Il buon costruire contro i disastri
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24 Gennaio 2012La montagna fra speranza e disincanto
Eppure quel limite aveva anche un’altra valenza, portava le genti al contatto, alla conoscenza reciproca, le rendeva più simili o inclini a far proprie usanze e stili di vita dell’altro. Se tradizionalmente i confini dei territori hanno coinciso con le barriere naturali, l’ingegno umano ha saputo realizzare vie di comunicazione che valicavano le montagne, ponti per attraversare i fiumi, navi per solcare i mari. Così le culture si sono incontrate e conosciute, i saperi diffusi, gli usi e costumi intrecciati fino a confondersi.
Non è affatto casuale che le nuove guerre si accaniscano più contro i simboli dell’incontro che non contro gli eserciti nemici, intendendosi invece negli affari come nel disprezzo verso la cultura e la creatività umana. Gli obiettivi di guerra sono così diventati i ponti, le biblioteche, le città, le montagne e la vita che vi si svolge.
Violandole non solo nel divenire teatri di guerra come è stato per le nostre montagne, nell’"insensatezza e nell’assurdità" di cui ci parlava Emilio Lussu nel suo capolavoro "Un anno sull’altipiano", parole riferite ad inutili massacri ordinati da ufficiali sprezzanti della vita di tanta povera gente. Ma anche nell’intima quiete della natura.
Quante volte in questi anni ho attraversato montagne dove la guerra – seppure finita – era ancora lì, in agguato per le mine disseminate nei boschi o nelle vallate. Ho in mente luoghi di straordinaria bellezza, intorno a Sarajevo (non dimentichiamolo, città olimpica) violati per sempre dalla follia dell’uomo ed ora segnati da lugubri cartelli con un teschio e la scritta "Pazi – Mine", un linguaggio – fra l’altro – che non tutte le creature del bosco possono intendere.
Ancora montagne crivellate di miniere da un’insana idea di sviluppo e poi trasformate in discariche di rifiuti tossici provenienti da altri "sviluppi", altrettanto insostenibili. Ghiacciai come quello dello Siachen, da oltre sessant’anni conteso fra l’India e il Pakistan in una guerra infinita che l’ha trasformato in un enorme campo di battaglia ed in un’immensa discarica di materiale bellico a seimila metri di quota, praticamente sotto il cielo. Ancora montagne ridotte a lande desolate da guerre infinite in Cecenia o nel Nagorno Karabak.
Mi viene in mente l’immagine dolorosa di un orto botanico sul massiccio del Velebit che si affaccia sulla Kraijna, per anni curato da un professore di Zagabria che si recava in quella piccola valle per mettere a dimora cardi bianchi e viola, lingue di cervo, edelweiss, ciclamini, genziane, pulsatille e così via, per ciascuna scegliendo l’esposizione al sole, il grado di umidità, la protezione del vento, l’humus, la vicinanza alla pietra o all’alto fusto e dei piccoli cartelli con i nomi ed infine la raccomandazione «raccogliete immagini, non fiori». Quale obiettivo militare poteva rappresentare la sua devastazione?
E poi… Quale capacità di elaborazione ne è seguita? Quali narrazioni in questi ed altri luoghi si sono sapute incontrare per costruire reali processi di riconciliazione? Che cosa abbiamo imparato dalle lezioni della storia? Come ci poniamo – per usare una bella espressione di Hannah Arendt – verso «tutto ciò che ci è misteriosamente dato».
Con questi pensieri, nel guardare alla montagna come luogo dove la guerra e la pace possono raggiungere gli acuti più alti di tragicità e di bellezza, proponiamo l’idea di un dialogo fra la montagna e la pace fatta di ascolto, di armonia, di rispetto e di sobrietà nei comportamenti, una sorta di risarcimento dell’uomo verso la montagna. Un cammino nel disincanto che, per usare le parole di Ugo Morelli, ci aiuti nel passaggio «da un’idea e da una prassi di vivibilità contro la natura, per difendersi da essa o per usarla… ad una vivibilità in alleanza con la natura».
* presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani