Le ragioni della crisi della coalizione trentina
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Alla fine un accordo per impedire l’uscita della Grecia dalla zona euro è stato siglato. Non si conoscono ancora i dettagli ma è abbastanza chiaro che si tratta di una serie di condizioni e di una road map molto dure per la Grecia, solo in parte mitigate nel serrato confronto notturno fra chi voleva umiliare Tsipras e chi invece si è battuto contro la grexit. Ora la partita non è affatto conclusa perché l’accordo dovrà essere ratificato dai parlamenti nazionali e da quello greco in primis. Il che non è affatto scontato, per l’aprirsi dentro Syriza di un confronto tutt’altro che scontato visto che l’accordo raggiunto sembra essere più oneroso di quello respinto con il referendum dalla maggioranza dei greci (e che una parte del partito ha definito “umiliante“). Che, prevedibilmente, avrà ripercussioni nel Parlamento di Atene, tanto che si ipotizza una nuova maggioranza e nuove elezioni.
Ma oltre l’immediato e il compromesso che spero aiuti la Grecia ad uscire dal pantano in cui è finita, questa vicenda – nel suo rappresentare lo specchio dello stato dell’Unione – impone una serie di considerazioni.
La prima riguarda proprio la scelta di ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali. Che cosa accadrebbe se il Parlamento tedesco o quello finlandese (solo per indicare due dei paesi più intransigenti) si esprimesse contro l’intesa raggiunta? Misuriamo qui la fragilità di un’Europa verso la quale è mancata la necessaria cessione di sovranità da parte degli stati nazionali. Non hanno i rappresentanti dei governi nazionali l’autorevolezza di prendersi le proprie responsabilità? Non era forse questo uno degli argomenti (per molti versi fondato) di critica nei confronti di Tsipras a proposito dell’indizione a sorpresa del referendum?
Questa prima considerazione apre le porte per una seconda: quanto ancora può durare un’Europa economica e monetaria senza un’Europa politica? Certo, nella scelta di arrivare ad un accordo la dimensione politica ha avuto ragione su coloro che l’avrebbero messa a repentaglio pur di far pagare uno scotto alla Grecia per il suo indirizzo dissonante rispetto al pensiero unico, ma si è andati molto vicini ad una rottura che avrebbe avuto ripercussioni inimmaginabili per l’Europa. E che peso politico internazionale può avere un’Europa che rischia di saltare per la crisi finanziaria di un piccolo paese che esprime un PIL inferiore al 2% di quello dell’Unione?
Ed in effetti, terza considerazione, che prospettive può avere un’Europa priva di un disegno politico condiviso e di un parlamento decisionale? Priva di una politica verso il Mediterraneo, divisa sul dramma dell’immigrazione, indifferente verso il rinascere della xenofobia e del fascismo di stato in Ungheria, incapace e subalterna nell’affrontare la crisi ucraina e i rapporti con la Russia, timida e condizionata dalle posizioni più anti-europee nelle politiche di inclusione dei Balcani occidentali e della Turchia (partita quest’ultima ormai sepolta con conseguenze gravissime per il ruolo che la Turchia sta giocando nello scacchiere del vicino oriente), l’Europa appare paralizzata dai veti incrociati e impotente (e rispetto ai quali ben poco può una ministra intelligente come Federica Mogherini). E questo per non parlare di una dialettica di posizioni su temi cruciali come lavoro, welfare, fisco, infrastrutture… che oscilla fra neoliberismo e neokeynesismo, gli uni a teorizzare l’austerità finanziaria e gli altri la crescita. Senza nemmeno essere sfiorati dall’idea che per affrontare questo nuovo tempo ci sarebbe bisogno di un profondo cambio di paradigma.
Un cambio di paradigma che, stando così le cose, rischia di avvenire all’incontrario ovvero, quarta considerazione, nel rivendicare “meno Europa e più stati nazionali“. Questa dinamica unisce le tendenze politiche più disparate, destra estrema, sinistra radicale, populismi di diversa natura, euroscetticismo, ma a guardar bene anche conservatori e progressisti che vedono nell’Europa lo spazio per dar voce agli interessi nazionali piuttosto che uno sguardo sovranazionale. Un sentire sempre più diffuso anche nelle opinioni pubbliche che porta a vedere nell’Europa il problema, anziché la chiave per venirne a capo.
Tutto ciò richiederebbe un’Europa capace di ragionare oltre i confini nazionali, attraverso politiche in grado di affrontare le grandi questioni economiche, sociali e civili con uno sguardo europeo (tanto per fare un esempio, non è possibile che nell’Unione Europea per lo stesso lavoro ci sia chi prende 3000 euro mensili e chi 200), di favorire politiche euroregionali a loro volta in grado di sottrarre competenze di autogoverno dall’alto ma anche dal basso, di sviluppare politiche di cooperazione e scambio con le aree di prossimità che più interagiscono spesso in termini emergenziali con l’Europa. E non mi riferisco solo alle istituzioni europee e alle rappresentanze nazionali ma anche ai corpi intermedi (partiti, movimenti politici, attori sociali, sindacati…) che sono ancora immersi nel paradigma stato-nazionale nonostante che tutto ormai si manifesti e si declini in una dimensione territoriale e sovranazionale piuttosto che nazionale.
Al contrario, quel che questa estenuante ed avvilente contesa attorno alla questione greca fa emergere è la crisi di questa Europa. La frattura che è emersa in queste ore non è solo di fiducia reciproca fra gli stati (che pure è il fondamento di quel poco o tanto che c’è di Europa), non è solo fra Germania e Francia nel rivendicare la leadership dei processi europei (che pure rappresenta nel suo esplicitarsi la fine del progetto politico ideato per evitare egemonismi nazionali), ma il venir meno di una visione comune sulle grandi questioni che affliggono l’umanità in questo cruciale passaggio di tempo, il diritto alla vita, la tendenza alla guerra (ricordo che uno dei primi atti costitutivi dell’Europa politica avrebbe dovuto portare alla fine degli eserciti nazionali e alla costruzione di un esercito europeo), la lotta all’esclusione e alla povertà, la salvaguardia dell’ambiente…
La frattura su questi temi non è tanto fra conservatori e progressisti (qualche settimana fa siamo inorriditi di fronte alla chiusura delle frontiere da parte del socialista Hollande), ma fotografa piuttosto quel che sta avvenendo nelle nostre società, quel clima di paura che è storicamente l’anticamera dell’imbarbarimento sociale e politico, nel prendere piede di vecchi e nuovi populismi, vecchi e nuovi nazionalismi, vecchi e nuovi fascismi.
Occorre, continuo a ripeterlo, una scarto di pensiero.
PS. La crisi di Syriza non è affatto estranea a tutto questo. Lo dico perché, ultima considerazione, c’è da riflettere per tutti, anche per quelli che sono sempre alla ricerca di modelli da scimmiottare. O forse diranno che persino Tsipras s’è fatto corrompere dalla poltrona?