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La Caporetto del pensiero razionale. Una lettura pratico-filosofica della pandemia

Quando il “non sapere” è un fatto

Iniziamo dunque l’analisi da un dato ben noto, ma che spesso viene dimenticato o lasciato comunque sullo sfondo: la pandemia Covid-19 è una malattia della quale, al momento della sua origine, non sapevamo nulla, in quanto causata da un virus di nuovo tipo – il Sars-Cov-2 – del quale anche i più preparati ed esperti scienziati potevano dire solo poche cose, perlopiù ipotetiche e basate sulle sue possibili analogie con altri virus più noti appartenenti alla stessa famiglia [1]. Oggi, dopo quasi un anno dall’esplosione del contagio in Cina, ne sappiamo certo qualcosa in più, ma le conoscenze certe sono pochissime e limitate ad aspetti elementari perché – come sa chiunque conosca un po’ il funzionamento della scienza, ma come comunque suggerisce il buon senso – per avere conoscenze più solide, certe, “scientifiche” su un fenomeno di questo genere serve molto più tempo di raccolta ed elaborazione dei dati.

Filosoficamente parlando, questo fatto rende il Covid-19 un tipico esempio di thauma, di fenomeno inquietante che esorbita la nostra capacità di conoscere, valutare, scegliere e operare, di fronte al quale perciò non abbiamo risposte fondate da dare e per il quale il solo atteggiamento razionale e ragionevole è il socratico “so di non sapere”: partire cioè dalla consapevolezza della nostra ignoranza sia per cercare di progredire, sia per prendere le indispensabili decisioni concrete, evitando cioè di poggiarle su “false credenze”. In altre parole, la pandemia era (e in larga parte rimane ancora) una situazione ideale per l’esercizio di quella saggezza filosofica che Gerd Achenbach, il filosofo che ha dato vita alla consulenza filosofica, ha chiamato Lebenskönnerschaft, «capacità di saper vivere»[2]: un atteggiamento consistente nel vivere l’incertezza sospendendo ogni presa di posizione e assumendo decisioni basandosi solo ed esclusivamente sulle scarsissime conoscenze certe disponibili, adeguandole di volta in volta, con mutamenti anche significativi, ai dati esperienziali prodotti dall’evolversi della situazione e dal costante interrogarsi sulle possibilità future di convivere con lo sgradito e incomprensibile fenomeno che produce il thauma.

Non ci vuol molto per rendersi conto che gran parte dei cittadini, almeno del nostro Paese, non ha minimamente assunto questo tipo di atteggiamento e che, anzi, paradossalmente esso è stato assunto (almeno in certa misura) solo dalle tanto vituperate istituzioni governative [3]. Le quali, pur tra errori e discutibili dettagli, hanno basato la loro strategia sui pochi dati disponibili e hanno perlopiù evitato di fare “fughe in avanti” basate su speranze e interpretazioni del fenomeno “originali” o poco condivise dalla comunità scientifica [4]. L’opinione pubblica, ma anche la politica e una parte degli “esperti”, nei tre mesi di quella che fin qui è da considerarsi la fase più intensa della pandemia hanno viceversa dato vita a un continuo, mutevole e conflittuale schierarsi per l’una o per l’altra delle molte “interpretazioni” del fenomeno, spesso senza curarsi né del loro fondamento, né della qualità degli argomenti portati a sostegno, a dispetto del sostenerle con grande decisione e non minore spregio di chi ne affermasse altre. Proviamo ad analizzare questo fenomeno.

Un atteggiamento razionale disatteso

Come detto, le conoscenze condivise e confermate dalla comunità scientifica sul virus che è alla base della pandemia, il Cov-Sars-2, erano e restano ancor oggi pochissime. In breve potremmo ridurle più o meno a quanto segue:

– appartenenza alla famiglia dei coronavirus, senza che ciò possa permettere di stimarne la somiglianza quanto a caratteri specifici;

– forte contagiosità (prossima a quella, elevata, della normale influenza);

– trasmissione per prossimità, attraverso le goccioline emesse con l’espirazione;

– elevata dannosità della malattia (nella prima fase del contagio circa il 20% dei casi sintomatici necessitavano di cure ospedaliere, circa il 10% di terapia intensiva);

– elevata mortalità in età superiore ai 60 anni, elevatissima sopra ai 70;

– bassa mortalità e dannosità in età inferiori ai 50 anni, bassissima sotto ai 30;

– diminuzione di mortalità e dannosità dopo una prima fase ad alta intensità.

