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Per una buona gestione del conflitto

La nostra convivenza nelle comunità di appartenenza e a livello planetario ci mette sempre più di fronte a differenze di varia intensità. Vi sono almeno tre ambiti in cui si aprono conflitti dalla cui elaborazione dipende in buona misura la qualità della nostra vita presente e futura: l’incontro tra culture e l’interculturalità sono un campo ineluttabile che sollecita oltremodo la nostra capacità di elaborazione delle differenze e ci mette di fronte a rischi distruttivi, se non saremo capaci di gestire ed elaborare i conflitti che comporta; la finitudine delle risorse ambientali planetarie e le profonde disuguaglianze nella loro distribuzione, comportano conflitti che finora sono scaduti e scadono in antagonismi distruttivi, e risulta particolarmente difficile la loro elaborazione non distruttiva; il conflitto derivante dall’esclusione o dalla minorità femminile nella vita, nel lavoro, nell’economia e nelle istituzioni, attraversa tutte le nostre società e riguarda, in particolare, il predominio del codice paterno nella gestione del potere.

L’accessibilità al dialogo, al confronto, all’incontro tra le differenze, tutte parole per dire che cosa è il conflitto se non lo si confonde con la guerra e l’antagonismo, richiede impegno. Quell’accessibilità deve superare la propensione a negare che il conflitto esiste e ad affermare che in fondo stiamo bene così. In fondo, appunto. L’accesso al conflitto richiede di disporsi alla fatica della conoscenza e alla relativa depressione derivante dal relativizzare il proprio punto di vista. Non solo, ma richiede di riconoscere almeno una buona ragione nel punto di vista dell’altro che non la pensa come noi, non si comporta come noi e vuole cose che riteniamo solo nostre.

Com’è facile intuire, definire l’altro come “nemico” e stabilire una relazione antagonistica è più facile, immediato e comodo. L’altro può mostrarsi in tante forme e dimensioni. Può essere il migrante e lo straniero; coincide a volte con ciò che ci è molto vicino, come nei conflitti di genere tra maschile e femminile; può riguardare un interesse specifico su cui sono concentrate aspettative contrastanti; riguarda spesso le differenze con cui rispondiamo alle angosce di morte e, quindi, ai molteplici modi di affidarsi al sacro e alle religioni. A pensarci bene è la differenza che ci inquieta, pur essendo la fonte stessa della vita. Elaborare il turbamento di una posizione diversa dalla nostra suscita in noi una reazione che richiede elaborazione: in qualche caso riusciamo a contenere l’ansia che la differenza ci procura e a canalizzarla verso una buona elaborazione del conflitto; in altri casi non ci riusciamo.

L’altro e la differenza che porta con sé sono sempre ambigui per noi. Da un lato ci sollecitano curiosità e desiderio di conoscenza; dall’altro ci suscitano paura e inquietudine. Hospes e hostis è l’altro per noi: l’altro nelle sue diverse espressioni ci attrae e perturba. Ne deriva che siano almeno quattro gli ambiti in cui il conflitto si esprime e incide nelle nostre vite. Ognuno di noi si individua in un percorso di crescita in cui elabora la propria autonomia e con cui si differenzia dagli altri. In questo modo, pur essendo esseri relazionali, diventiamo unici. Il rischio relazionale primario ci accompagnerà per tutta la vita. L’altro è altro rispetto a noi, mentre è la fonte di noi. Il conflitto di individuazione ci fa vivere sulla soglia di noi e, a parte situazioni più uniche che rare, ci colloca in processi relazionali in cui non sappiamo mai prima come andrà a finire. Quando l’individuazione si consolida e si reifica in identità, finiamo per perdere la relatività della nostra posizione e per assumere una rigida esibizione dell’identità stessa come se fosse un’arma, e spesso effettivamente lo diventa, un’arma, contro l’altro che ci propone un’identità contraria alla nostra, da escludere o eliminare. I conflitti di individuazione sono i più difficili da elaborare per non scadere in antagonismi distruttivi, in quanto l’oggetto del conflitto è l’altro stesso e il suo modo di essere, di sentire e di esprimersi. 

