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La partecipazione. Un saggio di Alessandro Branz

 

di Alessandro Branz

 

 

«Io credo che le grandi sfide che ci aspettano

come nazione, dalla sicurezza al cambiamento

climatico, alla competizione globale, alle

crescenti aspirazioni degli individui,

al desiderio di comunità locali più forti,

sicure e sostenibili […] non possano

più essere affrontate dalla vecchia politica.

Credo che abbiamo bisogno

di un nuovo tipo di politica che includa tutti,

non solo alcuni individui selezionati,

una politica basata sul consenso e non sulle divisioni,

una politica fondata sul coinvolgimento

delle persone e non sulla esclusione».

 

Gordon Brown, già Primo Ministro britannico, 2007

 

Premessa: i diversi significati del termine “partecipazione”

Partecipazioneè un termine ambiguo, adottato in una gamma di significati molto diversi l’uno dall’altro. In termini generali si potrebbe dire che con tale termine si intende qualunque forma di coinvolgimento della società civile e dei cittadini in attività pubbliche o collettive. Ma non basta.

Infatti si partecipa in vari modi: prendendo parte ad iniziative di partito, assistendo a dei comizi, mobilitandosi per una causa ritenuta giusta, aderendo a manifestazioni di protesta, occupando una fabbrica, una scuola o i binari di una ferrovia, scioperando o -più semplicemente- firmando una petizione o una proposta di legge popolare.

Ma si partecipa anche operando nel volontariato, attivandosi a sostegno delle persone svantaggiate, occupandosi dei beni collettivi (ad esempio tenendo volontariamente aperta una biblioteca o una mostra), fino al punto da curare la manutenzione degli spazi verdi di una città o di un quartiere[1].

Senza dimenticare le forme più recenti di partecipazione, come ad esempio boicottare un prodotto ritenuto dannoso o, al contrario, pubblicizzarne l’acquisto se ritenuto idoneo dal punto di vista etico, ambientale ed ecologico.

C’è quindi un po’ di confusione nell’utilizzo di questo termine, adottato per indicare situazioni molto diverse fra loro. Per fare chiarezza ed evitare equivoci è necessario operare una distinzione fondamentale: quella tra partecipazione sociale e partecipazione politica, individuando quest’ultima come una forma di partecipazione che, a differenza delle altre, si propone (ed è in grado) di influenzare le scelte pubbliche, le politiche e le decisioni collettive. Si tratta di una definizione introdotta fin dagli anni ‘70 da due politologi statunitensi (Sidney Verba e Norman H. Nie) e valida, come vedremo, ancor oggi.

 

La crisi della democrazia rappresentativa e la domanda di partecipazione

Il dato da cui partire per questa breve analisi è la crisi in cui versano i sistemi politici e le democrazie contemporanee. Crisi di fiducia innanzitutto: i rapporti tra governati e governanti tendono progressivamente a deteriorarsi e si fa sempre più evidente -non solo in Italia- un senso di distacco da parte dei cittadini nei confronti di élites politiche distanti e sorde.

Ma crisi anche di legittimazione della rappresentanza politica: le decisioni più importanti vengono ormai prese al di fuori del circuito democratico, da parte di burocrazie, tecnocrazie, organizzazioni, lobbies, potentati economico-finanziari ed altri attori che dispongono di ingenti risorse e che soprattutto non hanno ricevuto alcun mandato o legittimazione popolare. A questo proposito il politologo britannico Colin Crouch parla di “post-democrazia”: il potere sta progressivamente allontanandosi dai legittimi luoghi istituzionali e dalla sfera pubblica per assumere – come osservava lo stesso Norberto Bobbio – connotazioni sempre più invisibili e irresponsabili.

Inoltre le decisioni pubbliche vengono percepite e presentate non come il risultato di una scelta politica, ma come dati “tecnici”, “neutrali”, “oggettivi”, frutto della sapienza di (pochi) esperti, in un contesto dal quale il cittadino risulta irrimediabilmente escluso.

