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10 Maggio 2011E’ ora di ritornare a pensare
15 Maggio 2011Il fallimento dei primi interventi Onu
I somali usano la parola burbur ("catastrofe") per indicare il biennio 199192, quando, caduto Siad Barre, il paese fu travolto dagli scontri clanici, con la distruzione e il saccheggio di beni pubblici e privati, l’esproprio delle proprietà, vere e proprie forme di pulizia etnica. Nel gennaio del 1992 il Consiglio di Sicurezza Onu approvò la Risoluzione 733, imponendo l’embargo delle armi e, successivamente, l’invio di 50 peackeepers.
L’Unosom (United Nations Operation in Somalia) doveva mantenere il cessate il fuoco, provvedendo all’aiuto umanitario di emergenza. In agosto venne inclusa la protezione dei convogli e dei centri di distribuzione, irrobustendo il contingente. L’inizio non fu dei più felici, tanto che il Rappresentante speciale, Mohamed Sahanoun, venne licenziato per aver denunciato (con preveggenza) lentezza e burocrazia.
Nel dicembre 1992 G.W. Bush, alla fine del suo mandato, decise di sperimentare un nuovo tipo d’intervento militare, giustificato con l’interferenza "umanitaria", per rilanciare un’immagine appannata dalla guerra in Iraq per il Kuwait. Venne così autorizzata una forza multinazionale (Unified Task Force – Unifid) con ingente dispiego di mezzi e leadership statunitense. L’operazione, Restore Hope, sembrò inizialmente migliorare le condizioni di sicurezza. La Risoluzione (814) autorizzò il dispiegamento di circa 30.000 peacekeepers (Unisom II), con il mandato di ristabilire la sicurezza e favorire la ricostituzione di un governo nazionale.
L’ambizione del mandato contrastò con la scarsa comprensione della società somala. Onu e Usa finirono intrappolati nelle dinamiche claniche, suscitando sospetti di parzialità, come nel caso del generale Aidid, oggetto prima di riguardo, poi di aperta caccia all’uomo e poi di nuovo riabilitato. La conclusione della vicenda è nota ma vanno sottolineate le conseguenze drammatiche e durevoli di quel fallimento.
I risultati positivi ottenuti sul terreno della distribuzione di cibo vennero infatti compromessi e rimase solo l’accusa di aver alimentato, di fatto, il frazionismo somalo, l’economia di guerra e il sistema di potere dei warlords. Il nuovo presidente Clinton decise di non coinvolgere più gli Stati Uniti nei drammi africani, portando al disimpegno nella tragedia ruandese e alla scomparsa della Somalia dall’attenzione internazionale.
Il ruolo dei soggetti regionali
Le Nazioni Unite si limitarono così a tenere in vita l’embargo sulle armi (mai rispettato) e a decidere l’istituzione a Nairobi dell’United Nations Political Office for Somalia (Unpos), con lo scopo di monitorare la situazione da Nairobi, predisporre rapporti per il segretario generale, incoraggiare la riconciliazione con i leader somali e le organizzazioni della società civile. Di fatto, l’Unpos si è limitato ad assistere, passivamente, agli avvenimenti degli anni successivi.
Parallelamente alla scomparsa dell’Onu è cresciuta l’immagine della Somalia come esempio classico di "stato fallito". In realtà, la Somalia rappresenta un’eccezione anche in questo campo, per la prolungata e totale assenza di un qualsiasi potere centrale. Ciononostante, nel corso di questi anni, processi locali hanno prodotto un’articolazione del potere sul territorio, con diversi livelli di sofisticazione. Dai casi più evoluti, Somaliland e Puntland, ad altri più instabili e circoscritti.
La situazione più difficile è stata quella di Mogadiscio, per la competizione più violenta, per la dimensione degli interessi e per la convinzione, ampiamente diffusa, che controllando la capitale si domina il paese. Inoltre, hanno pesato le vicende interne al clan Hawyie la cui frammentazione, iniziata con lo scontro fra Ali Mahdi (Hawiye Abgal) e Aidid (Hawiye HabrGedir), è poi proseguita in maniera esponenziale.
