Storia e pandemie
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7 Aprile 2020La nuda vita, capace di svelare di quale comunità abbiamo bisogno
Fare conricerca e ricerca azione con gli orfani del fordismo e del sistema ordinatorio fatto di classi e conflitto, ai bordi del vulcano della company town con il torinese Revelli, per poi camminare nel postfordismo del capitalismo molecolare della fabbrica diffusa e delle nascenti partite Iva con Sergio Bologna e nei territori del margine come luoghi di nuove pratiche di democrazia dal basso con Alberto Magnaghi, fu un andare oltre il nulla sarà più come prima.
Ci mettemmo in mezzo e dentro la moltitudine delle masse senza più la barra della lotta di classe per orientarci. Da qui il tornare all’essenziale dell’“essere in comune”, della voglia di comunità di Bauman, di cui ricordo una conversazione sul Manifesto con il compianto Benedetto Vecchi, perché, come ci ricorda Augé, “un individuo totalmente solo è inimmaginabile cosi come è insostenibile un futuro senza avvenire”.
Covid 19 pare sbatterci in faccia un futuro senza avvenire con la contraddizione tra una solitudine da Immunitas e la voglia di comunità per mangiare futuro da Communitas. Ne avevamo ragionato con Roberto Esposito, avendo chiaro che la “voglia di comunità“ non è buona in sé. Da qui il nostro teorizzare la comunità di cura e la comunità operosa come alternativa possibile.
Ed anche oggi, nel labirinto della paura della pandemia, non saprei evocare che queste due polarità per ritrovare il filo di Arianna.
Per non passare per inguaribile buonista, preciso che oltre all’angoscia della solitudine, ci salverà l’interesse a metterci in comune.
Non è stato forse così, nella pandemia, il riscoprire la comunità stretta della cura di infermieri e medici, a cui ci siamo affidati? Per poi accorgerci di quella comunità di cura larga che va dai contadini agli operai, ai bottegai, alle cassiere nei supermercati, ai camionisti che ci hanno garantito luce, calore, cibo a domicilio… tutti lavoratori dell’ultimo miglio che ci erano invisibili.
Ma la comunità di cura larga non è “solo” questo. Mettersi in comune per interessi porta a riscoprire quello che l’arroganza della disintermediazione e la teorizzazione dell‘uno vale uno aveva cercato di cancellare: le forme e la cultura della rappresentanza, le forze sociali, la società di mezzo.
La comunità di cura larga evoca pratiche che rimandano al vuoto della rappresentanza piegata come legno storto nella rappresentazione da società dello spettacolo che aveva trasformato la dialettica sociale in rituale stantio da fabbrica di tavoli. Covid 19 ha riportato il rappresentare all’essenziale: il sindacato a difendere corpo e salute, artigiani e commercianti nel deserto del capitalismo molecolare hanno riscoperto il senso del rappresentare.
Per non parlare dei senza rappresentanza, dalle partite Iva per scendere al lavoro sommerso, agli immigrati, ai poveri, ai carcerati, cui rimane la pietas di pochi politici e le parole interroganti del Papa.
Parole che ci interrogano intalpati nelle nostre case, dove si riscopre il piacere del fare il pane, mentre in basso manca il pane, ed in mezzo c’è la panificazione per i supermercati, che speriamo non diventino i forni di manzoniana memoria.
Dentro la moltitudine avevamo visto la faglia tra nuda vita e vita nuda. Definivo la prima il nostro essere dentro la società automatica dei big data al lavoro con il nostro sentire, pensare e comunicare. Ci eravamo dimenticati, con delega al volontariato e alle Caritas, della vita nuda che mangia, si copre ed abita.
Qui siamo e qui occorre rimettersi in mezzo, rifare comunità di cura larga, rifare società di mezzo nel salto d’epoca da una società del ‘900 dai mezzi scarsi con fini certi ad una società con mezzi sempre più potenti, ma con fini totalmente incerti, che oggi scopre l’incertezza dei mezzi per immunizzarci dal coronavirus.
Sento un rullar di tamburi da futurologi, già sentito ai tempi della new economy, che esalta il nostro smart working come destino. Non tiene conto del destino dei tanti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione terziaria apolidi dentro e per la rete, che si ritrovano oggi assistiti con 600 euro.
Chi negozia e chi rappresenta chi nel capitalismo della RETE? Chi determina algoritmi, informazioni, saperi e tecnica nella società automatica? Auspico e sostengo da tempo una rinascita sindacale che si metta in mezzo tra nuda vita e vita nuda negoziando in alto con il capitalismo della rete ed in orizzontale facendo sindacato di comunità.
Così come per il capitalismo delle RETI, quelle hard della logistica, fondamentale per muovere le merci dentro e fuori imprese 4.0, moltitudine di lavoratori dell’ultimo miglio con camion e camioncini, sino ai fantasmi in bicicletta che portano i nostri cibi caldi.
In mezzo rimane il capitalismo manifatturiero in metamorfosi da innovazione, dove la crisi ecologica aveva già posto il nodo di un umanesimo industriale (parola grossa!) per una green economy come capitalismo che incorpora il concetto del limite.
Ho sempre scritto che non si dà green economy senza una green society che la impone. Non esistono capitalismi che cambiano senza un po’ di conflitti e senza rovesciare almeno concettualmente il termine capitalismo in capitale sociale e, come ci hanno insegnato Sebregondi a Napoleoni, senza mettere in mezzo tra economia e politica la società.
Per il nostro interesse è fondamentale che la comunità di cura larga recuperi uno spirito militante di stimolo al cambiamento della comunità operosa in divenire, ponendo cosi la questione essenziale di come passare dalla fine di un mondo ad un altro mondo possibile.
Ce la faremo quando, riprendendoci per mano, capiremo che non è solo questione di economie di lavori, di interessi ma, come mi hanno insegnato Borgna e Beck, è un riconoscersi nella comunità di destino esistenziale.
* da www.ilmanifesto.it