A fronte di questa situazione non sono mancate le richieste di una maggiore partecipazione: ne possiamo individuare una chiara eco nella contestazione degli anni ’60 del secolo scorso, originatasi nei campus studenteschi degli Stati Uniti e poi diffusasi in Europa, ma anche nell’emergere negli anni ’70 e ’80 di movimenti ambientalisti, femministi e dei diritti civili e, più recentemente, di fenomeni nuovi come Indiñados e Occupy. Tutte esperienze che denunciano il distacco tra cittadini ed istituzioni, rivendicando una politica che nasca “dal basso” ed un concetto più genuino di partecipazione, anche sull’onda di una profonda trasformazione dei riferimenti culturali e valoriali.

 

Due modelli a confronto

Sta di fatto che quella che Donatella Della Porta ha definito la “rivoluzione partecipativa” non è riuscita ad affermarsi in modo definitivo. A causa di un ostinato antagonismo e di un’organizzazione interna improntata all’assemblearismo, il modello di partecipazione promosso dai movimenti sociali non si è mai trasformato in una vera e propria forma ordinaria di governo, rivolta alla generalità dei cittadini e non solo agli attivisti.

D’altra parte anche la risposta delle istituzioni risulta piuttosto debole. Nonostante il principio ispiratore, che caratterizza i recenti cambiamenti a livello amministrativo, sia il passaggio da una prospettiva di government, centralizzata e gerarchica, ad una di governance, improntata alla collaborazione ed alla negoziazione[2], le innovazioni riguardano soprattutto la modernizzazione della macchina amministrativa e l’introduzione di nuove pratiche di trasparenza ed accesso alle informazioni, in un contesto però ove la partecipazione continua ad essere declinata “dall’alto” come mera consultazione, senza un coinvolgimento effettivo dei cittadini.

In realtà oggi si confrontano sul terreno della partecipazione sostanzialmente due  modelli: quello deliberativo e quello che si ispira alla democrazia diretta ed immediata.

La partecipazione deliberativa data da più di trent’anni e rappresenta la confluenza di tre filoni politico-culturali: quello anglosassone, quello nord-europeo e quello sudamericano.

Essa si fonda sul confronto fra tutti i soggetti interessati ad una determinata questione pubblica, meglio ancora se si tratta di un campione rappresentativo di cittadini, individuato sulla base delle caratteristiche socio-demografiche della popolazione. L’obiettivo è quello di raggiungere, attraverso il dialogo e la comunicazione, una posizione comune o comunque definire bene i termini del problema trattato[3]: in tal senso deliberare non significa decidere (com’è d’uso in Italia: si pensi alla delibera di una giunta comunale), bensì discutere attentamente le varie opzioni in campo, soppesando i pro e i contra delle possibili soluzioni, in una fase che precede la decisione.

In particolare lo scambio reciproco di argomenti e ragioni fra i partecipanti, l’ascolto sincero ed attento delle posizioni altrui[4], la dotazione di informazioni non solo quantitativamente numerose ma anche “bilanciate” (tali cioè da rappresentare tutti i punti di vista), nonché l’adozione di procedure eque e neutrali, incentivano nei partecipanti un atteggiamento propositivo e disponibile al cambiamento. Con conseguenze importanti anche per l’esito finale del processo partecipativo, perché il possibile trasformarsi delle opinioni e il superamento delle contrapposizioni iniziali possono favorire non solo una migliore definizione del problema discusso, ma anche l’adozione di soluzioni innovative.

Dopodiché la parola passa alle istituzioni, che sono chiamate a tener conto delle indicazioni emerse dal processo e delle soluzioni adottate, oppure, nel caso di mancato o parziale accoglimento, a motivarne le ragioni. Questa procedura da vita ad un intelligente equilibrio tra rappresentanza e partecipazione, nel senso che il ruolo delle istituzioni è salvaguardato, ma la “voce” dei cittadini viene comunque valorizzata[5].