Questi dati raccolti sul fenomeno già alla sua esplosione in Cina, sono stati rapidamente confermati – pur con percentuali variabili a seconda delle zone – negli altri Paesi ove la malattia ha progressivamente preso piede. Accanto a queste conoscenze – certo da aggiornare strada facendo, come è prassi in ogni situazione di progressiva esplorazione di fenomeni ignoti, ma pur sempre le sole accertate e condivise – ne rimanevano (e rimangono) del tutto indeterminate altre, di fondamentale importanza per qualsivoglia assunzione di ben fondate interpretazioni del fenomeno, quali per esempio le seguenti:

– tempi di vitalità e/o aggressività (importanti per l’urgenza della prevenzione);

– mutabilità (importante per l’eventuale messa a punto di cure e vaccini);

– resistenza alle variazioni climatiche;

– esistenza di cure (sia capaci di guarire, sia solo di alleviare la malattia);

– esistenza (e persino possibilità) di vaccini;

– cause della diseguale incidenza del virus in zone geografiche diverse;

– cause delle oscillazioni della sua nocività al passare del tempo;

– tempi necessari al raggiungimento di conoscenze certe.

Alla luce della razionalità scientifica, ma anche della ragionevolezza pragmatica, si vede bene come una situazione di questo tipo non permettesse (né permetta oggi) alcun tipo di presa di posizione e di intervento tecnico-strategico ben fondato: le strategie tecniche si basano infatti su conoscenze scientifiche consolidate, cioè confermate da prove ripetute e verificate da una parte importante della comunità scientifica internazionale. Era di conseguenza doverosa e inevitabile l’assunzione di un atteggiamento interlocutorio e guardingo, procedurale, fatto di decisioni necessariamente incerte e provvisorie, pronte a mutare in funzione dei loro stessi risultati e degli eventuali nuovi dati acquisiti “nel corso dell’azione”. Sempre ricordando che una conoscenza sufficientemente stabile e globale non poteva che richiedere un tempo superiore a quello necessario al contenimento dei danni prodotti dal fenomeno.

Per gli amministratori pubblici, preposti a prendere decisioni sociali e sanitarie per fronteggiare il problema, questo comportava l’avere a disposizione una sola possibilità razionale: l’esercizio del cosiddetto principio di precauzione, tramite l’applicazione di misure atte a contenere la diffusione del contagio, con l’arbitrio politico di decidere priorità e bilanciamento dei molteplici valori da salvaguardare – le vite umane dei cittadini, la libertà di scelta di tutti i loro comportamenti individuali, il tessuto economico, eccetera. Né si può negare che proprio questo sia ciò che esse hanno fatto, in Italia e all’estero (tranne rari casi e pur con qualche modesta differenza), mettendo decisamente al primo posto (almeno nella fase più rigida) la salvaguardia delle vite umane e ascoltando le indicazioni di profilassi che provenivano dalla scienza.

Per la comunità scientifica, preposta a ottenere, nei modi e nei tempi suoi propri, una maggiore conoscenza del fenomeno e un appropriato apparato tecnico per fronteggiarlo, il quadro descritto comportava invece la prosecuzione della ricerca, notoriamente lunga da percorrere, magari dedicandovisi con particolare urgenza e intensità, fornendo al tempo stesso alle amministrazioni tutti gli aggiornamenti importanti conseguiti; non comportava invece il dedicarsi alla comunicazione mediatica e men che meno social-mediatica, banalmente perché essa non aveva nulla da comunicare, neppure i dati raccolti in itinere, che riguardano più la statistica che non la scienza. Ma così non è stato, o – più precisamente – non lo è stato per tutti i membri della comunità scientifica, perché troppi “esperti” hanno a ripetizione esternato le proprie letture del fenomeno, tutte immancabilmente mere ipotesi, tutte da verificare e confermare (quindi non scientifiche), che invece sono state spessissimo scambiate per “scienza” [5].

