Non essere complici
10 Febbraio 2022Il Donbass, tolto il velo dell’ipocrisia
27 Febbraio 2022Iperboli giornalistiche a parte, la scoperta di SARS-CoV-2 in Italia allude, si può ragionevolmente dire, a una insostenibile forma di nemesi medica, tanto per ricorrere al saldo bagaglio analitico di Ivan Illich. Rimanda cioè a un’evidente disfunzione della scienza e del sistema sanitario, che mentre crea incessantemente nuovi bisogni terapeutici, non riesce più a rispondere – se non per eccezione, appunto – ai bisogni reali che sollecitano a riappropriarsi della salute. Il fatto che, come sostiene Illich, il cosiddetto progresso della medicina sia una variabile dipendente di trasformazioni che si riflettono in ciò che i medici fanno/non fanno e dicono/non dicono propone una chiave di lettura, ancora prima del tampone di Codogno, sulla storia di mancata sorveglianza relativa alle due morti di novembre 2019 a Milano, tra cui un bambino di 4 anni cui era stato sommariamente diagnosticato il morbillo.
Oggi noi sappiamo che il virus era già presente ben prima del 21 febbraio in Lombardia. Uno studio pubblicato lo scorso dicembre su Epidemics-The Journal of Infectious Disease Dynamics registra 527 casi di persone con sintomi di Covid-19 in età tra i 75 e i 78 anni in Lombardia, di cui 38 sanitari, prima della identificazione del focolaio di Codogno. Già nel 2019 il Covid-19 circolava silente e non intercettato in almeno 222 dei 1506 Comuni lombardi, dice lo studio coordinato da Danilo Cereda1: una notizia che non risulta particolarmente rassicurante, e che forse sta all’origine della catastrofe che il patogeno invisibile e sconosciuto ha inferto poi a tutto il sistema sanitario italiano. Uno tsunami che seminò il panico nel mondo, due anni fa. Se soccombeva l’Italia, un paese dotato di uno dei sistemi sanitari pubblici tra i migliori al mondo secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che cosa sarebbe accaduto altrove? Che cosa avrebbe scatenato il nuovo coronavirus nei paesi del sud globale, sguarniti di sistemi sanitari degni di questo nome, o con sistemi ancora molto precari in risorse finanziarie ed umane malgrado le vagonate di miliardi di dollari investiti in salute globale negli ultimi venti anni?
Il sociologo e filosofo francese Bruno Latour ha scritto che la pandemia ha assunto in questi anni il ruolo di Socrate, il quale effettivamente si paragonava a un tafano quando, mischiandosi alla gente nelle piazze di Atene, punzecchiava i suoi concittadini per svegliarli, persuaderli, rimproverarli. Il virus, con la cinetica delle sue varianti, è un avvertimento feroce ma inconfutabile che arriva dalla natura, il cui contrattacco continua a imporre un profondo ripensamento, anzi un cambio di civiltà.
Dopo due anni, è arrivata l’ora di accorgersene. La posta in palio non riguarda solo il superamento della visione antropocentrica del rapporto fra esseri umani e natura – non sarà più abitabile il pianeta alle stesse condizioni di vita che abbiamo conosciuto nel mondo occidentale – ma anche la necessità di ripartire da una visione di diritto alla salute come pilastro per la costruzione della società e la definizione di politiche che mettano al centro la dignità della persona e la cura degli ecosistemi. Condividiamo lo stesso destino come esseri viventi, pandemia e crisi climatica sono oggi le matrici di un’unica pedagogia.
Era stata la grande intuizione del dopoguerra, al momento della costituzione delle Nazioni Unite, la assoluta centralità della salute. E non a caso: l’Europa era un ospedale da campo. Il diritto alla salute, quindi, nacque formalmente diversi mesi prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: il 7 aprile 1948, con l’entrata in vigore dell’Oms. La comunità internazionale aveva ben chiara un’idea di futuro: per ricostruire vita sulle macerie ancora fumanti di due guerre mondiali era necessario cominciare dal diritto primigenio, quello in cui tutti si riconoscono a prescindere dalle appartenenze e ideologie, il diritto che in un certo senso prepara le condizioni di accesso e fruizione di tutti gli altri diritti. Il diritto alla salute poteva a ragione denotarsi come spazio privilegiato di sperimentazione per un’agenda dei diritti tout court, a partire dal quale le nazioni sopravvissute alla devastazioni di due conflitti sarebbero state in grado di rimettere insieme i frantumi delle rispettive società. La rigenerazione, allora, ebbe molto a che fare con visioni forti, e con il loro presidio.
