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“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (71)

di Michele Nardelli

Voglio ancora sperare che nel duro braccio di ferro fra Spagna e Catalogna si possano riaprire margini di colloquio e di mediazione. Lo auspico non per una sorta di irenismo di maniera, ma perché s’impone un cambio di sguardo che riguarda ciascuno di noi e ognuna delle comunità politiche di cui siamo parte.

Di certo, l’epilogo cui si è giunti nella giornata di venerdì scorso 27 ottobre con la destituzione del governo e con lo scioglimento del parlamento catalani sembra voler abbattere ogni ponte alle spalle dei contendenti, lasciando ben poche speranze di ricomposizione e di evoluzione positiva del conflitto. Quel che accadrà nei prossimi mesi, in assenza di un passo indietro nel rivendicare ottuse sovranità, sembra un copione già troppe volte drammaticamente conosciuto anche in tempi recenti.

Serve a poco in questo momento indagare i diversi livelli di responsabilità nell’aver determinato questa situazione, quand’anche appaia piuttosto evidente che essi sono da ripartire fra tutti i soggetti chiamati in causa in questa vicenda, il governo spagnolo, quello catalano e la comunità europea.

Così come è difficile immaginare che nel conflitto di poteri che si apre con l’attivazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola e con la dichiarazione di indipendenza possa prevalere la scelta della nonviolenza, perché se questo approccio fosse stato percorso si sarebbero previste per tempo delle possibili vie d’uscita onorevoli per ciascuna delle parti.

Siamo inoltre costretti a prendere atto dell’ennesimo fallimento politico dell’Europa, quell’Europa che, oggi come in ognuna delle crisi che si sono aperte dopo la caduta del muro, avrebbe potuto rappresentare invece la chiave per una via d’uscita dalla crisi.

Perché è questa la strada da percorrere e sulla quale puntare ogni sforzo per evitare la degenerazione violenta del conflitto, in Spagna come in ogni altro paese in cui la crisi dei vecchi stati nazionali produce e produrrà rigurgiti di stampo nazionalista o sovranista.

La domanda che nasce spontanea è se questa Europa è in grado di rappresentare la risposta al crepuscolo degli stati nazionali e, a cascata, se il federalismo può ancora rappresentare una via d’uscita alla crisi della democrazia e della rappresentanza. L’una incapace di darsi una Costituzione politica e deprivata da parte degli Stati di reale capacità di governo, il federalismo lasciato nelle mani dei centralismi locali.

Di certo c’è che l’altra strada, quella delle sovranità e delle indipendenze, una narrazione tanto facile quanto demagogica, altro non nasconde se non la crisi della politica (e del pensiero politico) nel fornire risposte in un contesto sempre più interdipendente per effetto di un rapporto inedito fra spazio e tempo, e insostenibile come conseguenza di un pianeta che dal 1987 consuma in maniera crescente più di quanto gli ecosistemi terrestri non riescano a produrre.

A meno che non si teorizzi apertamente, ed è quello che sta avvenendo e che papa Francesco continua inascoltato a ripeterci, l’esubero di una parte consistente dell’umanità condannandola all’esclusione. E’ la guerra che abbiamo dichiarato nel momento in cui abbiamo accettato lo slogan “prima noi“.

La risposta alla domanda di cui sopra sta tutta dentro la nostra capacità (e la nostra volontà) di cambiare i paradigmi novecenteschi verso un approccio insieme sovranazionale e territoriale. Ovvero di un’Europa politica, aperta e federale, fondata cioè non sul primato degli stati nazionali ma su nuovi assetti istituzionali a geometria variabile che le comunità locali sono chiamate a darsi. Nell’invertire l’andamento della nostra impronta ecologica. Nel ripensare i luoghi in cui viviamo e la qualità dei nostri consumi. Nell’immaginare nuove forme di rappresentazione politica e nel fare della nonviolenza l’essenza della cultura della pace.

La crisi catalana – a ben guardare – anticipa gli scenari del futuro. Anche per questo ci riguarda.

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