Spunti stimolanti e… destabilizzanti
8 Maggio 2011Cinque anni dopo l’uscita di «Darsi il tempo»
18 Gennaio 2014«… Non ti nego che “Darsi il tempo” è il vademecum che porto con me quando mi trovo a confrontarmi con i ragazzi nelle varie scuole, per cercare di suscitare in loro interesse per un ambito che purtroppo a lungo è stato connotato dall’alone fuorviante dell’assistenzialismo o, peggio ancora, vestito di un abito pletorico basato sul marketing impattante che sfrutta l’immagine dell’infanzia denutrita. Si tratta del marketing dei giorni nostri che cozza con i principi della cooperazione e che si presenta come la logica conseguenza del dominio culturale (che diventa politico) a cui la televisione ci ha abituato: un tentativo magro e scadente di smuovere le coscienze celato nel parapiglia degli sms solidali, dei farmaci salvavita abbinati all’acquisto di certi prodotti, del volto sorridente del testimonial che esorta i telespettatori ad essere buoni quanto lui. Così facendo si perdono di vista i valori, la genuinità, subentrano i secondi fini e sfugge la reale posizione della cooperazione auspicata nel libro, perfetta saldatura tra forma e contenuto inserita in una dimensione civica di costruire relazioni. Dimensione civica, ecco il cardine, che è, in ultima analisi, il carattere vincente del testo…’
Ciao Michele,
ho letto, riflettuto e assemblato in un unicum lettura ed esperienza, ora posso risponderti e dare un giudizio concreto alle tue parole. Sono Thomas Festi, ci siamo incontrati lo scorso anno dopo che Gianni Potrich, un nostro comune conoscente ci aveva messo in contatto, perché volevo chiederti dei consigli per riuscire a lavorare nel mondo della cooperazione/solidarietà internazionale (uso i termini in maniera interscambiabile perché secondo me i confini e la netta distinzione tra una e l’altra non sono ben definiti e definibili). In quell’occasione mi hai invitato ad approfondire il tuo libro per restituirti poi un’opinione personale. Ho preferito aspettare e metabolizzare il contenuto con la pratica per cogliere sfaccettature e connotati reconditi nella prassi della solidarietà internazionale (mi sono dato… il tempo). Sarebbe stato presuntuoso e poco professionale restituirti un pensiero condizionato dalle mie esperienze pregresse.
Ho scelto così di portare il tuo testo con me, in quel punto africano che ogni anno mi dà la possibilità di pensare e ripensarmi.
Ho cercato innanzitutto una forma di corrispondenza attiva, tentando di definire il contenuto vivendolo là, direttamente sul campo, poi ho elaborato una rappresentazione riflessiva, in cui ho vagliato le operazioni compiute con il senno di poi, riassumendole in forme di immagini particolari.
Rientrato in Italia ti avevo scritto di getto le mie impressioni, ma le ho archiviate nella memoria della mia posta elettronica. Avrei preferito dartele a mano, ma non c’è stata occasione e oggi credo sia un dovere inoltrartele per riconoscenza e stima.
Quel che mi sento di scriverti in queste righe è un GRAZIE sincero per la grande carica umana che porta, per la nuova consapevolezza che illustra, ma soprattutto per la consolidata fiducia nei giovani in un ambito nel quale occorre, anzi si deve investire. “Darsi il tempo” è un titolo che veicola il contenuto ma, soprattutto, un monito dal principio positivo per chi ha deciso di crederci, investendo le proprie energie.
Sono fermamente convinto che la qualità di un libro è data in larga parte dalla possibilità di fare congetture e rimandi con il proprio mondo personale. Corrispondenza che in un testo narrativo è facilitata dalla natura episodica che lo contraddistingue, ma diventa astrusa e talvolta macchinosa in libri di altro genere. “Darsi il tempo”, invece, non solo permette una perfetta lettura inferenziale capace a connettere tra loro i vari argomenti affrontati, ma spicca anche per un’evidente energia di rinvio che consente di allineare su di uno stesso binario significazione e significanza. L’immagine della cooperazione che descrivi viene plasmata sapientemente in un’effige di professionalità e competenze innanzitutto personali ma diventa anche uno spazio di significanza, attraverso il quale il lettore ne costruisce il senso con gli elementi a propria disposizione che appartengono al proprio bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche. Un titolo chiave, dunque, che si pone come unità in grado di “accendere” i processi di connessione dei significati e che permette di isolare i dettagli per raccontare il tutto.