Strettamente connesso e spesso confuso col primo è il conflitto di cultura e valori. Coinvolti nei nostri sistemi di credenze e portatori di una mente situata in una cultura, noi ci identifichiamo fino a neutralizzare ogni forma di distanza con una certa cosmologia e un certo sistema di valori. Mettere in discussione almeno in parte quelle convinzioni diventa difficile e in loro nome siamo persino disposti ad uccidere. Per prevenire l’antagonismo ci sarebbe il conflitto, il dialogo, il confronto, a patto che si acceda a una considerazione almeno in parte relativa delle proprie credenze e dei propri valori. Ciò vuol dire però aprire uno spazio in noi e quello spazio comporta sempre una più o meno grande ferita narcisistica. Comporta, inoltre, un passo indietro, per vedere le buone ragioni delle credenze e dei valori altrui o, almeno, i fattori comuni fra sistemi di credenze diverse. A rendere più impegnativa e difficile l’elaborazione non distruttiva di un conflitto di culture è la sua combinazione, a volte molto stretta, con un conflitto di interesse. In tutti i casi in cui si hanno posizioni differenti e attese non condivise sull’utilizzo di qualcosa o sul possesso di qualcos’altro, siamo di fronte a un conflitto di interesse.

L’oggetto del contendere diventa un attrattore decisivo delle aspettative e intorno ad esso si svolge un confronto che richiede una significativa capacità di non spostare l’attenzione dall’oggetto alla persona con cui stiamo confliggendo. Nel qual caso ci sarebbero importanti rischi di scadere in antagonismo. I conflitti di conoscenza riguardano tutte le situazioni in cui ci troviamo a confrontarci con l’esigenza di cambiare idea o di fare i conti con le difficoltà altrui a cambiare idea.

Tendiamo, come sappiamo anche per esperienza diretta, a mantenere le nostre convinzioni anche a dispetto di esiti indesiderabili per noi, nel farlo. Lo stesso accade quando abbiamo l’aspettativa che gli altri cambino idea e posizioni. Non riusciamo a comprendere come fa un altro a pensarla come la pensa. In ogni ambito conflittuale tra quelli considerati o in altri simili, i livelli in cui il conflitto si esprime sono almeno cinque. Siamo coinvolti nei conflitti con diversi gradi di intensità prevalente, a livello intrapsichico, di coppia, di gruppo, a livello istituzionale e collettivo. Nel conflitto la relazione è il luogo di tutti i problemi e di tutte le possibilità. Ogni conflitto ha implicazioni intrapsichiche riguardanti la relazione con se stessi. A volte quelle implicazioni sono più intense e mettono in discussione la stessa capacità individuale di affrontare il dilemma della libertà tra soggettivazione e autonomia da un lato e assoggettamento e dipendenza dall’altro. La proiezione del conflitto intrapsichico si manifesta in particolar modo nel conflitto di coppia. Laddove l’intersoggettività si concentra nel “due”, la densità della risonanza si fa pressante e la libertà individuale ne risulta particolarmente vincolata. Allo stesso tempo in quello spazio relazionale si può realizzare uno dei più elevati livelli di riconoscimento e condivisione. È l’ambiguità della coppia e il conflitto è uno dei suoi più elevati rischi ma anche una delle principali condizioni per la sua vitalità. 

Nelle coppie, ma anche nei gruppi e nella società, il conflitto incontra una delle sue più rilevanti manifestazioni  storiche e attuali: il conflitto tra maschile e femminile, che non si riduce al conflitto di genere, ma coinvolge il dialogo e il confronto tra codici affettivi materni e paterni. I codici affettivi, in quanto vie di accesso al mondo interno mediante la relazionalità umana, sono plurali e ogni essere umano, donna o uomo che sia, dispone sia dei codici affettivi materni e femminili, sia dei codici affettivi paterni e maschili. L’educazione al genere tende a specializzare e forcludere la pluralità, fino a rendere inaccessibile agli uni e agli altri i codici affettivi non corrispondenti culturalmente e socialmente alle convenzioni e alle immagini sociali accettate del sesso e del genere.