Nel 2022, dopo quattro decenni di una globalizzazione sfrenata – anch’essa, in fondo, una guerra – i due sconvolgenti anni di Covid-19 che ci lasciamo alle spalle portano alla luce i limiti della bufera che chiamiamo progresso, per dirla con Walter Benjamin, con tendenze di stratificazioni delle disuguaglianze destinate a incidere, anche geneticamente, nelle future generazioni2.
Allo stesso tempo, invocano la necessità di una nuova alleanza terapeutica, una nuova strategia della cura. Davanti a una malattia che continua a colpire l’intimità dei corpi, in modalità impreviste ancora da valutare appieno nelle diverse fasce della popolazione, noi non possiamo reagire limitandoci a consumare e produrre merci. Dobbiamo invece, come prescrive Franco Arminio, “trovare il modo di tener vivo l’amore”. Ma cosa sta succedendo, invece? Il modello privatistico della salute in Lombardia, che in nome dell’efficienza non ha solo pervicacemente smantellato dagli anni ’90 in poi la sanità pubblica sul territorio, ma ha anche depotenziato il sistema pubblico di laboratori di sorveglianza – nel 2021 si dava in Lombardia un solo laboratorio ogni 1,2 milioni di abitanti, contro un laboratorio ogni 500.000 abitanti in Veneto, secondo un rapporto internazionale3 – prosegue senza soluzione di continuità nello spirito e nella lettera della riforma Moratti, nuovo terreno di aspro confronto. Nella nuova legge sulla sanità della giunta regionale lombarda sono nuovamente assenti la centralità della prevenzione, la programmazione socio-sanitaria territoriale, la tutela dell’ambiente, mentre si insiste sulla sanità privata, lasciata in piena libertà d’azione; ad essa viene attribuita la possibilità di “concorrere alla istituzione delle Case e Ospedali di Comunità” previste e finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
La stessa cosa avviene a livello nazionale: mentre si registra un grande attivismo per assicurare ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei del PNRR, malgrado il generale consenso politico generato da Covid-19 di rafforzare il servizio sanitario pubblico e universalista, nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del servizio sanitario nazionale (SSN), che nell’ultimo decennio ha subito un drastico ridimensionamento. Non si intravede alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente che Covid non è riuscito a soppiantare e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza ancora in questa fase, sono tutte a tempo determinato e spesso con contratti a cottimo, precarizzanti. Le università, dal canto loro, non hanno ancora adeguato l’offerta formativa alle esigenze socio-sanitarie della popolazione, con una visione integrale della salute che comprenda l’ambiente e tutti i suoi determinanti, ma sono rimaste appiattite a una estrema medicalizzazione, a una visione specialistica e biomedica che scientemente elude i fondamentali approcci di promozione della salute, ben oltre le prestazioni.
Ha ragione David Quammen quando scrive che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. E pare proprio che non siamo guariti. Neppure se rivolgiamo lo sguardo al piano internazionale riusciamo a intravedere un ravvedimento. In una congiuntura di bassissima marea dell’azione multilaterale, l’Oms si appresta a negoziare da marzo un nuovo strumento vincolante per adeguare la governance globale della salute alla preparazione e risposta alle prossime pandemie, come se queste fossero ormai un destino. L’idea scaturisce dalla fantasia del presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel, il quale ha lavorato sodo nel 2021 per incardinare la proposta a Ginevra e per conseguire in poche battute il sostegno incondizionato del direttore generale dell’Oms e l’adesione globale – in parte forzata – a questa iniziativa europea.
Sotto l’impalcatura retorica del consenso diplomatico si ravvisano tuttavia crepe di realismo non trascurabili. Alcuni governi del sud globale denunciano le sfide irrisolte nella loro gestione di COVID-19, difficoltà che rimandano all’annosa questione della loro impossibilità di finanziamento dei sistemi sanitari pubblici – il solo realistico baluardo contro il contagio. In Nigeria, ad esempio, la spesa sanitaria pro-capite è aumentata da meno di un dollaro a 7 dollari nel 2021, ma le condizionalità dei prestiti della Banca Mondiale impediscono al governo nigeriano di programmare un rilancio dell’ancora fragile servizio pubblico. La lotta al virus deve invece passare per la ricetta che la comunità internazionale dello sviluppo si ostina a somministrare, il private sector leveraging, cioè la facilitazione agli attori della sanità privata, sulle spalle dell’accresciuto debito pubblico.