Quello deliberativo è quindi un modello di partecipazione fondato su solide basi teoriche[6] edempiriche. E sono ormai numerose le metodologie che ne rendono possibile l’applicazione: dalle Giurie di cittadini, nate negli USA ma oggi diffuse in tutto il mondo, alle Plannungszelle tedesche; dalle Consensus Conferences danesi ai Sondaggi deliberativi ideati dal politologo statunitense James S. Fishkin ed applicati, oltreché in USA, anche in Gran Bretagna, Australia, Danimarca, Spagna, Polonia, Brasile, Argentina, Giappone, Ungheria, Grecia, Bulgaria, Cina, in Italia (nel Lazio) e nella stessa UE; dai World Café al Town Meeting del 21° secolo, che costituisce la filiazione delle assemblee cittadine del New England del ‘600 e che, ad esempio, anche con il supporto delle moderne tecnologie informatiche, ha permesso ad alcune migliaia di newyorkesi, rappresentativi delle caratteristiche socio-demografiche della città, di riunirsi e confrontarsi su come ricostruire l’area di Ground Zero, dopo l’attentato alle Torri gemelle e prima che l’intervento diventasse esecutivo.

Si tratta di metodologie che, pur assicurando (come abbiamo visto) un livello soddisfacente di rappresentatività, privilegiano la “qualità” dei processi alla “quantità” e quindi preferiscono gruppi non troppo numerosi di partecipanti, ove la discussione scorre più fluida ed il dialogo, l’ascolto reciproco e lo scambio delle opinioni sono più efficaci. La stessa legge toscana sulla partecipazione, che rappresenta la prima normativa regionale in materia ed il cui fulcro è costituito dal sostegno economico ed organizzativo ai processi partecipativi locali, vincola tale sostegno alla presentazione di percorsi strutturati di discussione[7]. Peraltro questi metodi non sono delle semplici tecniche e quindi non vanno utilizzati in maniera automatica e ritualistica: il loro deve essere invece un ruolo aperto e creativo, finalizzato all’individuazione della soluzione migliore per il caso in esame.

 

Partecipazione e democrazia “diretta”

L’altro grande modello di partecipazione, che vogliamo qui analizzare, è quello che si ispira alla democrazia diretta e che presuppone l’annullamento di ogni mediazione nell’esercizio della sovranità da parte dei cittadini.

Il riferimento più ovvio e pregnante è naturalmente l’istituto del referendum (anche se vi sono altre espressioni della democrazia diretta altrettanto significative[8]). Con il referendum (soprattutto se, come in Italia, di tipo abrogativo) il cittadino può certamente esercitare un grande potere di natura politica, quello di abrogare, o mantenere in vita, direttamente una legge o un atto pubblico. Ma si tratta di una prerogativa solo apparente: in realtà il cittadino nell’esercizio del voto referendario matura le sue preferenze ed il suo orientamento privatamente, in modo isolato e solitario, rinunciando a quell’aspetto essenziale della democrazia che abbiamo visto all’opera con la deliberazione, e cioè il dialogo pubblico, il confronto, lo scambio degli argomenti, la maturazione e lo sviluppo di una coscienza collettiva.

Ciò naturalmente non significa che a livello più generale non si apra alcuna discussione intorno all’oggetto della consultazione referendaria, ma si tratta per lo più di un dibattito polarizzato su posizioni rigidamente contrapposte, senza alcuna connotazione dialogica, finalizzato esclusivamente a far prevalere un’opzione sull’altra. Con il referendum prevale infatti una logica binaria (aut aut/si o no), di tipo “maggioritario”, che può essere accettabile in una società socialmente omogenea, ma diventa improponibile in un contesto di notevole complessità e di radicale incertezza come quello in cui stiamo vivendo (cfr. quanto dirò nel prossimo paragrafo). In definitiva, mentre la partecipazione deliberativa prevede un processo di formazione e trasformazione delle opinioni, il referendum si limita a “contare” le preferenze, considerandole come “date”[9].