Su queste dinamiche locali hanno influito gli attori regionali. Le prime Conferenze di riconciliazione si sono svolte per iniziativa di questo o quel paese, in supporto alla fazione somala di riferimento e allo scopo di perseguire i propri interessi. Dopo la fine della guerra fredda la Somalia era diventata marginale e l’interesse internazionale era focalizzato sul Sudan, teatro di massicce violazioni dei diritti umani (in particolare nel Sud) e sostenitore di vari gruppi radicali. Si verificò, allora, un sostanziale allineamento dei paesi della regione in chiave antisudanese: l’Egitto reagì al fallito attentato contro il presidente Mubarak ad Addis Abeba, l’Eritrea aprì campi di addestramento per la guerriglia sudista, l’Uganda fornì supporto logistico a John Garang.
In questo contesto, l’Etiopia fu l’unica potenza regionale a mantenere un interesse primario e costante nelle vicende somale, con l’obiettivo d’impedire la rinascita di un governo centrale solido, incoraggiando soluzioni di tipo federale. La diplomazia araba, sia pure in maniera frammentaria e poco coerente, perseguì invece la rinascita di una Somalia centralizzata, con l’Egitto portatore di un interesse specifico antietiopico, connesso all’utilizzo delle acque del Nilo.
Il contrasto fra questi due approcci, presenti anche nella dialettica somala in relazione al sogno nazionalista e alla percezione dei rischi o vantaggi nella difesa degli interessi clanici (basti pensare ai Migiurtini, ai Rahanweyn o agli Hawiye di Mogadiscio), non ha impedito la nascita del Somaliland e del Puntland (anche in virtù della maggiore omogeneità clanica), mentre ha bloccato ogni sviluppo positivo nel centrosud.
Alla fine degli anni ’90, avvenimenti importanti modificarono la situazione regionale: l’ingresso del Sudan nel club dei paesi produttori di petrolio (e il ruolo della Cina in questo ambito), la guerra di frontiera fra Etiopia ed Eritrea, gli attentati di al aeda a Nairobi e Dar es Salam. Nel nuovo contesto si produssero numerosi riallineamenti. Il Sudan modificò la propria posizione in ambito locale (scelta pro-etiopica nella guerra) e internazionale (collaborazione con l’intelligence americana e disponibilità al negoziato con il Sud), l’Eritrea rafforzò il ruolo regionale anti-etiopico, Gibuti ospitò una base militare americana (in aggiunta alla tradizionale presenza francese), Uganda e Kenya rafforzarono i legami con i paesi occidentali e, in particolare, con gli Stati Uniti.
Il nuovo scenario regionale cominciò a essere pesantemente condizionato dalla lotta al terrorismo internazionale.
I nuovi fallimenti Onu
La Conferenza di Riconciliazione di Nairobi organizzata dall’Igad (con il supporto Ipf – Igad Partner Forum, copresieduto dall’Italia e del quale l’Unpos costituiva solo una delle componenti) fu, sostanzialmente, una seconda fase della precedente Conferenza di Arta che, sotto l’impulso del presidente gibutino Omar Guelleh, si era conclusa nell’agosto del 2000 con la creazione di un parlamento e un governo nazionale (Transitional National Government Tng).
Da quel processo erano stati esclusi i capi delle fazioni armate, tra cui Abdullahi Yussuf, presidente del Puntland e grande alleato dell’Etiopia. La composizione prevalentemente Hawyie del governo e la contiguità di molti suoi esponenti con le Corti islamiche (che proprio allora cominciavano a irrobustirsi a Mogadiscio) suscitarono l’aperta ostilità etiopica e la promozione di un’alleanza alternativa (Somali Reconciliation and Restoration Council Srrc). Così, fu necessario convocare la Conferenza di Nairobi che, a sua volta, produsse nuove istituzioni transitorie (Transitional Federal Institutions – Tfi) e un nuovo governo (Transitional Federal Government Tfg), presieduto proprio da Abdullahi Yussuf.
La Conferenza si era svolta fuori dal paese, con forte influenza etiopica e discutibile rappresentatività dei delegati. Tuttavia, l’ampio sostegno internazionale, il compromesso raggiunto fra i paesi Igad, il carattere transitorio delle istituzioni sembrarono consentire qualche speranza. Su proposta italiana, per accompagnare la transizione, la comunità internazionale, riunita a Stoccolma il 24 ottobre del 2004, decise di istituire un organismo internazionale, con la presenza del governo somalo.