L’evidenza empirica lo dimostra senza equivoci: i sistemi sanitari più deboli sono nei paesi costretti a pagare il servizio del debito ai paesi ricchi. Nel 2019 si contavano 64 governi ingabbiati nella morsa debitoria e vincolati a spendere più in servizio del debito che per investimenti in salute pubblica. Il debito è il loro virus incurabile. Più pagano, più il debito incalza: un peso cresciuto dal 35% al 65% nell’ultimo decennio, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI, 2019). La cancellazione del debito sarebbe il loro vero vaccino. Se si estinguessero i pagamenti di 76 paesi a basso reddito dovuti nel solo 2020 – primo anno pandemico – si libererebbero 40 miliardi di dollari, 300 miliardi se si contasse anche il 2021. E invece che succede? Succede che il FMI ha previsto, in un rapporto dei primi mesi 2021, l’introduzione di misure di austerity in 159 paesi entro la fine del 2022: l’equivalente di una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, ovvero l’85% della popolazione mondiale. Un’iterazione che lascia senza respiro, destinata com’è a stratificare vecchie e nuove disuguaglianze.
E poi c’è la questione del mancato accesso ai vaccini e il persistere dell’apartheid sanitario, una ferita profonda di questo tempo, nonché l’espressione più abrasiva dell’assenza di reale cooperazione internazionale tra gli Stati. La caparbia resistenza di un manipolo di paesi – Unione Europea, Svizzera, USA e Gran Bretagna – contro la moratoria dei diritti di proprietà intellettuale (non solo brevetti, ma anche know-how, dati clinici e segreti industriali) per ampliare l’accesso alla conoscenza scientifica e permettere la decentralizzazione della produzione dei rimedi contro Covid, non solo i vaccini, paralizza da un anno e mezzo ogni negoziato all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). La possibilità di sospendere i monopoli della conoscenza è prevista dallo stesso trattato fondativo dell’Omc, ma risulta impossibile utilizzare questo dispositivo del diritto internazionale nel contesto pandemico perché secondo l’Occidente l’oligopolio farmaceutico non può essere messo in discussione, anche se – stando ai rapporti più accreditati4 – il pubblico finanzia la ricerca in campo farmaceutico in larghissima misura, anche prima di SARS-CoV-2, non solo direttamente ma tramite agevolazioni fiscali ed incentivi di varia natura. Non è quindi un azzardo intellettuale parlare di appropriazione privata della ricerca pubblica5favorita dai governi che invece dovrebbero difendere in ogni modo la salute delle loro società.
Ne sono evidenza plastica, diremmo, due notizie di questi giorni. La prima, l’indagine a Bruxelles sull’eccessiva familiarità di scambi social della Presidente della Commissione con il CEO della Pfizer Albert Bourla, a fronte della persistente opacità sulle clausole contrattuali che l’Europa ha stipulato con le aziende farmaceutiche per l’acquisto dei vaccini – solo l’Italia ha speso 24 miliardi di dollari! La seconda notizia riguarda l’azienda Afrigen Biologics abd Vaccines in Sudafrica, che con il supporto della Oms è riuscita, per un processo di ingegneria inversa, a replicare il vaccino mRNA di Moderna – adesso vedremo se Moderna avrà la faccia tosta di sfidare il paese africano per rivendicare diritti esclusivi su un vaccino totalmente finanziato dall’operazione Warp Speed dall’amministrazione Trump (anche se omette di esplicitarlo nelle documentazioni brevettuali ufficiali in USA).
Su questo crinale della geopolitica si combatte con multiformi vicende una guerra strutturale sulla conoscenza nel mondo che da decenni semina morti e destini sanitari, una patologia dalla quale neppure Covid-19 è riuscito a immunizzare il mondo. Si tratta di una guerra speculare alla tradizionale violenza delle armi, che torna a infuriare e uccidere in Ucraina, a poche ore dall’invasione russa. Nel terzo anno della pandemia, nello scomposto agitarsi della comunità internazionale, ci mancava solo il ruggito della guerra per uccidere ogni speranza di uscirne migliori.
* Giornalista e scrittrice, è esperta di salute globale. Ha coordinato la Campagna per la Messa al Bando delle Mine in Italia e poi diretto Medici Senza Frontiere (MSF), promuovendo la mobilitazione sull’accesso ai farmaci essenziali e avviando i progetti di MSF sui migranti nel sud Italia.
1 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1755436521000724
2 https://www.sciencedaily.com/releases/2019/04/190404135433.htm
3 https://www.researchgate.net/publication/353659197_Italy’s_experience_during_COVID-19_the_limits_of_privatisation_in_healthcare_-_Policy_Brief_by_The_Global_Initiative_for_Economic_Social_and_Cultural_Rights_GI-ESCR
4 file:///Users/nicoletta/Downloads/drugs_research__public_funding_private_profits.pdf
1 Comment
Grazie per questo intervento chiaro e completo che condivido completamente