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“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (52)

di Michele Nardelli

La storia moderna di questo paese è accompagnata da eventi sismici, come se la natura ci mandasse di tanto in tanto dei segnali per ricordarci che, malgrado il mito prometeico abbia portato l’umanità ad essere nella condizione di distruggere il proprio universo, la forza è ancora nelle sue mani.

Una forza che forse abbiamo imparato a descrivere sul piano scientifico, ma verso la quale ci scopriamo incapaci di contenerne le manifestazioni più disastrose.

Un positivo rapporto con la natura richiederebbe infatti di far nostra la cultura del limite, mettendoci nelle condizioni se non di evitare almeno di ridurne gli effetti, ma ciò non avviene, né sul piano della prevenzione (pensiamo ai cambiamenti climatici dovuti in primo luogo all’emissione di gas), né su quello della riduzione del danno (la scelta dei luoghi degli insediamenti urbani come le modalità di costruzione).

Se la prevenzione chiama in causa i nostri modelli di vita che ci ostiniamo a non cambiare nonostante l’ormai evidente insostenibilità1, la riduzione del danno ha invece a che fare con le scelte politiche di gestione del territorio.

Siamo bravi, certo, a mobilitarci nell’emergenza verso le popolazioni colpite da eventi tragici, e qui la retorica si spreca fin quasi a banalizzare l’impegno gratuito di tante persone. Ma se si tratta di andare alla radice, che poi a guardar bene è la bramosia di profitto e di potere, allora la nostra capacità di mobilitazione si scontra con l’ipocrisia, talvolta con la complicità.

Ci piace l’emergenza, ci carica di adrenalina e ci salva la coscienza. Per tutto il resto preferiamo non vedere e non sapere.

In realtà vediamo e sappiamo. Sappiamo che l’aumento di alcuni gradi della temperatura terrestre sta avendo ed avrà effetti disastrosi sulla vita di milioni di persone. Sappiamo che costruire agglomerati urbani in prossimità di placche in movimento senza che neppure siano attivate tipologie costruttive antisismiche è da irresponsabili. O forse non sappiamo che si sono costruite aree metropolitane a ridosso di vulcani in attività come il Vesuvio? O che la cementificazione del territorio provoca conseguenze disastrose sul deflusso delle acque, in particolare quando eventi meteorologici sempre più intensi diventano la normalità?

Lo stesso atteggiamento lo abbiamo nei confronti della guerra. Papa Francesco parla di una terza guerra mondiale a pezzetti, quella che si combatte nelle tante guerre regionali in corso e quella che abbiamo dichiarato quando rivendichiamo di avere più diritti di altri, ma questo non sembra indurre ad un ripensamento generale.

Ci commuoviamo di fronte all’immagine del bambino estratto dalle macerie di Aleppo (l’insediamento urbano più antico del mondo) ma quando la primavera di Damasco portava in piazza in forma nonviolenta milioni di persone l’abbiamo lasciata sola, come se gli interessi commerciali fossero più importanti dei processi di cambiamento.

Noi ci accontentiamo di cambiare canale. Non fateci pensare e non pestateci i piedi. Allora il problema siamo noi, la nostra ipocrisia, la nostra complicità, la nostra falsa coscienza. Nel suo rincorrere gli umori anche la politica ha smarrito il suo stesso significato. Non parlo solo dei partiti, ma di un sentire diffuso che attraversa i corpi intermedi, le istituzioni, la società civile, specchio di una società dove le persone sono sempre più sole e impaurite di fronte a trasformazioni che invece richiederebbero elaborazione collettiva e visione di futuro.

Non tutto è così. Il lavoro dei corpi e dei volontari che mettono in gioco la loro stessa vita per salvare quella degli altri è una grande manifestazione di generosità e di responsabilità. Vorrei che la stessa determinazione venisse usata nell’andare oltre l’emergenza, nel mettere in sicurezza le tante aree a rischio dei nostri ecosistemi come nell’andare alla radice delle grandi crisi che attraversano il pianeta. Queste richiedono un cambiamento profondo, nel pensiero, nell’agire politico, nei comportamenti personali.

Invece, finita l’emergenza tutto rientrerà nella normalità, continueremo a guardare distrattamente un mondo alla deriva, a blindare le nostre case costruite di sabbia, a scandalizzarci per il telefonino nella mani di un disperato o a commuoverci di fronte al bambino con la pancia gonfia e pieno di mosche esibito dall’industria dell’umanitario. In fondo essere angelo costa solo otto euro al mese2.

1“Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente “artificiale“, tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto quel che è loro misteriosamente dato‘ scrive Hannah Arendt nel suo “Le origini del totalitarismo“ (Edizioni di comunità, 1967)

2“Schermo nero, una scritta: “Entro un’ora“. La voce dice: “Entro un’ora entreranno nella tua casa e sarai costretto ad andartene“. Lo schermo si accende su una scena violenta: miliziani armati scacciano una famiglia africana da un tugurio, ci sono bambini molto piccoli che piangono. Delia vorrebbe cambiare canale, Andrian la ferma: “Aspetta“. Ancora schermo nero, una scritta: “Entro due ore“. Voce: “Entro due ore avrai perso tuo figlio in mezzo a una folla terrorizzata, non lo vedrai mai più“. Immagini di bambini disperati, lacrime, un uomo porta in braccio un piccolo cadavere straziato da armi da fuoco. Schermo nero, una scritta: “Entro tre ore“. Voce: “Entro tre ore avrai perso tutto“. Ora i bambini sono ripresi mentre muiono di fame, i ventri gonfi, indifferenti alle mosche che li divorano, lacrime immobili negli occhi. Schermo nero, scritta: “In un minuto“. Voce: “In un minuto puoi diventare un angelo dei rifugiati: dona otto euro al mese all’Alto commissariato delle Nazioni Unite“. Funzionari in camicia blu ed elmetto che salvano bambini. “Essere angelo costa otto euro al mese“‘. Luca Rastello, I buoni. Chiarelettere, 2014

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