L’idea era semplice: il Tfg doveva rispettare alcuni principi di politica interna e internazionale e la comunità dei donatori, in cambio, s’impegnava a fornire un aiuto finanziario continuo, consistente e coordinato. Si trattava di sfruttare il nuovo quadro istituzionale (che, per quanto carente, forniva dopo anni una cornice di stabilità) per favorire, con un sostegno mirato, il progressivo emergere di quelle componenti sociali che durante la Conferenza non avevano avuto ruolo. Secondo il parere di alcuni (fra cui chi scrive) quest’organismo avrebbe dovuto essere snello, efficiente e presieduto, per la parte internazionale, da una troika composta da Igad, Ipf e Onu. Venne approvata, invece, una struttura pletorica e la Troika (che aveva negoziato il documento) venne emarginata in favore dell’Onu.
Il risultato non è stato certo dei migliori. Il primo Rappresentante speciale, François Fall, di fronte alle divisioni insorte nelle istituzioni somale (per la richiesta di un contingente africano e il trasferimento provvisorio del governo a Jowhar), rinunciò a convocare l’organismo come strumento per comporre i contrasti, avallando la tesi che metteva sullo stesso piano le due parti ("Jowhar based wing" e "Mogadiscio based wing"). In questo modo, si rafforzarono le precondizioni poste dai warlords, che, strumentalizzando le preoccupazioni degli Hawyie di Mogadiscio, chiedevano una nuova Conferenza internazionale per mediare fra i due schieramenti.
Questa posizione (caldeggiata da paesi che successivamente non ebbero dubbi a sostenere incondizionatamente il Tfg in funzione antiislamica) ritardò per mesi il compromesso che, finalmente, portò alla convocazione del parlamento unito, a Baidoa, nel febbraio 2006. Nel frattempo, però, la situazione era cambiata a Mogadiscio, e proprio le Corti islamiche si erano avvantaggiate di quel ritardo. L’influenza del movimento islamico, infatti, era cresciuta costantemente dopo il 2000, grazie al ruolo svolto dalle numerose charities che, nella totale assenza di strutture pubbliche, avevano amministrato la giustizia e fornito servizi nella sanità e nell’educazione, grazie all’appoggio finanziario del settore privato.
Va tenuto presente che un crescente numero di businessmen aveva progressivamente abbandonato l’economia di guerra, spostando l’attenzione sui servizi (finanza, trasporti, informazione, telecomunicazioni), sulle costruzioni e sul commercio (sia interno che regionale). A questo fine, fermi restando i vantaggi di un’"economia senza stato" (i dati della Banca mondiale sono indicativi) era cresciuta l’esigenza di ordine e sicurezza e, quindi, la convergenza di interessi con le 11 Corti islamiche, istituite nel frattempo in aree circoscritte e su base subclanica. Si era creata così una dinamica complessa fra warlords, Corti e organizzazioni della società civile, nella quale gli aspetti clanici si intrecciavano con quelli religiosi.
La vittoria delle Corti e l’intervento etiopico
Questa miscela divenne esplosiva nei primi mesi del 2006, quando lo scontro armato fra le Corti e la coalizione "antiterrorista" sostenuta dagli Stati Uniti portò, inaspettatamente, alla vittoria degli islamici. Sfruttando la leadership militare e il sostegno popolare contro i warlords, le Corti unificarono di fatto il clan Hawiye, creando così, per la prima volta, le condizioni per il controllo dell’intera capitale allargandolo, poi, ad ampie zone del centrosud. Chi si è recato a Mogadiscio in quel periodo sa che si trattava di uno schieramento eterogeneo, con componenti religiose e secolari (compreso il movimento delle donne) attraversate da tendenze diversificate.
Il gruppo più integralista, all’epoca sicuramente minoritario, sfruttando le debolezze e le ambiguità degli altri, perseguì efficacemente l’opera di radicalizzazione, con la presa violenta di Khismaayo, gli assassini politici, il ricorso costante alla retorica jihadista. Di nuovo, attori regionali influirono negativamente (l’azione eritrea in favore degli integralisti, la convinzione del Tfg che, grazie al supporto etiopico, ogni compromesso era superfluo) e, di nuovo, le Nazioni Unite rimasero passive, incapaci perfino d’influire sulla debole e inefficiente mediazione della Lega araba. Così i negoziati di Khartoum si impantanarono e, con il prevalere di opposti estremismi, si crearono le condizioni per l’intervento armato etiopico.
