del nostro tempo.

    Condivido con lui la convinzione che le soluzioni comuni e condivise siano effettivamente buone armi contro la precarietà lavorativa e le difficili dinamiche sociali. Eppure leggendo il suo scritto mi sono sentita esclusa. Esclusa dalla possibilità di avere un progetto di vita futura. Compio a breve quarant’anni. Sono donna. Sono temporaneamente disoccupata (o inoccupata, o in cerca di occupazione o flessibile che dir si voglia). Sono sufficientemente qualificata da sentirmi rispondere dalle varie agenzie di lavoro – pubbliche e private – che è difficile aiutare una con il mio curriculum (inizio a credere che non sia un complimento; forse è un male «avere un curriculum come il mio»?). Mi sento una persona attiva, intelligente, volenterosa, disposta a lavorare molto. Eppure domani non vado al lavoro. Non so quando prenderò il mio prossimo stipendio. Non so di quale importo sarà questo stipendio. Non so in quale città (trentina? Italiana?) prenderò il mio prossimo stipendio. Questo vuol dire che non posso nemmeno programmare i miei prossimi pochi mesi di vita. Non posso far sentire sicuri i miei genitori (la cui età è quella nella quale un genitore dovrebbe vedere il proprio figlio realizzato, autonomo, adulto). In queste condizioni non so come sognare un figlio. A quarant’anni ho diritto ad un progetto di vita? Da quello che leggo non ne ho più diritto. È scaduto il tempo. È scaduto il mio contratto e con esso la possibilità di riscatto nei confronti della società. È scaduta anche la possibilità di vedere le mie potenzialità intellettuali e produttive, valorizzate e rese concrete, reali. La preoccupazione della società Italiana adesso sembra essere per i ventenni. Come se la mia generazione avesse visto risolversi tutti i problemi! Come se la generazione dei quarantenni bamboccioni d’Italia non fosse più un problema. Risolto. O mai esistito. Mi preoccupo molto quando leggo frasi ipotetiche al futuro, che danno ancora tempo ai nostri decisori e ai nostri amministratori della cosa pubblica. Frasi del tipo: «se non sapremo prendere le giuste decisioni i nostri giovani non avranno un futuro da sognare». In realtà le giuste decisioni non sono state prese. Gli errori sono già stati commessi. Il problema esiste già e da molto tempo. Quelli che erano ventenni adesso sono quarantenni disillusi. Rifiutati, in qualche modo, dalla attuale società italiana (per poi essere talvolta generosamente e scaltramente riscoperti ed assunti dagli oltreoceano). Le risposte non sono state trovate né dalla politica né dalla società civile e il problema cè già. Il futuro è ora. Pensavo fosse chiaro come il sole. Pensavo fosse di dominio pubblico: la guerra è già in corso, non si sta rischiando che scoppi. Domani mi reco presso un agenzia di lavoro. Forse dovrò sperare che qualcuno sia sia fatto male ad una gamba e non possa andare al lavoro, così magari il suo posto diventerà il mio, almeno per breve tempo…
    Daniela Zecca
    zetadany@gmail.com

