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Per un mito mite: paesaggio, lingua madre

L’infinitamente piccolo delle nostre connessioni sinaptiche che ci permettono di immaginare e vivere il paesaggio e la musica dell’infinito che ci giunge dal cosmo, sono il paesaggio della nostra vita. Uscito dalle turbolenze dell’eliosfera e incontrando i primi raggi cosmici intergalattici, Voyager non ci parlerà più con i suoi segnali che impiegano 15 ore a raggiungerci. Varcando i confini dell’ignoto, non ci invierà più i "suoni del silenzio" provenienti dallo spazio e mai ascoltati prima d’ora. Andrà verso l’infinito portando con sé i segni di noi umani, dal teorema di Pitagora inciso su una lastra di rame placcata in oro, alla musica di Mozart. Avrà però esteso il nostro paesaggio, il paesaggio della nostra vita.

Noi piccoli esseri nell’universo infinito possiamo ricavarne un’etica della finitudine e curare il mondo come la nostra casa, il nostro giardino, o smarrirci nella ferita narcisistica che ci fa vivere la finitudine come una perdita di onnipotenza. Ma era ed è l’onnipotenza di Prometeo la finzione, con le sue conseguenze tragiche e distruttive. Un peccato di onnipotenza, forse il più grave dei peccati, ci ha portato e ancora ci porta, a trasgredire un principio etico su cui potremmo essere tutti d’accordo: smettere di distruggere il nostro luogo di nascita, l’unica nostra dimora presente e futura.

La mente cosciente di noi esseri umani non può funzionare senza storie e senza dare significato a quelle storie. Avremmo bisogno di una sacralità, di una religio, capace di narrare storie che risarciscano il dualismo e la separazione che abbiamo operato tra noi e la natura, ritenendoci sopra le parti, e misconoscendo il semplice fatto che siamo parte del tutto. Narrino allora i poeti la nostra appartenente finitudine!

Cantino alfine, ora che sappiamo di sapere che siamo parte del tutto, la bellezza di essere natura, di essere gli alberi con cui respiriamo, di essere acqua di cui siamo fatti, di essere aria, di essere terra, di essere animali tra gli animali, di essere una bella differenza tra le differenze. Ci aiuti la letteratura, ci aiuti la poesia a generare una mitopoiesi del limite. Del resto era stato Roland Barthes, nella lezione inaugurale al Collège de France del 7 gennaio 1977, a sostenere: "La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci interessa". Antonio Tabucchi, nel libro postumo appena pubblicato, Di tutto resta un poco, scrive: "La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia".

Scrive Daniele Del Giudice nel suo ultimo libro, In questa luce: "Ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio". (…) "E’ comunque il paesaggio che ci è dato, una compresenza grottesca di naturale e artificiale, un fondale della quantità e dei suoi resti; difficilmente tale paesaggio potrebbe consentire quella triangolazione tra Natura, Io osservante e consapevolezza di una Divinità diffusa che garantiva la pacificazione dell’animo romantico. Tuttavia sono i luoghi dove viviamo i nostri rapporti con gli altri, e dove, pur con ogni altrove nella fantasia o nella nostalgia, ambientiamo i nostri sentimenti".

Da sola quella triangolazione non emerge. Eppure noi ci possiamo provare: siamo mitopoietici. Creiamo miti come vie per conoscere e vivere il mondo.

La buona novella è che esiste la mitopoiesi: i miti si creano. La mitopoiesi può essere l’utero, la genesi di un mito mite. "Il mito è una parola", ha scritto sempre Roland Barthes. Il mito da generare risponde alla parola limite.

Si toccano due volte le labbra quando si dice mamma. Si toccano una volta quando si dice mite. La parola limite contiene la parola mite. Allora, sù, dal momento che ascoltando Samuel Beckett, a noi esseri umani non è dato che tentare, proviamoci! Creiamolo un mito mite!

Diventiamo finalmente attenti! Dell’attenzione a vivere nel limite, l’unica che ci può aiutare ad accorgerci del mondo e di noi nel mondo; l’attenzione, madre della considerazione. Parola magica, la parola considerazione: da cum-sidera (intorno alle stelle), indica bene la nostra capacità di autoelevazione semantica. Per vedere il limite e viverlo ci vuole l’altezza della nostra attenzione considerante. L’attenzione considerante è, del resto, la madre della poiesis, del "fare poetico". E, come sempre, nessuno lo dice meglio dei poeti che, secondo Luigi Pagliarani, vivono al di sopra delle proprie possibilità. Ascoltiamo insieme, la lezione di attenzione di Wislawa Szymborska:

Disattenzione (Wislawa Szymborska)

Ieri mi sono comportata
male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande, senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione,
espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a
casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun
come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in
movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro

oppure
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di
Pascal
e una partecipazione stupita a questo
gioco
con regole ignote.

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