Anche perché, diciamola tutta, trattando una tematica tanto delicata quanto inflazionata quale la cooperazione internazionale il rischio che si corre è quello di imbattersi nella piattezza da cumulo di stereotipi. Ho preparato esami universitari su manuali che poco hanno saputo restituirmi: un testo che racconta modalità di intervento e pensieri obsoleti in una realtà che dev’essere rivista in termini di dinamismo e rinnovamento, si presenta tedioso e per niente interessante.
Non ti nego che “Darsi il tempo” è il vademecum che porto con me quando mi trovo a confrontarmi con i ragazzi nelle varie scuole, per cercare di suscitare in loro interesse per un ambito che purtroppo a lungo è stato connotato dall’alone fuorviante dell’assistenzialismo o, peggio ancora, vestito di un abito pletorico basato sul marketing impattante che sfrutta l’immagine dell’infanzia denutrita. Si tratta del marketing dei giorni nostri che cozza con i principi della cooperazione e che si presenta come la logica conseguenza del dominio culturale (che diventa politico) a cui la televisione ci ha abituato: un tentativo magro e scadente di smuovere le coscienze celato nel parapiglia degli sms solidali, dei farmaci salvavita abbinati all’acquisto di certi prodotti, del volto sorridente del testimonial che esorta i telespettatori ad essere buoni quanto lui. Così facendo si perdono di vista i valori, la genuinità, subentrano i secondi fini e sfugge la reale posizione della cooperazione auspicata nel libro, perfetta saldatura tra forma e contenuto inserita in una dimensione civica di costruire relazioni. Dimensione civica, ecco il cardine, che è, in ultima analisi, il carattere vincente del testo.
Sto seguendo in qualità di tutor i ragazzi della sesta edizione del Corso “Giovani Solidali” e proporrò loro di leggere il libro, prima e durante la loro esperienza all’estero, per un duplice motivo: sia perché attraverso la metafora del darsi il tempo, che echeggia forte in ogni capitolo, vi è l’evocazione di tante storie e un’unica storia, sia perché ciascuno di loro può sentirsi interprete di quella metafora, che dialogando con ogni singolo vissuto, ne stacca un’evidenza, nota prima solo in modo confuso.
Tale scatto e consapevolezza si è palesata in me durante la realizzazione di un progetto in Kenya: per raccogliere fondi e sensibilizzare il territorio locale abbiamo creato una festa (“Kanga Dei”), da cui è nato un gruppo di persone, quasi esclusivamente ragazzi, che con la “scusa della solidarietà internazionale” hanno creato comunità. Quindi il progetto si è trasformato in una relazione tra la comunità keniana e la nostra comunità trentina, concretizzando un’entità che rende reale il vero significato del termine cooperazione.
Ho un’unica osservazione da farti che nasce dalla mia volontà di capire appieno il tuo pensiero e che si basa sulla mia esperienza personale: come credi sia fattibile, in alcuni contesti sociali particolarmente difficili, dare il via ad un processo virtuoso di coinvolgimento e partecipazione della comunità (sia nel contesto territoriale di origine che nel contesto della “controparte”), senza programmare un progetto iniziale utile a porre le basi per una cooperazione tra comunità? In breve sintesi, non credi siano necessari dei facilitatori (spesso individuabili nelle organizzazioni non governative) che inizino a lavorare nel piccolo per poi replicare l’intervento ad ampio spettro tramite il coinvolgimento e la presa in carico della cittadinanza?
Questo è tutto Michele, mi piace salutarti rispondendo alla domanda posta da Tonino Perna nella prefazione: SÌ UN’ALTRA, ANZI L’ALTRA COOPERAZIONE È POSSIBILE, OCCORRE CREDERCI, TENENDO SEMPRE PRESENTE QUAL È IL SENSO.
Ringraziandoti ancora, spero di vederti presto. Un caro saluto
Thomas
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Scusami Thomas, certo che mi è arrivata e ti ringrazio di cuore per le considerazioni che hai scritto sul nostro lavoro (mio e di Mauro Cereghini). Considerandola uno stimolo alla riflessione (e alla lettura) mi sono permesso anche di metterla sul mio blog. Mi sembra che tu abbia colto in pieno il senso di quel che volevamo dire. Quanto alla tua domanda, ti posso rispondere così: non ci sono regole, la relazione inizia per caso, grazie ad una richiesta di aiuto, oppure ad un immigrato che ti parla del suo paese d’origine, all’interesse verso un’area difficile e problematica, ad un libro che racconta un episodio… Per quanto mi riguarda la relazione deve intercettare una ragione di carattere politico culurale, la curiosità di immergersi in una contraddizione che avverto vicina, il valore che può assumere uno sguardo su una determinata realtà… Ma in realtà la relazione è un pretesto per guardare il proprio territorio con occhi diversi e per connetterlo con il villaggio globale.
Farebbe anche a me piacere rivederti.
Michele