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Natale in tempo di guerra: la lezione del passato

Al castello di Ossana in Val di Sole un plastico presenta un episodio verificatosi su quei monti giusto cento anni fa. Alcuni soldati italiani crearono col fango un pupazzo, lo misero in una cassetta con della paglia all’interno di una grotta e inscenarono una piccola liturgia natalizia, al canto di «Adeste fideles». Poco dopo altre voci con accento diverso, con la «erre» marcata, si aggiunsero al canto. L’imbarazzo era evidente, trattandosi di «nemici» austriaci. Eppure tutti compresero la sacralità del momento: quando il soldato italiano propose il bimbo di terra al bacio dei presenti, tutti aderirono a tale offerta. Poi si separarono con mesta speranza, augurandosi a vicenda «Buon Natale», «Frohe Weihnachten».

Pure i Natali della Seconda guerra mondiale non furono più facili. Anna Frank, la giovane ragazza ebrea reclusa da un anno e mezzo nella soffitta di Amsterdam, scriveva a Kitty, il suo diario e confidente, che non ce la faceva più a restare privata di aria aperta, della libertà di correre e andare in bicicletta. E segnava anche la sua gioia quando al Natale del 1943 le regalarono alcune piccole cose, come biscotti «di qualità prebellica», segno dell’affetto che le veniva mostrato. Non avrebbe più vissuto il Natale del 1944, dato che in quell’anno sarebbe stata vittima di una retata dei nazisti. Solo da poche settimane si è saputo che non si è trattato di una delazione, ma di un usuale controllo per reprimere il mercato nero.

Un prete, rimasto anonimo, scriveva in una lettera del 1943 redatta durante la sacca di Stalingrado, quanta commozione e al tempo stesso quanta speranza avesse alimentato celebrando la santa notte con undici commilitoni, ricorrendo per la messa a un po’ di pane nero, ma dovendo rinunciare al vino.

Kurt Reuber, soldato della Wehrmacht, inviò sempre dalla Russia e nel medesimo anno una stupenda lettera alla moglie, in cui si chiedeva quale senso avesse auspicare per l’anno nuovo la pace e la fine della guerra, se poi tutti avrebbero continuato a vivere in modo tale da preparare il conflitto successivo. Penso sia una riflessione da fare nostra.

Cosa porta alle guerre? Non certo lo stress, come spiegavano anni fa i seguaci della meditazione trascendentale. I fattori principali sono due: l’avidità insaziabile degli uni e l’ignoranza degli altri. I grandi poteri sanno come crescere a dismisura e perseguono tale fine con ogni mezzo, lecito o illecito che sia. Per i magnati dell’economia, per le grandi multinazionali, la fame di risorse si sazia a spese dei consumatori, che vengono a loro volta addestrati a un’avidità (alias consumismo) con cui vengono giustificate le politiche dei produttori: «C’è domanda, dobbiamo fornire un’offerta adeguata».

L’ignoranza è quella di noi cittadini, che se divenissimo consapevoli di quello che possono causare le nostre parole e i nostri gesti più semplici — come già l’acquisto di certe cose piuttosto che di altre, tramite certi canali piuttosto che altri — toglieremmo pretesti ai poteri forti che opprimono l’uomo. Gesù nasce tra i semplici ma non sopporta gli stupidi e gli indifferenti. Le guerre, ci ha insegnato, nascono dall’interno del cuore dell’uomo: è lì che dobbiamo far entrare la sua luce di umanesimo e di solidarietà. Solo così, cambiando da dentro, potremo portare lo spirito del Natale vero nel nostro mondo afflitto da paure e ombre antiche, che possiamo però scacciare con un lavoro fatto di intelligenza e di buona volontà.

* Corriere del Trentino, 24 dicembre 2016

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