  2. Edoardo Benuzzi ha detto:

    Sul tema giovani e lavoro, giovani e futuro, cercasi strategia vincente. Perché è “davvero difficile vivere in assenza di un’idea di futuro”, non solo per i ventenni, “prigionieri della precarietà” (Michele Nardelli, l’Adige, 9.5.’11), ma ancor più per i quarantenni (da una lettera di una sconsolata lettrice).
    Necessità di avere un disegno, un’idea percepibile del profilo di un Paese, si potrebbe dire: una visione proiettata verso il futuro. Questo, per l’Italia ma anche per l’Europa, che pure ha individuato, con Lisbona 1, l’idea-forza della società della conoscenza ma non ha trovato finora al proprio interno la forza politica di realizzarla in tutti i suoi paesi membri.
    “…il livello di aspirazione – quanto in alto si pone l’asticella degli obiettivi – è un ingrediente essenziale di un forte programma riformatore”: è ciò che Michele Salvati non trova nel Documento economico e finanziario (Def) né nel Piano nazionale per le riforme (Pnr) per la “strategia 2020” del governo italiano (Corriere della sera, 11.5.11).
    Un livello alto di aspirazione è quello che dà energia ed entusiasmo a grandi masse di giovani intorno a noi, ed anche coraggio per affrontare grandi rischi per la propria vita.
    Una prospettiva lunga di crescita è tanto necessaria oggi quanto assente.
    Ho memoria di un piano per la “riconversione ecologica dell’economia” di Legambiente, era il 1994 e c’era un piano alternativo, quello delle finanziarie di Giuliano Amato con l’obiettivo dell’entrata dell’Italia nel progetto della moneta unica, al pari delle altre nazioni europee.
    Le proposte di Legambiente non erano pura accademia, indicavano la possibilità di piegare i diversi fattori dell’economia verso una riconversione ecologica complessiva (trasporto pubblico, manutenzione delle città, ripristino ambientale, risparmio energetico). Oggi si parla di green economy, la Corea, esempio poco conosciuto, sta usando “tutto lo spazio fiscale di cui disponeva per rispondere alla crisi in breve termine, per investire le sue risorse – non solo finanziarie ma anche istituzionali – su un modello di crescita verde”(Padoan, OCSE).
    Milano andrà prossimamente a cinque referendum per una forte impronta ecologica della città.
    L’EURISPES, nel suo “Rapporto Italia 2006”, candidava la sanità pubblica come la maggiore holding sulla quale scommettere per il futuro del paese sia in termini di produzione che di benessere: il Servizio sanitario nazionale “con la sua articolazione ed i suoi poli di eccellenza …come punto di riferimento per tutto il bacino del Mediterraneo”. Un’idea affascinante, una nuova visione di sé del Paese, grande senza essere utopistica perché individuava un ruolo collaborativo ed essenziale per evitarci la trappola coattiva della competizione ad ogni costo, disegnando nel contempo uno scenario di ‘sviluppo prossimale’ fondato sull’attitudine etica all’aiuto, al soccorso e al sostegno di chi ha più bisogno.
    La segretaria della CGIL Rosanna Camusso, qualche settimana fa a Rovereto, ha delineato quello che potrebbe essere il nuovo ruolo strategico per l’Italia, così argomentando: se la Germania può essere la piattaforma tecnico-logistica per il nord Europa, perché l’Italia non può candidarsi alla stessa funzione per il sud Europa, per l’intero Mediterraneo? Certo, significherebbe spostare l’asse dello sviluppo verso il sud del paese, liberare intere regioni da ipoteche malavitose ma in quella prospettiva di lungo corso anche il “vogliamo continuare a costruire automobili, camion e trattori” auspicato da Landini (FIOM) poggerebbe su un terreno più realistico.
    Si tratterebbe di intraprendere una direzione di crescita diversamente orientata, certo autocentrata e con un forte legame con le vocazioni del territorio ma soprattutto aperta a un’idea di “sviluppo prossimale”, con gemellaggi economici paritari, tutoraggi gratuiti ed amicizia culturale reciproca.
    Nel nostro mondo globalizzato, ogni parte dovrebbe aspirare a contribuire alla crescita globale, con quel quid insopprimibile di unicità, irripetibilità, originalità , che reca in sé l’impronta dei luoghi e proprio per questo può diventare messaggio e relazione tra le persone e le culture, tra i popoli ed i diversi sistemi economici.
    Questo quid speciale e non “delocalizzabile” sta nella creatività espressa in molteplici campi, far interagire in modo sinergico le filiere del bello, del gusto, del salutare assieme e con l’aiuto di ricerca e conoscenza potrebbe dar corpo ad un profilo di paese con un’alta e degna aspirazione e con giusta consapevolezza di sé e della propria storia.
    Edoardo Benuzzi