Per tutti gli altri cittadini, inclusi anche i politici, quel quadro comportava solo il dovere di vigilare con spirito critico sul modo in cui gli amministratori affrontavano la vicenda, tenendo presente l’assenza di conoscenze certe e perciò da un lato badando ai dettagli senza né assumere, né propugnare posizioni che neppure la scienza aveva i mezzi per avallare, dall’altro usando una sorta di “principio di carità” [6] (speculare a quello di precauzione), il quale – in assenza di conoscenze certe e perciò risultando inevitabili gli errori – imponeva un’insolita tolleranza per chi – il governo e le istituzioni – si trovava nella necessità di decidere giocoforza “alla cieca”. Viceversa, alimentato anche dalla ridda di ipotesi diffusa irragionevolmente da alcuni “esperti” in cerca di visibilità, il dibattito pubblico e quello politico hanno costantemente travalicato questi limiti e si sono trasformati in polemici, irrazionali e conflittuali battibecchi tra sostenitori di posizioni tutte quante parimenti infondate e non scientifiche.

Comportamenti e dibattiti razionali

In sintesi, l’attuazione di un atteggiamento razionale di “non sapere” si può riassumere in un elenco di cose che avrebbe avuto senso fare, coniugate in modo adeguato ai ruoli dei diversi attori:

– non assumere, né propugnare alcuna posizione;

– esercitare il principio di precauzione;

– lasciare alla scienza (quella vera, comunitaria) il tempo per lavorare;

– vigilare sulle misure precauzionali, con un surplus di clemenza riguardo agli errori;

– rimandare ogni “ricerca del responsabile” a dopo l’emergenza;

– essere autocritici, cercando anche di capire quanta della foga critica fosse frutto delle proprie ansie e frustrazioni;

– approfittare del tempo regalato – perché tutti ci lamentiamo della mancanza di tempo per noi o per occuparci di cose escluse dalla quotidianità, e il confinamento, le misure che limitavano spostamenti o la soppressione di eventi pubblici ci fornivano l’occasione per averlo;

– immaginare e progettare un futuro, individuale e politico, diverso dal passato, alla luce sia della possibilità (ancora non esclusa) che si dovesse convivere molti anni con il virus, sia della pessima normalità da cui provenivamo.

Ovviamente, per fare la loro parte nella fase “dinamica” del fronteggiamento della pandemia – ovvero rispettivamente per aggiornare le misure precauzionali e per vigilare sulla loro adeguatezza – rappresentanti istituzionali e cittadini avrebbero dovuto tener conto dei dati raccolti in progress relativi alla sua evoluzione, all’impatto avuto dalle diverse misure prese nei vari Paesi colpiti, alle limitate conoscenze apprese e messe a punto in corso d’opera dalla scienza riguardo al virus e ai farmaci che potevano affievolirne la forza, ecc. Con l’accortezza tuttavia di limitarsi a raccogliere quelli validi, congrui e utili, quali per esempio:

– il numero dei contagiati, necessari per capire le variazioni di intensità di diffusione della malattia;

– il numero dei casi gravi, utili per valutare la capacità del servizio sanitario di farsi carico dei malati (che nella prima fase era il principale problema);

– il numero dei morti, necessari per comprendere il rischio per le vite umane;

– il fattore R0, utile per stimare nell’immediato futuro l’evoluzione del contagio;

– i confronti tra aree omogenee (densità di popolazione, stili di vita, intensità dei focolai iniziali, ecc.), utili per stimare l’efficacia delle diverse strategie di profilassi attuate;

– le statistiche per età, utili per valutare le fasce più a rischio ed eventualmente calibrare le misure.

Valutando i mutamenti di questi parametri, le amministrazioni avrebbero dovuto rimodulare in corso d’opera le misure di profilassi, così da poter tener meglio conto anche degli altri valori in gioco, in primo luogo quello economico e quello della libertà dei cittadini. Dal canto loro, i cittadini stessi avrebbero dovuto far riferimento a questi soli dati validi e pertinenti per valutare criticamente le scelte delle amministrazioni e richiedere eventuali adeguamenti.

