Orsa Danica: uno scontro avvilente
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13 Settembre 2014(11 settembre 2014) Danica aveva la sola colpa di essere un’orsa. Non l’ha uccisa la forestale nel catturarla, ma il clima di paura di questo tempo nel quale ci si rapporta a tutto ciò che abbiamo accanto come ad un’insidia e che per questo ci svuota di futuro.
Danica aveva la sola colpa di essere un’orsa. Si accorgeva, forse più di noi, dei cambiamenti climatici, ma non poteva sapere che cambiano anche le stagioni politiche e che quel progetto che l’aveva portata in Trentino da luoghi lontani sarebbe diventato una palla al piede di una nuova amministrazione in ansia di mettersi alle spalle l’anomalia trentina.
Non poteva comprendere che in un contesto malato, dove la logica del tutti contro tutti sta cambiando in profondità i nostri comportamenti, non c’era più spazio per la scommessa di un nuovo e più disteso rapporto con la natura, tanto da portarci a considerare pericolosi quegli animali che mostrano più dimestichezza con l’ambiente dell’uomo.
Non si rendeva conto che avrebbe potuto diventare il simbolo di una contesa post ideologica sulla non negoziabilità degli stili di vita nella quale anche gli esseri umani si dividono fra inclusi ed esclusi, figuriamoci gli animali specie se forti e ragionevolmente protettivi verso i propri cuccioli.
Danica aveva la sola colpa di essere un’orsa. Ora che non c’è più, invece che riflettere sull’amara conclusione di questa vicenda, non sapremo che azzannarci a difesa del nostro quieto vivere, in attesa di un’altra orsa – mite e curiosa – che diventerà suo malgrado il pretesto della nostra paura di futuro.
5 Comments
Non volevo scrivere nulla su questa vicenda perché mi sembrava fuori luogo aggiungermi alle tante urla e polemiche spesso superficiali e miopi che continuo a leggere da stamattina. Poi ho trovato queste poche parole di Michele Nardelli, che dette sottovoce e con pacatezza riescono a toccare quei luoghi e quelle sfumature dove le urla non arrivano. Condivido appieno ogni parola. Grazie.
E’ vero, l’unica colpa di Danica era quella di essere un’orsa e di comportarsi come tale. Non avrebbe dovuto tentare di procurare il cibo ai suoi piccoli come fa una madre orsa o non avrebbe dovuto attaccare un uomo come fa una madre orsa quando pensa che i suoi cuccioli possano essere in pericolo… non avrebbe dovuto comportarsi come un’orsa ma come esseri umani che hanno perso la propria umanita’
Condivido ogni parola di Michele Nardelli e sarebbe stato bello leggerle sui giornali locali per alzare il livello di un dibattito pubblico demenziale tra fazioni pro-orso e frazioni anti-orso. Il problema è culturale, è il “padroni a casa nostra” esteso ai rapporti con gli animali e con l’ambiente naturale, ennesimi esclusi del nostro habitat sociale. Temo che il Trentino di oggi non si meriti gli orsi, perchè la convivenza in un territorio antropizzato come il nostro presuppone una consapevolezza dell’equilibrio tra uomo e natura che siamo lungi dall’avere acquisito.
A proposito dell’orsa Danica
In premessa va affermato che l’orsa Danica si è comportata da orso, difendendo i propri piccoli, mentre gli uomini si sono comportati da esseri irrazionali, nonostante gli studi e le esperienze fatte sul terreno dell’ecologia.
Mentre vanno respinte le proposte demenziali della Lega Nord, frutto di ignoranza e sottocultura, si deve discutere in modo serio a proposito degli errori commessi nell’introduzione degli orsi nel Trentino e comprendere le modifiche ambientali che si sono avute sul territorio e in particolare nelle zone dell’Adamello-Brenta.