In quel momento, alcuni esponenti occidentali parlarono sconsideratamente di una "finestra di opportunità". A cinque anni di distanza, esistono pochi dubbi sugli effetti disastrosi di quell’intervento. A differenza del periodo 19952004, quando i conflitti erano intermittenti e circoscritti, al centrosud si è creato uno stato di guerra permanente, si è prodotta una vera catastrofe umanitaria e l’islamismo integralista si è rafforzato in quantità (i circa 300 Shabaab sono diventati qualche migliaio) e radicalismo (gli attentati suicidi erano precedentemente sconosciuti).
Una diversa interlocuzione della comunità internazionale, unita e ben focalizzata, avrebbe potuto influenzare l’evoluzione interna di un movimento così composito. Superficialità nell’analisi e lentezza burocratica hanno invece caratterizzato costantemente l’azione internazionale e, segnatamente, quella dell’Onu che, dopo l’istituzione dell’International Contact Group, ha riassunto la leadership formale. Così, anche le azioni giuste sono state condotte con colpevole ritardo, minandone all’origine le possibilità di successo.
Questo è anche il caso dell’accordo di Gibuti, raggiunto nel giugno 2008, in una situazione già deteriorata, con gli Shabaab (che non avevano accettato di far parte dell’Ars, l’opposizione stabilitasi ad Asmara) diventati il gruppo di guerriglia più influente sul territorio. Inoltre, i contraenti di Gibuti erano già indeboliti dalle divisioni interne, sorte proprio in relazione al negoziato. Si sarebbe quindi dovuto rapidamente dare esecuzione all’accordo sul terreno (in particolare l’istituzione dei due comitati congiunti) e continuare lo sforzo, sopratutto della comunità internazionale, per coinvolgere altri interlocutori.
Invece, con responsabilità diretta del nuovo rappresentante speciale Ould Abdallah, si sono sprecati mesi con seminari costosi quanto inconcludenti, mentre in Somalia gli estremisti intensificavano gli sforzi per bloccare il tentativo all’origine. Così, le nuove istituzioni furono formate solo all’inizio del 2009, dopo il raddoppio del numero dei parlamentari, avallato allegramente dall’Onu.
Da quel momento, si è privilegiata nuovamente l’opzione militare, nell’illusione che la presenza al vertice di un gruppetto di esponenti delle vecchie Corti islamiche potesse, da sola, rendere più credibile ed efficace l’azione del governo.
Una transizione infinita?
In agosto scadrà l’ulteriore transizione stabilita nell’accordo di Gibuti, senza che siano stati raggiunti gli obiettivi previsti. Nuove divisioni sono sorte all’interno delle istituzioni (sulla possibile elezione di un ennesimo presidente) che hanno comunque deciso di prorogarsi per tre anni, nonostante il parere contrario del terzo (e, per ora, ultimo) rappresentante Onu. Inoltre, l’Assistant Secretary of State, Johnnie Carson, ha criticato l’incapacità a capitalizzare politicamente i progressi fatti dall’Amisom, l’African Union Mission in Somalia, varata dall’Unione africana, cui l’Onu ha totalmente delegato il compito di garantire la sopravvivenza del governo.
L’Amisom, con una forza di quasi 12.000 unità (per lo più ugandesi e burundesi), ha conquistato numerose roccaforti degli insorti, organizzando per la prima volta, insieme agli etiopici e alle milizie islamiche antisalafite di Ahlu Sunna Wal Jama, un’offensiva coordinata in diverse aree del paese (Mogadiscio, Galadud, Gedo e Beletuen). Come sempre, però, una vera svolta potrà prodursi solo se l’azione politica tradurrà questi vantaggi tattici in processi di cambiamento nella società. E questo dovrebbe accadere con una nuova strategia, il cosiddetto "dual track", i cui elementi (definiti in un documento congiunto AmisomIgad-Unpos) riflettono il cambiamento intervenuto nella posizione dei maggiori protagonisti.
La modifica dell’atteggiamento americano costituisce, infatti, la premessa di questo nuovo approccio. D’altra parte l’Onu, in Somalia più che altrove, ha sempre costituito lo schermo per la politica dei paesi dominanti, in particolare Usa ed Etiopia. Gli Stati Uniti, come detto, si erano disinteressati per anni del problema somalo, tornato in agenda solo dopo gli attentati alle ambasciate africane e la tragedia dell’11 settembre. L’ottica, però, è sempre stata quella dell’intelligence con, per di più, una discutibile lettura del contesto somalo.
