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In coincidenza con la crisi economica, tuttavia, il federalismo si è eclissato, eliso completamente dal discorso pubblico, quasi rinnegato. Un essenziale tema di confronto e di scontro è così finito in soffitta senza nemmeno l’onore di un annuncio. Sono trascorsi quasi vent’anni dalla riforma Bassanini, quindici dalla modifica del Titolo V della Costituzione, dieci dalla Devolution contenuta nelle riforma costituzionale poi bocciata al referendum e la questione politica di un differente assetto delle componenti statuali è stata derubricata.

Le cause sono diverse. La recessione, il deficit pubblico e l’austerity imposta dalla Germania nell’Ue hanno richiesto un’omologazione dei conti e delle spese. L’immoralità dei vari Batman ha invece rianimato i fautori del centralismo che hanno guardato sempre con sospetto il regionalismo. Infine un peso l’ha avuto anche il declino della Lega Nord di Umberto Bossi (già ministro per la Devoluzione), normalizzata dai vizi romani e dagli scandali. Oggi il Carroccio è sopravvissuto accentuando la sua dimensione nazionale sul modello Front national, accettando l’idea del leader comunicatore e abbandonando molte simbologie del passato (Padania, secessionismo, autodeterminazione) che erano servite per ottenere concessioni da sinistra e da destra. Il cambio di divisa di Matteo Salvini – dalla guardia padana alla polizia – è l’emblema del mutato registro.

La riforma costituzionale, in autunno al vaglio degli elettori, è un ulteriore colpo all’assioma di un potere diffuso. Il Trentino (con l’Alto Adige) ha difeso le sue prerogative con il consueto efficientismo sindacale, ma non è riuscito a diventare capofila di un progetto culturale delle Regioni e delle autonomie locali che potesse impedire l’inversione del paradigma. Il mito dello Stato può aprire, dunque, una nuova stagione dove le esperienze locali rischiano di essere emarginate in uno sfondo indistinto.

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