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L’improbabile di fronte a noi

Una prospettiva europea e mediterranea

Abita qui infatti il primo nodo cruciale. Se davvero prendiamo sul serio il messaggio che ci invia la natura sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo neoliberista (nelle sue differenti versioni), non possiamo pensare di farcela da soli. Voglio dire che la realtà ci proietta già oltre l’orizzonte statuale che ha caratterizzato la politica dei moderni, nel senso che ciascuna delle questioni che investono la possibilità di delineare il futuro si gioca su un piano sovranazionale.

L’Europa non è dunque un punto fra i molti, oltre tutto ridotto alla rinegoziazione dei margini di flessibilità per le economie nazionali (come scritto nel programma di Conte), ma l’approccio di fondo attraverso il quale parlare di ambiente, energia, infrastrutture, lavoro, relazioni internazionali, sicurezza e così via. Lo stesso dovremmo immaginare per le politiche mediterranee, rilanciando l’intuizione del protocollo di Barcellona, valorizzando le particolarità culturali e produttive di ognuna delle sponde che fanno del Mediterraneo una regione sopra le nazioni e gli stati, affrontando in questo modo le cause che sono all’origine di fratture culturali, guerre e flussi migratori.

L’Europa è lo spazio politico sovranazionale attraverso il quale relazionarsi con i flussi della globalizzazione che la dimensione nazionale non è più in grado di reggere, troppo piccola per far fronte alle tigri globali, troppo grande per valorizzare il genius territoriale che ne rappresenta la principale prerogativa. Immaginando una sempre maggiore devoluzione di poteri verso l’Europa e, al tempo stesso, verso le istanze di autogoverno, a partire dal prendere corpo di realtà macro-regionali ridando vigore alle sperimentazioni alpine, danubiane, adriatico-ioniche, baltiche, mediterranee … in un quadro a geografia variabile eppure unitaria. Una risposta intelligente tanto ai sovranismi locali e nazionali, quanto all’idea di un’Unione Europea come luogo di contrattazione permanente sulla base dei reciproci rapporti di forza. Non c’è da battere i pugni, c’è da comprendere che nell’interdipendenza da soli non si va da nessuna parte.

La cultura del limite

Analogamente, è dal ripensamento di fondo sulla nostra impronta ecologica (se il pianeta consuma annualmente 1,7 volte quanto il proprio ecosistema riesce a produrre, l’Italia consuma 3,4 volte le sue capacità) che dovremmo immaginare una svolta programmatica che affronti l’odierna insostenibilità. La natura ci manda ogni giorno messaggi chiari, dai cambiamenti climatici alla perdita delle biodiversità. La tempesta Vaia, che in poche ore ha cambiato il volto del paesaggio dolomitico, ci dice che così non si può continuare e che è urgente invertire la rotta. Per farlo non servono aggiustamenti, occorre cambiare radicalmente il nostro modello di sviluppo ed insieme i nostri stili di vita.

La svolta programmatica si chiama cultura del limite. La sobrietà non è un concetto nuovo, le nostre comunità e le nostre famiglie semmai l’hanno smarrito rispetto ad un tempo in cui il fare meglio con meno ci portava a dare un senso più profondo al valore delle cose.

Riconsiderare il valore delle cose è un passaggio cruciale. All’ossessione della crescita e del rilancio dei consumi, totalmente imprigionata nel paradigma dello sviluppo illimitato che ha segnato il pensiero positivista, è necessario un nuovo e più disteso rapporto con il tempo, con lo spazio, con il lavoro, con la comunità di cui siamo parte che investe necessariamente il senso delle nostre esistenze.

Partiamo da una semplice considerazione: la rivoluzione tecnologica e digitale ha già modificato il nostro modo di vivere. Il problema è che l’ha condizionato senza che fosse la qualità del vivere la barra di riferimento e dunque della possibilità di beneficiare delle opportunità che tale rivoluzione avrebbe potuto aprire. Il tempo e la qualità del lavoro non sono cambiati se non in peggio, la precarietà è diventata normalità, gli incidenti e la mortalità nei luoghi di lavoro parlano chiaro. Malgrado le opportunità delle comunicazioni e del telelavoro, le città continuano a crescere a dismisura, così come l’abbandono delle aree interne, dei borghi rurali e della montagna.

Le implicazioni di questo scenario sono molteplici. Dovremmo considerare che il lavoro, almeno come lo si è concepito nel passaggio precedente, è destinato a diminuire drasticamente e sarà quindi decisivo redistribuirlo oltre ad immaginare nuove attività necessarie a farci rientrare nella sostenibilità. Questo significa che potremmo avere meno denaro a disposizione ma più tempo.

