Il disegno che non c’è
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di Michele Nardelli
L’esito di un voto – insieme politico e amministrativo – come quello di domenica 31 maggio che tutti rivendicano a sostegno delle proprie tesi (e della propria leadership) richiederebbe al contrario una lettura capace di distacco, per comprenderne più da vicino non solo gli spostamenti elettorali, tutt’altro che insignificanti, ma quel che accade nell’orientamento culturale ancor prima che politico delle persone.
In primo luogo perché di fronte al “non voto“ di un cittadino su due dovremmo chiederci se l’astensione sia il frutto della distanza della società dalle sue rappresentazioni politiche oppure anche il segnale di qualcosa di diverso che andrebbe messo a fuoco, l’idea cioè che della politica si possa fare a meno. Un ingombro costoso di cui si può far senza, in virtù di un contesto nel quale l’accento è sull’agire dell’individuo, sul merito e sulla capacità a rendere “naturale“ la propria collocazione sociale. C’è per la verità anche un’altra versione (forse più radicale ma in fondo non tanto diversa) del “non voto“, quando questo esercizio viene ritenuto inessenziale rispetto all’eticità dei comportamenti e che divide il mondo fra il bene e il male. Dove ovviamente il bene sta dalla propria parte. A questo si può aggiungere inoltre la scarsa considerazione che viene espressa verso le istituzioni regionali, risultato tanto del degrado della politica che le abita quanto del progressivo svuotamento centralistico che ha cancellato – in ossequio alla riforma del titolo V della Costituzione – quel po’ di cultura dell’autogoverno che le Regioni avevano conquistato.
Ci si sarebbe aspettato in ogni caso che, di fronte ai dati mai così bassi di partecipazione elettorale, la politica si interrogasse ma in realtà le note di preoccupazione sono state marginali e, a ragion del vero, hanno trovato albergo più nei partiti dell’opposizione che in quelli di governo, lasciando indifferente anche quella “società civile“ che appare ormai sempre più estranea a quel che avviene sul piano politico se non nell’assumere le forme perniciose del lobbismo.
Entrando poi nel merito del risultato elettorale, lo schema interpretativo che in questa tornata ha riempito le cronache è stato quello calcistico, cinque a due, dieci a due (nell’era renziana) e così via. Una semplificazione che ci aiuta a capire ben poco di quel che è accaduto non solo nei seggi elettorali ma nella testa delle persone. Perché si può vincere perdendo un sacco di voti, perché ci si afferma anche quando non si conquistano maggioranze, perché si possono abbattere barriere politico-geografiche che fino a quel momento sembravano invalicabili, perché quando la politica è debole e rincorre il consenso viene meno la sua funzione pedagogica (ormai sepolta) e sono le dinamiche nell’opinione pubblica e lo stesso esito del voto ad orientarla.
E allora come non vedere che la solitudine e la paura sono entrate prepotentemente nell’urna? Come non rilevare che l’omologazione e l’appiattimento delle idee hanno segnato il dibattito elettorale, laddove i temi della sicurezza vengono giocati come questione di ordine pubblico e non invece come incertezza verso il futuro? Come negare che le elezioni, anche quelle amministrative che dovrebbero avere una particolare attenzione alla capacità di autogoverno, sono diventate invece una sorta di referendum a favore di questo o quel leader nazionale, effetto di una campagna elettorale che si svolge nei talk show televisivi piuttosto che nel cuore di ciascuna comunità? Con il paradosso che l’altra faccia di questa deriva plebiscitaria è il particolarismo del “non nel mio giardino“. O la dimensione umorale che prospera all’ombra dello spaesamento.
Anche in questo la politica non è che lo specchio di quel che cova in una società che non sa più riconoscersi collettivamente e dove i codici comportamentali sono sempre più frequentemente segnati dai luoghi comuni o comunque da quel che si vuol vedere e sentire. Come il lavoro ha smesso di essere motivo di identificazione, così l’abitare non genera comunità, la cooperazione economica e sociale di essere movimento di trasformazione e così via. Fra il “non più“ e il “non ancora“ c’è un vuoto che si riempie di quel che trova, la rapina nell’oreficeria o l’auto impazzita guidata da un giovane rom. Uno smarrirsi che diventa solitudine, paura, aggressività.
L’Europa, dimensione sovranazionale che potrebbe aiutarci ad affrontare contraddizioni irrisolvibili in chiave nazionale, viene guardata come se fosse il problema. La pace e la solidarietà, come una melassa buonista per anime belle incapaci di capire che “prima vengono gli italiani“. Il welfare come un vecchio retaggio del passato, “dateci i soldi in busta paga che ci arrangiamo da soli“. La responsabilità come una cosa per sciocchi che non hanno ancora capito che questo è il tempo del “si salvi chi può“. La pianificazione del territorio come un inutile orpello burocratico, perché sul mio faccio quel che mi pare… Le facce di tutto questo sono molteplici: il corporativismo, la demagogia del fare, l’inutilità della mediazione politica…
La politica che a sua volta, invece di rappresentare un argine a tutto questo, tende ad assecondarlo, lo cavalca, lo fa diventare programma elettorale. Il “non più“ non viene elaborato e il “non ancora“ fatica a prendere corpo perché richiederebbe capacità di leggere il presente e di cercare nuovi paradigmi per immaginare il futuro. E quindi assume sempre di più le caratteristiche della macchina del consenso immediato, della difesa corporativa, della demagogia, della falsa indignazione ancorché gridata. Così anche nello stile dei suoi protagonisti, poco inclini alla riflessione e alla nobiltà del compromesso.
Emerge così dal voto una nuova antropologia che – quand’anche non si sia ancora del tutto affermata – condiziona chi governa anche quando il segno politico sembra indicare un’inclinazione diversa. Pensiamo a quanto il tema posto dai nuovi flussi migratori generi un imbarazzo e un’ostilità trasversali. E come, anziché interrogarsi su quel che accade intorno a noi, solleciti interventi che hanno più a che fare con l’emergenza (la guerra ai barconi) che non con la radice dei problemi.
Allora credo che la lettura del risultato elettorale nelle elezioni regionali e comunali non possa ridursi a chi ha vinto e a chi ha perso sul piano dei numeri, ma dovrebbe farci interrogare sulla fotografia sociale e culturale che ne esce. Sotto questa luce, il 10 a 2 non ci aiuta affatto a capire.