Nel Trentino gli orsi ci sono sempre stati anche se nell’ultimo periodo occupavano una zona circoscritta dell’Adamello-Brenta. Negli anni ’70 si erano ridotti a circa sette. Fu in quel periodo che si propose di iniziare una introduzione di animali provenienti dalla Slovenia, ma non se ne fece niente per carenze normative.
I sistemi ecologici sono sistemi complessi che non possono essere modificati con atti semplicemente volontaristici o con discorsi moralistici tipici di un animalismo primitivo.
In primo luogo si deve sfatare una prima leggenda, cioè il fatto che sulle nostre montagne stia circolando un numero più alto di persone rispetto al passato: questo è vero, forse, per quanto riguarda gli escursionisti che frequentano certe località turistiche.
Nei decenni scorsi la presenza umana era più consistente. Fino agli anni ’70 le montagne del Trentino erano altamente antropizzate per il numero di malghe in funzione (circa almeno una per comune) con le relative mandrie e greggi; molti si muovevano in alta quota per lo sfalcio dei prati e il taglio dei boschi. In quell’epoca venivano portati in montagna anche i bambini e gli orsi ben difficilmente entravano in contatto con gli esseri umani, se non in casi sporadici. In seguito si è avuto un calo demografico con conseguente riduzione dell’ecumene (territorio occupato dagli esseri umani), si sono costruite strade comunali, provinciali, strade forestali, in sostituzione delle antiche strade dei brozi; si è costruita l’autostrada che tagliava la valle dell’Adige impedendo agli animali il passaggio da una parte all’altra della valle. Queste modifiche del territorio hanno agito sui sistemi ecologici, determinando la riduzione e la ritirata dell’ecumene nelle città e nei centri più grossi.
A prima vista potrebbe sembrare che questo fatto favorisca una maggior diffusione della fauna selvatica, ma in realtà l’abbandono dei pascoli, dei prati favorisce la diffusione di alcune specie, mentre limita l’espansione di altre.
Non si può inoltre trascurare il fatto che, per motivi di praticità negli allevamenti dei bovini, si è diffusa la moda di decornificare le vacche, togliendo loro uno strumento di difesa contro eventuali aggressioni degli orsi. Si è poi presa l’abitudine di recintare le greggi di pecore e capre in recinti con impianti elettrici, rinunciando ai cani pastore come strumenti di difesa.
È in questo contesto che si è reintrodotto l’orso dalla Slovenia, pensando che bastasse liberarlo e mettergli un radiocollare. Si è sottovalutato il fatto che gli animali hanno una memoria e sono capaci di apprendimento e che l’apprendimento viene trasmesso dalla madre, dai genitori in genere o dal gruppo a seconda della specie e dall’esperienza. L’introduzione degli orsi dalla Slovenia ha prodotto loro un trauma perché improvvisamente sono stati portati in luogo sconosciuto, inesplorato, rumoroso con odori diversi rispetto al luogo di nascita. Si è verificata una cesura nella memoria: gli orsi reintrodotti dovevano compiere l’esplorazione del nuovo territorio.
E qui è stato commesso il primo errore: si sono lasciati circolare liberamente senza far un’opera di contenimento usando le tecniche che vengono adottate in altri paesi, usando prima di tutto dei cani appositamente addestrati. Era necessario che nella memoria degli orsi circolanti scattasse un meccanismo di condizionamento in modo che collegassero la presenza umana con quella del pericolo.
Bisognerebbe ad esempio domandarsi: come mai l’orso Bruno è arrivato in Baviera (e non seguendo il richiamo di una femmina) superando strade, autostrade e luoghi pericolosi? Gli orsi preesistenti nel Trentino riuscivano a superare tutte queste difficoltà? Sappiamo che essi rimanevano più collegati al territorio.
Nel dibattito che si è scatenato a proposito di Danica, siamo in presenza di un uso strumentale della vicenda (che rasenta il ridicolo) da parte di quei politici che diventano improvvisamente esperti e parlano di limitazioni del numero di orsi, ecc.