E qui si apre un ventaglio di ambiti e di possibilità che investono a 360 gradi il nostro modo di vivere, di consumare e di relazionarci con il prossimo. Significa, ad esempio, sottrarre alla logica mercantile una serie di funzioni che oggi invece ne sono assoggettate, penso al lavoro di relazione e di cura. Oppure all’auto-produzione di beni per il consumo alimentare, alle forme di mutuo acquisto, alle forme di scambio e di baratto.

Significa invertire la rotta rispetto alla tendenza all’ingigantirsi delle città, ovvero al ritorno alla terra e alla montagna. Abitare la montagna significa salvaguardia e cura del territorio, dei boschi, dei pascoli, dell’acqua… ma anche minor consumo di prodotti industriali, di plastica e di idrocarburi. Un diverso rapporto con il territorio e la montagna comporta anche una rinnovata consapevolezza verso i beni comuni e le proprietà collettive. E’ necessario riconoscere come spesso sia proprio questo tessuto a tenere in piedi l’economia delle aree interne e delle terre alte, senza dimenticare gli effetti sul piano della coesione sociale ed istituzionale. Così come quello cooperativo, laddove mutualità e responsabilità devono tornare a fare la differenza in un rapporto virtuoso con la proprietà privata.

Sicurezza, o del prendersi cura

Altro nodo cruciale di visione e di traduzione programmatica è quello che va sotto il nome di sicurezza. Come abbiamo ampiamente argomentato nel libro scritto a quattro mani con Mauro Cereghini2, il carattere polisemico di questa parola apre un vasto capitolo che investe molti aspetti della nostra vita quotidiana, l’inquietudine verso un futuro sempre più immaginato in sottrazione (prima noi) nel nome di un diritto di natura che premia il più forte, il rinchiudersi in scenari urbani nei quali la logica securitaria paralizza la gioia di vivere, l’incapacità di far tesoro di un passato e di un presente che non sappiamo elaborare così da poter immaginare identità sempre uguali e per questo destinate a morire.

Al groviglio della paura, è necessario contrapporre una diversa declinazione della parola sicurezza, ovvero il prendersi cura. Con particolare attenzione verso le situazioni di marginalità sociale che – in assenza di educazione e mediazione – generano conflitti, paure e ostilità verso le tante facce della diversità. Vorrei leggere in un programma la cancellazione del reato di clandestinità, la necessità di legiferare sul diritto d’asilo e che in uno stato di diritto non possono esserci discriminazioni in base alla famiglia in cui si è venuti al mondo (jus soli).

Terreno questo che richiede uno sguardo lungo sui nodi cruciali del nostro tempo, per evitare di affrontare come emergenze fenomeni che, a ben guardare, hanno invece carattere strutturale e culturale. Che quindi vanno affrontati attraverso scelte di fondo, non come risposte al manifestarsi spesso tragico dell’ultimo segmento del problema. Perché nessuna delle cosiddette emergenze è tale, se affrontata per tempo. E qui misuriamo tanto la capacità della politica, quanto la sua improvvida propensione a cavalcare le emergenze come facile terreno di consenso.

Scelte di fondo che vanno accompagnate da politiche sociali improntate all’inclusione e al superamento delle diseguaglianze, potenziando le forme di welfare comunitario. E, contestualmente, attraverso azioni semplici come il riappropriarsi degli spazi urbani svuotati dalla paura.

Costruire relazioni

Si delinea così un altro capitolo cruciale, il valore delle relazioni. Perché sono le relazioni la via maestra per abitare l’interdipendenza. Le relazioni hanno a che fare con la prossimità, quella con cui interagiamo nel luogo in cui viviamo, come quella che il villaggio globale ha reso tanto vicina da entrare in tempo reale nella nostra quotidianità. Tanto che nell’interdipendenza dovremmo riconsiderare gli stessi concetti di politica estera e di politica interna.

Le analisi del Censis degli ultimi anni ci parlano di una società italiana sempre più atomizzata ed incattivita. Il clima di incertezza e di paura ha fatto sì che gli individui si rifugiassero nel si salvi chi può piuttosto che cercare di perseguire dinamiche capaci di ascoltare e di farsi carico collettivamente. Investire sulle relazioni diviene un tratto essenziale su cui distinguere un governo di svolta, azioni che non si possono certo esaurire nelle politiche sulla famiglia. Nei ventinove punti del programma si trascura il valore della coesione sociale, quasi che l’azione di governo dovesse essere indirizzata a tanti segmenti sociali piuttosto che ad una visione d’insieme che sappia interagire con comunità in rapido cambiamento. Conoscenza e apprendimento permanente sono una risposta possibile per abbattere gli steccati del prima noi.