Dall’elaborazione efficace del conflitto di genere e di codice può derivare una meno iniqua e più giusta distribuzione del potere tra uomini e donne, che non sia quella dell’affermazione femminile a patto di adottare codici affettivi maschili. Solo una buona elaborazione del conflitto di codici affettivi può valorizzare caratteristiche come la vulnerabilità e la cura e favorirne la diffusione sociale. Capace di cura, infatti, è chi, in virtù della propria imperfezione e vulnerabilità, sa riconoscere in primo luogo se stesso come bisognoso di cura e che, a partire da questo riconoscimento, investe l’altro del proprio desiderio e lo chiama, a una risposta di attenzione, di appartenenza, di legame. Il bisogno della vulnerabilità – un valore che può essere performato e reso progettuale – se riconosciuto genererebbe un cambio di paradigma in grado di trascendere la dimensione privata per assurgere a sentire collettivo, in un sano conflitto col modello sociale ora dominante. Non solo, ma questa possibilità valorizzerebbe l’investimento libidico e la specificità del codice affettivo materno e femminile, senza sussumerlo in quello maschile, col vantaggio di tutti.

I conflitti nei gruppi e tra gruppi, così attuali oggi in particolare per la presenza tragica dei gruppi terroristici, sono tra i più impegnativi da elaborare. La tendenza propria di un gruppo a individuare e rinviare le ragioni dei problemi agli altri e a cause esterne ne fa una realtà poco propensa a deprimere le proprie certezze e la propria euforia. Ciò comporta una particolare tendenza all’antagonismo e una disposizione di peculiare utilità per le pratiche di aggressività distruttiva. I conflitti interni alle istituzioni e tra istituzioni possono essere allo stesso tempo fonte di crisi e di entropia o motivo di ricerca di prassi evolutive e innovative. Molto dipende dalla cultura del conflitto che un’istituzione riesce ad avere e a contemplare nelle proprie dinamiche interne ed esterne. Lo stesso, anche se in misura e intensità diverse, accade per i conflitti collettivi, in cui un ruolo di particolare rilevanza è svolto dalle culture e dalle ideologie. 

Se distinguiamo, come pare necessario fare sia sul piano analitico che nella prassi, tra conflitto e guerra, tra dialogo e antagonismo, possiamo scoprire che il conflitto è la via per non fare la guerra. Non solo: il conflitto è probabilmente l’unica via per cercare la pace. Se vuoi la pace impara a gestire bene il conflitto, era solito dire Luigi Pagliarani. Il principio del conflitto, come ha sostenuto di recente Massimo Cacciari, è padre poiché genera; da esso sorgono e divengono tutti gli esseri nel loro differire; dalla sua unità discendono i molti nel loro opporsi. Noi siamo e ci poniamo come differenze concrete, determinate, animate che significano interessi, personalità, lingue, persone mai in quiete: il conflitto, come incontro tra differenze, per certi aspetti può essere inteso come il contrario dell’indifferenza. 

Alla base della reimmaginazione necessaria delle condizioni delle nostre vite, vi è il conflitto come possibilità. Si pensi solo al rapporto tra conflitto e confini. Se vogliamo uscire dalle strettoie dei confini come gabbie, quei confini li dobbiamo reimmaginare. In questo compito storico le società locali hanno e possono avere una funzione decisiva. Quelle autonome e di frontiera, poi, potrebbero essere laboratorio di soluzioni originali. Non si può, naturalmente, fare nulla di tutto questo oggi, senza connettere il tema dei confini con quello delle migrazioni e della crisi degli Stati-Nazione. Come si intuisce, la questione è tale da indicare ai sistemi sociali e alle comunità un autentico salto di qualità nel modo di pensare e di pensarsi. Il confine è diventato un paesaggio aperto, non solo per il superamento normativo delle barriere, ma soprattutto per le rappresentazioni e controrappresentazioni dei confini stessi. Le frontiere si dislocano oggi e diventano mobili sulla base della mobilità culturale, conoscitiva, informativa e fisica di noi esseri umani. A disegnare e a ridisegnare i confini non sono solo le istituzioni ma sono le persone concrete che con i loro comportamenti, che a volte forzano anche le regole, fanno dei confini e delle frontiere luoghi di relazioni. Quello che scegliamo non è che i confini siano luoghi di relazioni, bensì di che tipo di relazioni siano fatti. I confini oggi sono porosi, sono necessariamente luoghi di incontro. E purtroppo spesso diventano luoghi di scontro. Allora diventa decisivo rendersi conto che le frontiere e i confini sono oggi dei processi. Processi culturali e politici. D’altra parte uno sguardo alla storia rende decisamente più facile fare un salto di qualità. 