Le caratteristiche della Somalia, prima dell’invasione etiopica, erano infatti adatte più al movimento di uomini, mezzi e denaro, attraverso le frontiere, che allo stabilimento di una base permanente di al Qaeda. Fino al luglio del 2006, del resto, l’attività antiterroristica si era limitata alla caccia di alcuni individui collegati agli attentati di Nairobi e Dar es Salaam. Solo dopo la vittoria delle Corti islamiche il problema ha assunto una diversa dimensione.
In ciò è stata decisiva l’influenza dell’Etiopia, che non è stata certo un soggetto passivo della strategia americana ma che, anzi, ha saputo sfruttare bene l’ipersensibilità degli Usa sul tema del terrorismo. Questo pone un problema centrale per le strategie nel Corno d’Africa. Nessuna soluzione per la Somalia sarà, infatti, mai possibile senza il coinvolgimento dell’Etiopia e senza una risposta alle sue fondate e indiscutibili ragioni di sicurezza. Uno "stato fallito" come la Somalia, infatti, rappresenta una fonte di problemi per tutti i suoi vicini, ma anche una Somalia unita, forte e islamica può preoccupare l’Etiopia (con quasi metà della popolazione musulmana e il problema Ogaden ancora aperto).
Bisogna però essere consapevoli che l’Etiopia spesso difende i propri interessi usando metodi che non sempre coincidono con l’interesse generale. La scorciatoia degli interventi militari e di una sorta di "destabilizzazione controllata" può forse servire a breve ma, tralasciando i costi umani, non garantisce soluzioni vere e durature.
Le condizioni per una svolta
L’amministrazione americana sembra aver capito che la politica seguita fino a oggi non ha conseguito gli obiettivi ma, anzi, ha contribuito a radicalizzare un islam che, in Somalia, era tradizionalmente e prevalentemente non integralista. Da qui, la decisione di cambiare strategia, aprendo una fase di consultazione che vada oltre il governo transitorio, coinvolgendo anche Somaliland, Puntland e gruppi islamici "moderati" sul territorio, con la scelta di sostenere la nascita o il rafforzamento delle istituzioni locali. Si tratta di una svolta positiva che, per essere efficace, necessita di alcuni ulteriori passi non ancora acquisiti:
• l’apertura al "territorio" non deve essere condizionata dalla presenza del governo centrale, e non si dovrebbe sprecare tempo e risorse nel micromanagement delle vicende interne alle istituzioni "transitorie".
• Il sostegno alle istituzioni locali, ai diversi livelli, non deve quindi essere concesso solo a chi è considerato "amico" ma, in forma incrementale, a chiunque rispetti certi standard, a partire da un accesso non condizionato per le organizzazioni umanitarie.
• La discriminazione non deve essere fra islamici "radicali" e "moderati", ma fra chi ha un’agenda somala e chi persegue, invece, una destabilizzazione regionale.
• I somali devono tornare a essere i protagonisti della loro riconciliazione. Il rafforzamento e/o evoluzione dei poteri locali è un passaggio cruciale in questa direzione.
• Questo processo deve essere aperto a tutti i somali che "attraverso" il dialogo (e non preventivamente) rinunceranno alla violenza. Solo in questo modo si potranno sfruttare positivamente la natura composita e le contraddizioni sempre più profonde esistenti negli Shabaab
• È cruciale il ruolo delle dinamiche economiche sia all’interno della Somalia che nella regione. A questo scopo andrebbero sostenuti progetti sia interni che d’interesse transfrontaliero con potenziale impatto positivo sulla stabilità.
• Particolare attenzione va data ad altri importanti aspetti regionali, come le perduranti tensioni etiopicoeritree e il nuovo protagonismo militare dell’Uganda.
Se il disastro somalo conoscerà, finalmente, un’inversione di tendenza questo influirà positivamente su tutto il quadro regionale, pesantemente condizionato da tanti problemi e incertezze, cui si aggiungerà l’effetto imprevedibile degli avvenimenti che stanno sconvolgendo i paesi del Maghreb e quelli posti sull’altro lato del Mar Rosso. Il dossier somalo è destinato a diventare, quindi, ancora più importante. Sarebbe bene che l’Italia e l’Europa agissero di conseguenza.