La costruzione di relazioni è altresì il criterio guida di nuove politiche interregionali nelle quali i territori competono, nel significato etimologico di questo termine, ovvero “andare insieme, convergere a un medesimo punto”, l’opposto del significato corrente di competitività con il quale oggi si declina il concetto di internazionalizzazione. Serve piuttosto una nuova cooperazione internazionale capace di costruire relazioni permanenti, consapevole che non esistono paesi poveri (semmai impoveriti) e che ciascun territorio è ricco di suo. Dove il tema non è l’aiuto, bensì la relazione che cambia e arricchisce; non il trasferimento di risorse o lo sfruttamento di condizioni più favorevoli dovute molto spesso alla deregolazione ma la formazione delle classi dirigenti (misuriamo anche su questo il significato di reciprocità). Che cosa sono l’Europa o il Mediterraneo se non una straordinaria opportunità di relazioni?

Autonomia come responsabilità

Un cambio di sguardo, quello proposto, che richiede più partecipazione consapevole, il rafforzamento degli istituti di democrazia rappresentativa ma anche nuove forme di democrazia deliberativa, maggiore assunzione di responsabilità ad ogni livello (federalismo). In una parola, maggiore orizzontalità e minore verticalità.

In questa cornice mi chiedo quanto la riduzione del numero dei parlamentari (e la conseguente riforma dei collegi elettorali) possano aiutarci o non essere un elemento di indebolimento della rappresentanza, a tutto vantaggio del potere esecutivo e del ruolo centralistico dei partiti nazionali. So bene quanto questo terreno sia scivoloso e quanta distanza vi sia fra il sentire comune e la politica nelle sue forme organizzate. Ma so anche quanto male ha prodotto in questi anni la cultura plebiscitaria, la personalizzazione della politica e l’idea dell’uomo solo al comando, la cultura maggioritaria. E quanto i contrappesi istituzionali siano fondamentali per lo stato di diritto. Personalmente ritengo che la direzione cui volgersi dovrebbe essere diversa, culturalmente diversa.

Al contrario, ritengo che la sfida dell’autonomia differenziata possa aiutarci a riaprire il confronto sull’autogoverno regionale. Pur nella contraddittorietà delle istanze proposte da Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, così come nella diversità del quadro di competenze delle Regioni a statuto speciale, penso sia ora e tempo di ridare vigore alla riforma federalista dello Stato proseguendo il disegno che l’articolo 118 della Costituzione aveva introdotto, ovvero la pari dignità fra le articolazioni della Repubblica italiana, Stato compreso. La strada che le province Autonome di Trento e di Bolzano avevano intrapreso nel percorso che avrebbe dovuto portare al “Terzo Statuto” – autonomia integrale come maggiore assunzione di responsabilità – dovrebbe essere quella maestra. Ma, come avremmo dovuto comprendere, ha come presupposto ineludibile quello della partecipazione consapevole: l’autogoverno non è una condizione di privilegio, bensì una maggiore assunzione di responsabilità, in primis di capacità di una classe dirigente. Devo dire che le quattro righe del programma dedicate all’autonomia differenziata non significano niente.

Un pensiero conclusivo

L’esercizio potrebbe proseguire, ma mi fermo qui. Quel che mi preme è indicare il significato di quel cambio di sguardo cui mi riferivo parlando di tentare l’improbabile.

Ottenuta la fiducia da parte del Parlamento italiano, l’improbabile è qui, di fronte a noi. Ingessato certamente nelle visioni e nelle pratiche precedenti, ma forse per la prima volta c’è la consapevolezza che quel che avviene intorno a noi richiede risposte inedite. Il suo esito dipenderà essenzialmente dall’esercizio che sapremo fare nel cercare soluzioni nuove, dalle risposte che sapremo dare, dalla sperimentazione politica (a geografia variabile, dal locale al sovranazionale) che sapremo mettere in campo.

Occorre un movimento di comunità generativo, come lo definisce Federico Zappini nella sua riflessione3, tanto nelle idee come nelle forme, trasversale a ciò che rimane dei corpi intermedi, ma sopratutto un laboratorio coraggioso nel prendere in mano i tanti dossier lasciati a brandelli per ricucire un nuovo racconto.

2Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Sicurezza. Edizioni Messaggero Padova, 2018

 

1 Comment

  1. rosso antico ha detto:

    Uffa che palle … sta diventando stucchevole, ogni volta che ti leggo, dico …ecco quel che pensavo e non riuscivo ad esprimere con proprietà e precisione …
    E’ certamente il mio limite, a conferma che almeno quello
    personale (di limite) lo sto già praticando.
    Comunque il ritorno alla montagna sta lentamente ma inesorabilmente riprendendo, con mio sommo gaudio,
    un abbraccio, rino