Cos’è invece accaduto

Come già accennato, le cose sono andate in modo piuttosto diverso. Riassumendo brevemente, se le amministrazioni pubbliche hanno nelle linee generali attuato l’atteggiamento più razionale, accantonando ogni interpretazione non ben fondata e applicando il principio di precauzione, alcuni scienziati si sono lasciati andare a esternazioni di quelle che erano solo loro personali ipotesi, confondendo un’opinione pubblica turbata dalla situazione e favorendo la degenerazione del dibattito pubblico, cosicché i cittadini hanno largamente mancato di rispettare i limiti di un atteggiamento accorto richiesto dall’ignoranza della scienza sul tema e hanno dato vita a scontri tra fazioni, nessuna delle quali aveva la minima legittimazione scientifica. Nel fare questo, tutti i soggetti in gioco hanno usato argomenti impropri e dati infondati, imprecisi o semplicemente inutilizzabili per ragioni logiche o tecniche, quali per esempio:

– le esternazioni dei singoli “esperti”, che in una condizione di ignoranza scientifica generalizzata avevano (al massimo) il valore di ipotesi per la ricerca, inutili per la decisione di strategie e per l’orientamento dei cittadini;

– i confronti tra aree disomogenee, le quali – influenzate da molti fattori non esplicitati e di incidenza non nota, come l’intensità dei focolai di partenza, la densità di popolazione, le condizioni climatiche, gli stili di vita, ecc. – avevano forza dimostrativa quasi sempre nulla [7];

– le valutazioni sui dati rilevati dopo le misure, che (al massimo) possono dare un’idea dell’efficacia di queste ultime, ma non dicono niente su altre cose – per esempio sullo stato di vitalità del virus o sulla sua decadenza con il cambio stagionale;

– ogni dato, diagramma o confronto privo delle fonti ben specificate, dei sistemi di rilevamento, ecc.;

– ogni opinione o articolo mal argomentati (ovvero facenti uso di dati inutilizzabili, ipotesi non confermate o perfino paralogismi e inconseguenze), anche quando provenienti da “esperti” [8].

Questo genere di dati inadeguati o inopportuni è proprio ciò che è stato costantemente utilizzato dai media, sui social media e perfino da politici ed esperti in cerca di visibilità, con il risultato di produrre un dibattito pubblico privo di ogni logica. Ad aggravare la situazione, poi, l’abitudine diffusa a confrontarsi sulla base del conflitto tra schieramenti [9], tipico del dibattito politico, che ha fatto sì che alle obiezioni sulla fondatezza di un dato si rispondesse perlopiù o con l’ostensione di altri dati altrettanto inadeguati (ma apparentemente supportanti la fazione), o con la denigrazione dell’interlocutore, soprattutto quando fossero in discussione le misure assunte dal Governo.

Tra gli argomenti ricorrenti, talvolta avanzati e rielaborati anche da intellettuali di un certo prestigio, merita forse soffermarsi su alcuni.

La “paura di morire” indotta dai media

Uno dei più diffusi argomenti inconsistenti sosteneva che l’accettazione delle misure di limitazione dei contatti interpersonali imposte dalle amministrazioni fosse motivata dalla paura di morire provata dai cittadini a causa di un mirato lavoro di persuasione allarmista svolto dai media. Pur trovando apparentemente fondamento nel modo effettivamente “urlato” in cui i media presentano le notizie, l’argomento è facilmente confutabile, perché la paura è un’emozione che si manifesta con stati fisici (alterazione dei battiti cardiaci, tensioni muscolari, sudorazione, ecc.) che erano assai raramente presenti nei cittadini nei momenti di esposizione (code ai negozi, incontri per strada), oppure con manifestazioni esteriori, quali invocazioni d’aiuto o altre esternazioni, anch’esse assenti. Non appare improbabile che a Codogno, Vo’ Euganeo, Alzano Lombardo o Bergamo si potessero rilevare a marzo e aprile anche manifestazioni di autentica paura, non provocato però tanto dall’allarmismo dei media, quanto dal costante suono di sirene di ambulanze e dalla presenza di malati gravi o di morti in quasi ogni famiglia. Se si eccettuano gli abitanti di queste zone nell’occhio del ciclone della pandemia, la grande maggioranza dei cittadini non mostrava tuttavia di aver “paura”: aveva solo alzato la normale soglia dell’attenzione atta a salvaguardare la propria salute, allo stesso modo in cui la si alza nell’attraversare la strada quando il traffico sia molto intenso, o nel cibarsi se ci si trova in un Paese straniero con microrganismi endemici di nota pericolosità. Paradossalmente, a manifestare paura sono stati invece proprio coloro che lanciavano alti lai contro le misure, manifestando in strada contro la presunta deriva totalitaria e quella che ritenevano negazione dei loro diritti, mostrando con tali esternazioni la paura di cambiare i propri stili di vita. Una paura confermata anche dall’argomento seguente.