  3. Lorenzo Pomini ha detto:

    Come un pugno nello stomaco l’articolo di Daniela Zecca (l’Adige, 11 maggio) riguardo le considerazioni di Michele Nardelli (l’Adige, 9 maggio) sulla precarietà dei giovani. Che una volta di più misura la distanza tra il mondo della politica e la concretezza del mondo reale. Non me ne voglia il consigliere provinciale del Pd, che per altro offre alcuni interessanti spunti di ragionamento, ma scivola poi sul terreno dell’ideologia, delle parole d’ordine, dell’esaltazione dell’opera della Cgil e dell’ennesimo sciopero solitario, più generico che generale, che non porta da nessuna parte coloro che chiedono lavoro e certezza in un futuro che è già ora, anzi di «una guerra che è già in corso, non si sta rischiando che scoppi» come ben parafrasa la quarantenne senza lavoro. Già il 12 febbraio scorso mi ero cimentato su questo giornale sul tema giovani precarietà e lavoro, dicendo che non voglio partecipare alla gara degli slogan, dell’ideologia, perché diventa francamente difficile stabilire se è più prioritaria l’occupazione di un giovane o di un lavoratore in mobilità con moglie e figli a carico, o di una donna che a quarant’anni non è più giovane per entrare nelle parole d’ordine ma nemmeno vuole dimenticare che i suoi problemi sono, appunto, uguali a quelli dei giovani: un lavoro certo, una famiglia, insomma la speranza in un futuro da vivere in autonomia. Servono idee e progetti, proposte, da discutere con chi ha idee e competenze, con chi vuole metterci la faccia (cioè la responsabilità) per qualificare la nostra autonomia speciale, il nostro agire con sano pragmatismo, per dare risposte «senza età» che non portano magari la gente in piazza ma la mettono nei posti di lavoro, per non far più sentire nessuno/a esclusa da quel diritto di cittadinanza che passa in primis dal lavoro stabile. Con sano pragmatismo si è mossa la cabina di regia (costituita dalle parti sociali) voluta dalla Giunta provinciale per costruire opportunità occupazionali per i giovani che vanno dai 16 ai 35 anni: sono stati meglio affinati gli strumenti dell’apprendistato (di cui siamo stati precursori rispetto la legislazione nazionale), nuovi incentivi sono proposti per stabilizzare i rapporti di lavoro, per sostenere la transizione scuola-lavoro, per ridurre le discrepanze tra domanda e offerta, per l’occupazione femminile, e per aiutare la nuova imprenditoria. Ma mi accorgo che il limite d’età c’è, i meno giovani non sono ricompresi in queste importanti linee guida. Potranno sicuramente aiutare i lavoratori/ici di ogni età i nuovi ammortizzatori sociali provinciali, quando la speciale delega concessa dal governo nazionale potrà dispiegare tutti i suoi effetti nell’aiutare a superare i momenti di non lavoro, in parte con il sostegno al reddito e soprattutto con le politiche attive del lavoro che però, è giusto ricordarlo, richiedono molte risorse economiche e umane (orientamento, formazione, specializzazione) per tradursi in vere opportunità occupazionali. Qui la Giunta provinciale dovrà garantire adeguate risorse economiche, per rendere credibile questa riforma. Ma la vera sfida, a mio modesto parere, riguarda l’impegno che devono assumere le associazioni imprenditoriali e soprattutto le imprese trentine. Credo che questi nostri imprenditori debbano pure dare qualcosa alla nostra comunità: se penso ai potenti ed efficaci strumenti messi in campo dalla politica durante la crisi economica (sostegno alla capitalizzazione e al credito, ristrutturazione mutui, lease-back, fondo Olivi, contributi per la ricerca ecc.) e quanto fatto dal sindacato con gli accordi sulle mobilità per la riduzione del personale, la gestione delle varie forme di cassa integrazione, l’utilizzo di tutte le forme di flessibilità lavorativa per approfittare di ogni più piccolo cenno di risveglio dei mercati, bene credo si possa dire ad alta voce che una parte ha dato e ora tocca a chi ha ricevuto restituire di pari passo attraverso una forte ripresa di occupazione stabile (e non atipica). Dobbiamo avere il coraggio di chiedere ad alta voce alla classe imprenditoriale trentina di fare la propria parte, e questo coraggio lo deve trovare la politica assieme al sindacato. Basta con le troppe timidezze, altrimenti la «nostra» crisi durerà finché ci saranno contributi provinciali da chiedere! Possibile che oggi sul tavolo del confronto ci sia solo la «promessa» dell’Associazione Artigiani riguardo i mille posti di lavoro in più nel proprio comparto? Perché le altre Associazioni Imprenditoriali tacciono, perché non sentono la responsabilità di impegnarsi verso la comunità, restituendo una parte di quanto hanno ricevuto le aziende in questi ultimi due anni? Da qui, da questa esercizio di responsabilità, da questi impegni che devono tradursi in atti concreti incrementando l’occupazione, passa la possibilità di un Trentino in grado di reggere le sfide del dopo crisi, dei giovani e meno giovani, del futuro della comunità.

    Lorenzo Pomini, Segretario della Cisl del Trentino