Anche l’utilizzo del web come possibile veicolo di manifestazione delle proprie preferenze, nella convinzione di farle valere e poter incidere sulle decisioni (c.d. E-democracy), può essere visto come una forma di democrazia diretta. In effetti sono sempre più numerosi gli interventi sui blog (e sui temi più svariati), a conferma di un interesse del cittadino alla partecipazione, nell’illusione che la democrazia digitale possa favorire una comunicazione più aperta, democratica ed interattiva. In tal caso, però (come del resto si dovrebbe sempre fare), bisogna valutare quale sia l’effettiva qualità della discussione, spesso infarcita di messaggi flash improvvisati e poco ponderati, e tener presente che comunque ben difficilmente gli interventi online avranno modo di influire su una determinata decisione. Senza dimenticare che l’interazione via web non permette un confronto reale ed un vero dialogo, possibili solo face to face (faccia a faccia). Anzi: il risultato più probabile è la creazione di circoli chiusi, ove i partecipanti tendono a pensarla allo stesso modo, confermando le convinzioni già radicate anziché il formarsi di opinioni nuove[10].

Comunque, al di là di ogni considerazione relativa al loro specifico utilizzo, va rilevato che dietro queste pratiche si nasconde e cerca di affermarsi un modello di democrazia che, nel proporre un rapporto diretto ed immediato tra cittadino e procedure decisionali e nel bypassare il momento del confronto e dell’elaborazione, rischia di introdurre nei meccanismi democratici venature di populismo e di plebiscitarismo. Alla base c’è una critica radicale della democrazia rappresentativa, considerata ormai superata, ed un’interpretazione della politica come mero controllo negativo del potere e non come innovazione positiva. In tal senso la democrazia deliberativa può far da argine a questa deriva.

 

La superiorità del modello deliberativo

Da un punto di vista scientifico, non è corretto dichiarare un modello di democrazia superiore agli altri: i giudizi debbono essere sempre equilibrati, attenti e bilanciati, e soprattutto bisogna rifuggire da prese di posizione “ideologiche” a favore di un modello rispetto ad un altro. 

Tuttavia, pur consapevoli di questi rischi, possiamo affermare con sufficiente tranquillità che quello deliberativo è un modello di partecipazione particolarmente pregnante per almeno tre ragioni:

1. si adatta al carattere complesso e pluralistico della società contemporanea. Quest’ultima, com’è noto, è percorsa da divisioni e fratture profonde, al punto che le questioni sul tappeto sono molto spesso ostiche e di difficile soluzione: si pensi ai problemi che nascono dall’impiego della tecnologia, alla tutela dei beni ambientali, all’emergere di questioni valoriali, alla localizzazione di grandi opere infrastrutturali e produttive, senza dimenticare la tutela del territorio che coinvolge intere popolazioni. Ebbene: il fatto che di fronte a questi dilemmi la partecipazione deliberativa metta “intorno ad un tavolo” e faccia interagire tutti i diversi punti di vista, è una soluzione non solo democratica ed “aperta”, ma anche efficace sotto il profilo dei risultati. L’obiettivo infatti non è quello di ignorare o rifiutare il conflitto, ma di elaborarlo, evitando inutili cristallizzazioni e facendo dialogare le diverse prospettive[11];

2. non si propone di cancellare o sostituire la democrazia rappresentativa, ma di ricostruirla. L’intento è quello di integrare e rafforzare i processi della rappresentanza, oggi in crisi, coinvolgendo i cittadini nelle scelte pubbliche ed attivando un più solido legame tra questi ultimi e le istituzioni. In tal senso sarebbe auspicabile (e possibile) non solo dar vita a nuove istituzioni di tipo deliberativo, ma anche promuovere, laddove mancasse tale tassello, riforme che rendano le stesse istituzioni rappresentative più deliberative[12];

3. instaura un rapporto nuovo e fecondo con i processi decisionali. Sono le stesse caratteristiche della partecipazione deliberativa a dimostrarlo: infatti la capacità di raccogliere ed implementare informazioni e conoscenze rilevanti; la possibilità di far leva sul contributo di molti, ragionando in termini di collettività anziché come singoli; la capacità di instaurare un clima di confronto dialogico ed imparziale, sono tutti fattori che incidono positivamente sulla qualità dei processi partecipativi e di conseguenza sulla credibilità e legittimità delle decisioni che ne scaturiscono.