Vivere come morti per paura di morire”

Questo argomento è stato presentato in varie forme, la più nota delle quali è quella della “nuda vita” proposta dal filosofo Giorgio Agamben [10]. In generale, l’argomento poggia su due basi, entrambe fallaci: la prima è l’esistenza di una diffusa “paura di morire”, la cui falsità abbiamo visto sopra; la seconda, che l’adozione delle misure di prevenzione renda l’esistenza non degna di essere vissuta. Quest’ultima cosa è ampiamente confutata dal fatto che non pochi cittadini hanno addirittura goduto del periodo di forzato isolamento come di una riposante vacanza dal non meno forzato stress imposto dalla precedente “normalità”. Inoltre, è del tutto arbitrario affermare che una qualche forma di vita sia indegna di essere ritenuta “vera vita”, sia perché la decisione su questo tema è largamente soggettiva, sia perché l’esistenza è comunque un continuo mutamento e l’uomo ha tra i suoi caratteri più importanti proprio la capacità di adattarsi ai cambiamenti valorizzandone gli aspetti migliori e così compensandone quelli sgraditi.

La filosofica “capacità di saper vivere”, menzionata in apertura, si basa proprio su questa flessibilità creativa, capace di rendere avvincenti sfide anche le più spiacevoli avversità. Affermare, come è stato fatto da molti, che le limitazioni (di fatto modestissime e, per giunta, transitorie) imposte per la profilassi rendessero l’esistenza una “vita da morti” è o un argomento retorico davvero di bassa lega, o un’opinione di parte, certo legittima, ma da un lato fortunatamente minoritaria, dall’altro segnale di una concezione della vita stessa rigidamente dogmatica, priva di curiosità e di disponibilità alla novità, infine anche piuttosto elitaria, visto che gli spazi di libertà che comunque rimanevano al netto delle misure erano enormemente più ampi di quelli disponibili oggi a molti esseri umani che vivono in luoghi del mondo meno comodi e piacevoli di quelli in cui viviamo noi, e anche di gran parte dei nostri progenitori.

Il golpe illiberale

Un altro argomento retorico basato su una fallacia è quello, usatissimo, del golpe illiberale che sarebbe stato messo in atto – dal governo, dal potere internazionale, dalle lobby economiche, la varianti sono molte – attraverso l’applicazione di misure che avrebbero minato libertà fondamentali. Ora, tutto questo è semplicemente falso, visto che le misure: a) erano pro tempore; b) erano varate all’interno di una situazione d’emergenza dichiarata in modo del tutto regolare; c) erano coerenti con quanto fatto in altri Paesi, pur con modalità in parte diverse; d) mettevano in gioco princìpi e diritti neppure così “fondamentali”; e) erano ampiamente giustificate da una situazione sanitaria la cui palese gravità era riconosciuta in tutto il mondo. Persino la presunta violazione istituzionale a un certo punto sollevata (legata a provvedimenti per i quali non sarebbe stato sufficiente il tipo di decreto usato, il famoso “dpcm”) era dubbia e comunque sotto controllo della Corte Costituzionale e del Presidente della Repubblica. Anche in questo caso, dunque, pur con la giusta attenzione critica che i cittadini devono avere per controllare l’operato del Governo, l’argomento non giustificava in alcun modo l’uso che ne è stato fatto: non c’era alcun golpe, né aveva senso di parlare di “illiberalità” per limitazioni parziali, temporanee e giustificate dagli eventi.