Si deve comprendere che i sistemi ecologici non sono solo catene alimentari, ma sistemi complessi che, per essere sostenibili, hanno bisogno di energia, materia ed informazione; sono pure sistemi in cui avviene conflitti e antagonismi. Se manca uno di questi elementi un sistema fluttua e si evolve in maniera anche catastrofica. In conclusione ci devono essere vacche non decornificate, cani addestrati alla presenza dell’orso, pratiche di dissuasione e meno collari. Va pure ricordato che certe informazioni diffuse con faciloneria, sono scorrette e pericolose come quella di girare per i boschi con campanelli, dato che questo evoca all’orso la presenza di vacche, pecore e capre. Ed esse, pur avendo il campanaccio, sono state aggredite, mancando le azioni di dissuasione dei cani.
Francesco Prezzi
Che cosa impariamo dalla triste vicenda, da qualunque lato la si guardi, dell’orsa Daniza? Verrebbe da dire: sempre la stessa cosa. E allora vuol dire che non impariamo niente. O almeno non ancora. Mostriamo di non farcela ad andare in due direzioni, entrambe necessarie e indispensabili: l’alterità e la vivibilità. Sulla prima siamo ancora paurosamente fermi a decidere chi sono i “nostri” e chi sono gli “altri” che nostri non sono e devono stare lontani da noi o andarsene. Di luogo in luogo e di volta in volta spostiamo i confini, ma siamo molto impegnati in questo gioco di esclusione, fino a pratiche distruttive. E stiamo ancora e comunque parlando di altri intesi come essere umani. Mentre ci dedichiamo con affanni e impegno a questa “coazione ad escludere”, non ci accorgiamo che negli “altri” che sono decisivi per la nostra vita, senza i quali cioè non c’è futuro neppure per noi, ci sono tutti gli esseri del sistema vivente di cui siamo parte, animali e piante in primo luogo. Non riusciamo a vedere ciò che va oltre l’uomo – verrebbe da dire oltre il nostro naso – come una rivelazione di noi stessi e per noi stessi. Ci disgiungiamo dal sistema vivente di cui siamo parte, replicando ciecamente il manifesto di Pico della Mirandola che, se andava bene per riconoscere l’umanesimo dell’uomo e uscire dalla notte del Medioevo, oggi sa di una presunzione fuori tempo massimo, per giunta molto pericolosa. Noi costruiamo noi stessi e diveniamo quello che siamo attraverso l’alterità, sia con l’altro umano che col non umano. Siamo sempre stati densamente combinati con quello che chiamiamo “il resto” del sistema vivente, ma che in realtà è la condizione stessa della nostra vita. Trattare, perciò, un animale come se fosse “cosa” inerte e fungibile, che si può attivare o disattivare come un meccanismo banale, parla a noi di noi, di come continuiamo a disgiungerci dalla natura pensando di dominarla e non accorgendoci che quello è il modo per autodistruggerci. Sulla vivibilità le cose, ahinoi, non vanno meglio. Il precario equilibrio degli ecosistemi continua ad essere per noi l’arena dei nostri progetti e dei nostri propositi di uso illimitato. Vogliamo comporre gli elementi del sistema in cui viviamo con lo stesso atteggiamento infantile con cui un bambino compone un Lego. Come con quei pezzi, vogliamo posizionarli dove diciamo noi e non devono muoversi da lì. O meglio devono muoversi in base alla nostra volontà e solo a quella. Servirci quando lo vogliamo e scomparire quando e da dove ci danno fastidio. Rinnovarsi come desideriamo noi e nella misura che a noi va bene. Vogliamo persino abusarne senza preoccuparci della loro riproducibilità. E stentiamo, e molto, ad accorgerci che le cose non sono mai state così, ma soprattutto non stanno così oggi, quando siamo sette miliardi sul pianeta Terra, e ogni luogo è il mondo. Riuscirà un evento come quello di Daniza a distoglierci finalmente dal fare della nostra centralità il fine di ogni cosa?
Ugo Morelli
Corriere del Trentino