Il che conferma quanto già accennato: la democrazia deliberativa e il modello di partecipazione che ne deriva rappresentano un’innovazione importante, in grado di rispondere alla crisi di legittimazione delle democrazie contemporanee di cui abbiamo parlato all’inizio[13].

 

[1] Si tratta dei cittadini giardinieri che si occupano del verde pubblico (come i community gardens berlinesi), pratica individuata in Olanda con il termine do-ocracy o democrazia del “fare”.

[2]Su queste tematiche cfr. Luigi Bobbio, A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, ESI (Edizioni Scientifiche Italiane), 2004.

[3]Solitamente si tratta di conflitti ambientali, localizzazioni di impianti, risanamenti di edifici storici, problemi legati alla gestione della sanità, “contratti di fiume”, bilanci partecipativi, piani strutturali ed oggi anche conflitti inter-etnici.

[4]Ascolto “attivo”, direbbe Marianella Sclavi.

[5]Si tratta di una coerente applicazione del significato politico di partecipazione, richiamato in sede di Premessa.

[6]A questo proposito cfr. i due volumi di Antonio Floridia: La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci editore, 2013 e Un’idea deliberativa della democrazia. Genealogia e principi, Il Mulino, 2017.

[7]Anche in Trentino è stata recentemente applicata una legge sulla partecipazione che, pur con alcune rilevanti differenze, richiama quella toscana.

[8]Come ad esempio l’istituto del recall, che prevede la revoca per via referendaria di una carica pubblica assegnata ad un eletto.

[9] Peraltro esistono anche casi di utilizzo “positivo” del referendum: si pensi all’innovazione introdotta nel 2010 dallo Stato dell’Oregon (U.S.A.), il Citizens’ Initiative Review (CIR), che mette in relazione in modo originale democrazia diretta e democrazia deliberativa, prevedendo la possibilità per gli elettori di formarsi, prima del voto referendario, un’opinione informata in merito ai temi su cui saranno chiamati ad esprimersi.

[10]Dopodiché va detto che le moderne tecnologie della comunicazione possono anche servire di supporto all’organizzazione di processi deliberativi (vedi l’esempio, sopra riportato, del Town Meeting del 21° secolo).

[11] Pure la riforma delle norme elettorali ed istituzionali è un argomento ostico, data la difficoltà di mettere d’accordo partiti che rispondono ad interessi diversi ed il più delle volte contrastanti. Anche qui vari esempi (Irlanda, Islanda, la Provincia canadese della British Columbia, Olanda) dimostrano come invece la partecipazione deliberativa ed il conseguente coinvolgimento dei cittadini possano ottenere risultati brillanti.

[12] Un altro esempio di integrazione è quello fra democrazia deliberativa e democrazia diretta richiamato nella nota 9 e tentato in Italia in occasione della fusione dei Comuni della Valsamoggia, in provincia di Bologna.

[13] Molte considerazioni e riflessioni contenute in questo testo sono tratte da R. Lewanski, La Prossima Democrazia: dialogo – deliberazione – decisione, 2016, scaricabile gratuitamente dal sito www.laprossimademocrazia.com. Dello stesso autore cfr. anche: La democrazia deliberativa. Nuovi orizzonti per la politica, in Aggiornamenti sociali, Studi e ricerche, 2007, n. 12, pp. 743-754 e Deliberare: una declinazione innovativa dl verbo ‘partecipare’, in Sentieri Urbani , 2016, n. 21, pp. 22-27.

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