Il complotto

Quello del complotto non è un argomento, ma moltissimi, tutti diversi e spesso in contrasto tra loro. Le teorie del complotto (o della cospirazione) sono quanto di più irrazionale, antiscientifico e superstizioso possa pensarsi, a prescindere dal fatto che talvolta possano anche cogliere nel segno: da Popper a Umberto Eco, sono moltissimi quelli che ne hanno dimostrata l’inconsistenza. In genere, questo tipo di teorie esplicative vengono create attorno a figure che già prima dell’evento erano considerate negativamente dai loro autori; hanno perciò la principale funzione di trovare un colpevole, sfogando contro questi la frustrazione per una situazione spiacevole e che non si sa fronteggiare, ma nel contempo distolgono attenzione ed energie che sarebbero meglio impiegate cercando di comprendere funzionalmente l’evento che vorrebbero spiegare. In questa occasione, per giunta, tali teorie erano anche perlopiù fuori luogo: per esempio, che il virus sia stato originato da uno spillover (passaggio naturale da un animale all’uomo), come succede regolarmente per i virus e come dice la scienza pressoché all’unanimità [11], o che sia stato invece creato in laboratorio e poi liberato dai cinesi, dagli statunitensi, dai russi o dalla Spectre, per i nostri fini – contenere i danni e superare la pandemia – non ha alcuna rilevanza e dedicarsi a speculare su questo fa solo perder tempo.

Le teorie della cospirazione non hanno però riguardato solo l’origine del virus, ma anche le intenzioni di chi lo avesse prodotto; alcune versioni sostenevano infatti che la sua creazione (per alcuni mera “invenzione”, perché esso neppure esisterebbe) fosse dovuta a interessi personali: quelli di Bill Gates, per i vantaggi che ne avrebbero l’informatica e le sue aziende farmaceutiche; quelli di Big Pharma, interessata ai vaccini; quelli del potere politico, per la possibilità di imporre un “regime” ai cittadini; e via dicendo. A parte il problema metodologico di cui sopra (peraltro già decisivo), nessuna di queste “teorie” sta in piedi neppure induttivamente, poiché nessuno dei presunti ideatori della “truffa” avrebbe avuto reale interesse a perpetrarla, trattandosi sempre di soggetti già ampiamente avvantaggiati e con tutte le possibilità di accrescere il proprio potere senza bisogno di “costruire” un evento di questo genere. Non a caso i sostenitori di queste teorie sono da ultimo costretti a ipotizzare un obiettivo più alto – il “controllo totale” – che non si capisce né cosa sia, né perché i “grandi vecchi” vogliano ottenerlo, a meno di non scivolare nel romanzo gotico ipotizzando, appunto, la Spectre.

La persecuzione dei bambini

Un ulteriore argomento, tra i tanti utilizzati nel dibattito critico verso le misure adottate, è la cosiddetta “persecuzione dei bambini”, dovuta al fatto che il lockdown impediva anche ai più piccoli di uscire a giocare o incontrare gli amici. Qui la retorica è forse più palese che in altri casi, visto che, per commuovere maggiormente, si concentra artatamente sui più piccoli, pur avendo a oggetto le misure in generale. E, per obiettare, adotta i più biechi luoghi comuni sui presunti e abusati “diritti dei bambini”: non c’è infatti alcuna ragione per ritenere che due mesi di isolamento dai loro amici, ma in compenso con la presenza costante dei genitori di solito così assenti, abbia nuociuto ai giovanissimi; al contrario, sarebbe il caso di riflettere sul potere educativo di un’esperienza quale quella vissuta in quel periodo, anche a fronte del fatto che il principale limite della formazione ordinariamente loro somministrata è proprio quello di avere così poche occasioni di imbattersi in limiti e privazioni, che hanno il potere da un lato di temprare le loro sfere emotive, dall’altro di far sviluppare le loro capacità ideative (niente, infatti, può farlo meglio dell’imbattersi in difficoltà). Più che di “persecuzione”, per quel periodo di restrizioni si potrebbe invece parlare di “educazione”.