Il punto da cui partire é considerare la frontiera e il confine come risorse. Mentre per alcuni le frontiere e i confini sono marche di appartenenza, per altri sono luoghi generativi di nuove rappresentazioni dello spazio e della società. Comprendere la vitalità di ognuna delle rappresentazioni, sia quelle più orientate a valorizzare le appartenenze, sia quelle orientate all’apertura verso l’ibridazione delle culture, significa tenere insieme le prospettive che possono produrre nuova vitalità nelle terre di incontro, come andrebbero considerate, più che continuare a ritenerle “terre di confine”. Se ce ne rendiamo conto, oggi noi siamo presi da una visione egemonica della territorialità e dell’appartenenza. Allo stesso tempo emergono vissuti ampi, portatori di visioni che propongono forti prospettive alternative. Queste ultime non vengono solo dai migranti ma anche dalle più importanti componenti innovative delle nostre stesse società locali, come possono essere le componenti giovanili con elevata formazione e con mentalità più evolute. È proprio dalla combinazione di queste componenti che può nascere un nuovo dialogo capace di produrre forme evolute di cultura e convivenze basate su una buona gestione del conflitto. Ogni terra è patria alla donna e all’uomo. O forse dovremmo dire “matria”. Anche se troppo spesso diventa matrigna. Ora, una patria, come una madre, accoglie e nutre. Come tale dovrebbe agire, e allo stesso modo dovrebbe essere amata. Non amiamo la terra in cui nasciamo, se non a parole, visto come, almeno finora, l’abbiamo utilizzata e spesso distrutta. Allo stesso tempo ce ne sentiamo gli esclusivi padroni, fino a murarla e recingerla; fino ad escludere chi riteniamo non ne sia figlio. Mentre si costruiscono muri, non tutti gli occhi sono indifferenti. 

Mentre la maggioranza tace o se la cava con un’alzata di spalle perché la festa continui, c’è chi ci aiuta a riflettere, se ci disponiamo ad ascoltare. L’opera di un artista come Stefano Cagol ci porta, forse, tra altri percorsi possibili, al centro del problema. Noi facciamo fatica a creare collegamenti, nel tempo della comunicazione smart e della carenza di riflessione. Se ci chiediamo che rapporto c’è fra l’ecologia, l’energia, gli spostamenti di popolazione e le guerre, non sempre sappiamo rispondere. Eppure ci sono poche questioni più interconnesse di queste. Partendo dalle guerre cosiddette locali, che oggi configurano una nuova guerra mondiale sotto inedita forma, e da quelli che in certi casi sono autentici stermini, esse sono alla base degli esodi migratori. Non solo, quelle guerre sono strettamente connesse all’appropriazione diseguale di fonti energetiche. Queste ultime sono, a loro volta, il fondamento del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento di persone e risorse, incondizionato e senza limiti, dominante oggi. Ebbene Cagol riesce a cogliere con i suoi lavori esteticamente essenziali e formalmente impeccabili, con leggerezza a volte tagliente, queste interconnessioni. Abbiamo bisogno di pensare e ripensarci, mai come in questo tempo. L’arte ci può aiutare; la letteratura ci può aiutare, il cinema ci può aiutare: una buona gestione del conflitto della conoscenza ci può far accedere a territori sconosciuti.

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