Todo cambia.
26 Ottobre 2020Vorrei prolungare la sua vicinanza
2 Novembre 2020Il Covid19 ha funzionato da evidenziatore delle criticità esistenti. Ha mostrato i limiti dell’architettura politico-amministrativa fin qui utilizzata (dalle istituzioni del diritto internazionale, passando per l’Europa e gli Stati nazionali fin giù alle Regioni e ai Comuni), ha messo a nudo la loro difficoltà di lavorare in modo sinergico e ha testimoniato la generale inadeguatezza di una classe dirigente ancorata ai paradigmi del passato diventati inservibili.
Fin qui il lato più generale del discorso, che pure si lega a doppio filo con le sorti del Trentino e della sua Autonomia.
Prendo lo spunto dalla riflessione proposta qualche giorno fa da Daniele Gubert, laddove l’attenzione è stata posta soprattutto su tre questioni: il fallimento dell’esperienza delle Comunità di Valle, gli effetti negativi della riforma in chiave maggioritaria per l’elezione dei Sindaci dei piccoli Comuni, l’involuzione dei processi democratici nei contesti municipali. Per tentare di capire come siamo arrivati a questo punto serve fare qualche passo indietro.
Nell’ultimo scorcio della sua esperienza da Presidente della Provincia Autonoma di Trento Lorenzo Dellai – insieme soprattutto all’Assessore Mauro Gilmozzi – ripeteva spesso che dopo la fase espansiva (economica e organizzativa) della macchina provinciale serviva aprire una nuova fase che riequilibrasse il rapporto tra centro e periferie, che ridistribuisse competenze e responsabilità, che mettesse in condivisione visioni e operatività, che riportasse la politica nella sua dimensione più nobile in ogni ambito di un territorio vasto e diversificato.
Era l’intuizione che prendeva il nome di “Comunità autonoma del Trentino”. Una riforma organica della Provincia in ottica di un maggiore e più efficace spostamento di funzioni verso il territorio che aveva nell’istituzione delle Comunità di Valle la propria declinazione istituzionale. E nel Terzo Statuto (l’autonomia al tempo dell’Europa politica) il proprio orizzonte.
A distanza di anni possiamo dire che quella sfida cruciale si è persa.
Personalmente fisso nel referendum abrogativo del 29 aprile 2012, promosso dalla Lega Nord, il momento decisivo per l’apertura della fase di crisi che stiamo ancora vivendo. Alle urne si recò poco più del 27% degli elettori. Il 93% votò perché le Comunità venissero immediatamente smantellate. Io fui tra i pochi che votò convintamente per il No. La maggioranza politica del tempo disertò le urne, preferendo far fallire la consultazione per non raggiungimento del quorum invece che difendere l’idea di governo del territorio rappresentato dai “parlamenti di valle” che aveva istituito.
Ma quella idea di legittimare sul piano politico le assemblee territoriali – che nelle intenzioni avrebbe portato con sé il prendere corpo di una classe dirigente diffusa – era invisa tanto all’apparato provinciale quanto ai Comuni, che ne vedevano una sottrazione di potere. Nonché a buona parte del sistema politico, anche dentro la stessa maggioranza che l’aveva votata, partiti sempre più liquidi e in sofferenza sul piano del radicamento sociale e dell’autonomia di pensiero.
Con il referendum si esauriva quell’esperienza e si incrinava l’idea di “anomalia” che il Trentino aveva tentato – non senza errori – di praticare. Terminava non per il voto compatto del popolo ma per la difficolta degli attori politici del tempo (molti dei quali ancora oggi in campo) di capire che in quel frangente allo stesso tempo si manuteneva l’esistente e si cominciava a progettare il futuro.
Di lì a poco l’onda di antipolitica si sarebbe abbattuta su tutto e tutti, teorizzando tra l’altro l’inutilità dei corpi intermedi. A questa crescente crisi politico-istituzionale corrispondeva infatti un progressivo venire meno – valoriale e connettivo – del tessuto sociale (dalle forme mutualistiche e cooperative a quelle associative) che dell’ “anomalia” erano state il retroterra, evidenziando lo sfarinamento della coesione sociale che negli anni successivi si sarebbe manifestata in forma acuta (Federazione, Casse Rurali, Itas…).
Ne seguì una controriforma che delegittimò le Comunità, preferendo la via – tutta ragionieristica – della fusione tra Comuni. Con le Comunità commissariate e svuotate di senso.
La vitalità politica dell’Autonomia trentina appare oggi ridotta ai minimi termini, proprio nel momento in cui – dentro un possibile punto di svolta della storia – servirebbero coraggio e generosità, visione e competenze.
In un frangente dove la liquidità della società non può essere una giustificazione per la propria inconsistenza ma lo stimolo decisivo per riattivare fantasia e immaginazione, relazioni e collaborazione.
Non esistono scorciatoie di fronte alla gravità di questa situazione. Temo non basterà la riforma di tipo proporzionale nell’elezione dei Sindaci se precondizione a essa non sarà una rigenerazione del tessuto culturale e partecipativo dentro le comunità.
Sarà un lavoro lungo e costante quello che dovrà abilitarle (insieme a una nuova e migliore classe dirigente) a saper ragionare allo stesso tempo della sistemazione dei marciapiedi del proprio comune e della necessaria transizione ecologica a livello globale, di un nuovo approccio all’agricoltura e di possibili evoluzioni del rapporto con università e centri di ricerca, di risposta puntuale nell’emergenza a fenomeni pandemici e innovative forme di welfare di prossimità, di modelli partecipativi e nuova fraternità planetaria.
Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini nel loro ultimo libro dal titolo “Quel mondo diverso. Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare” – edito da Laterza – ragionano a lungo di questi argomenti: “I politici dovrebbero tornare a mettersi a repentaglio, discutendo le proprie idee nelle assemblee, nelle piazze, negli incontri veri con le persone.” Suggeriscono di dare forma ad alleanze (non bastano le coalizioni elettorali, neppure se allargate alla categoria tutt’altro che risolutiva del civismo) e di impegnarsi per costruire luoghi accoglienti per il coinvolgimento – e non solo l’ascolto – di cittadini e cittadine.
Dovrebbero essere quelli i luoghi dove essere in grado di fare quello che più serve in questo momento.
Prendersi cura – agendo per la coesione e la giustizia sociale – da un lato e predisporsi a “immaginare l’inimmaginabile”, anticipando e non subendo le grandi trasformazione in atto (ecologica, demografica e tecnologica per citarne tre) dall’altro.
In una risposta alla lettera di un lettore il direttore Paolo Mantovan diceva che questo non risulta essere “una figata di tema”. Ha ragione se ci fermiamo alla superficialità della comunicazione politica, obbligata nell’immediatezza di un tweet. Eppure ci stiamo interrogando sulla tenuta e sul possibile miglior funzionamento della convivenza democratica.
Il mio vuole essere un piccolo appello a sindaci e sindache appena eletti, assessori e assessore che stanno impostando il loro lavoro, consiglieri e consigliere che hanno iniziato a frequentare le assemblee elettive appena costituite.
Compito vostro e nostro – io sarò per cinque anni consigliere circoscrizionale a Trento – non è solo quello di essere amministratori attenti ma politici curiosi e ambiziosi, pronti a ridare energia a quella “Comunità autonoma del Trentino” oggi in così grande difficoltà.
* Intervento pubblicato oggi 30 ottobre 2020 dal quotidiano “Trentino”