Deve essere la politica a decidere, non la scienza

Questo è forse uno degli argomenti retorici su cui si è maggiormente esercitata la manipolazione. L’accusa rivolta al Governo era quella di delegare le decisioni alla scienza (a seguito dei frequenti, e perlopiù corretti, riferimenti alle indicazioni fornite dai comitati medico-scientifici) invece di far valere il potere della politica. Solo che questa delega non c’è mai stata: il Governo italiano, così come quelli di quasi tutti i Paesi del mondo, prima ha preso una decisione politica – ponendo al primo posto la salvaguardia delle vite dei cittadini, anche a scapito dei loro stili di vita o delle conseguenze economiche – e solo dopo si è consultato con gli esperti per attuarla nel modo migliore possibile. La scienza è dunque stata sempre al servizio della politica e chi lo abbia negato ha mentito solo per catturare il consenso di chi non gradisse la scelta politica. Per contestare correttamente le misure (cosa più che legittima) avrebbe invece dovuto mettere in discussione la priorità della decisione politica – la salvaguardia delle vite umane – e, come ha fatto in Brasile Bolsonaro, sostenerne una diversa: per esempio che un certo numero di anziani potesse essere sacrificato al futuro benessere economico del Paese o alla libertà di spostamento e incontri sociali degli altri cittadini [12]. Se ciò non è stato fatto è perché, nella sua forma più chiara e diretta, una tale presa di posizione sarebbe andata incontro a conflitti etici non da poco – può essere moralmente sostenibile barattare vite umane, anche di persone non più giovani, con l’opulenza materiale dei sopravvissuti? – e per questo è stata sostituita dall’argomento, falso ma retoricamente più efficace, dell’abdicazione della politica alla scienza.

I dati parlano chiaro”

Un altro argomento sul quale merita soffermarsi è quello, costruito in mille modi diversi, che faceva leva sui “dati”. E qui siamo all’apice della non consequenzialità e del paralogismo, perché i dati impiegati erano quasi sistematicamente inadeguati a dimostrare alcunché in quanto, come detto sopra, parziali, provvisori, mancanti di elementi decisivi, riferiti a zone disomogenee, privi delle fonti, relativi a segmenti di tempo troppo brevi o troppo lunghi, e via dicendo. È interessante notare come a ogni confutazione di un dato facesse immediatamente seguito l’ostensione di altri dati altrettanto inadeguati, senza né il riconoscimento dell’errore, né spiegazioni, né alcun ripensamento sulla tesi sostenuta: insomma, la ricerca e la presentazione dei dati avevano il solo fine di sostenere una tesi già presa a prescindere e in nessun modo confutabile da dati contrari. La non scientificità dogmatica realizzata.

Le verità dello scienziato “non mainstream

L’ultimo argomento retorico fallace su cui ci soffermiamo (ma se ne potrebbero aggiungere molti altri) è quello basato sull’autorità di fonti ed esperti scelti a piacere e sostenenti “verità scientifiche” diverse da quelle condivise dalla comunità scientifica, perlopiù definite sprezzantemente mainstream. L’argomento viene spesso supportato dalla tesi (basata sulla teoria della cospirazione) che la “scienza” non sia altro che una “casta” dove regna chi difende gli interessi delle multinazionali (nella fattispecie quelle farmaceutiche) a danno dei cittadini. Una forma mentis che va oggi per la maggiore, che ha (purtroppo) alcuni appigli nel funzionamento del sistema economico [13], ma che ignora da un lato cosa sia la scienza, dall’altro cosa la differenzi dal sistema economico che funge da presunta “prova”.

La scienza, infatti, è opera intersoggettiva e perciò non riconducibile ai singoli, che al massimo sono portavoce della ricerca comunitaria; laddove vi siano divergenze, sta all’intera comunità scientifica accertarle e, finché ciò non avvenga, il parere dello scienziato isolato o della corrente minoritaria rimangono “non scientifici”. Non è questione di democrazia – il vero non è funzione dell’opinione della maggioranza – bensì di procedure di controllo, quelle che permettono appunto di definire “scientifica” una conoscenza: finché questa non sia stata testata e accettata da un’ampia parte della comunità, non può essere definita tale. Parteggiare per l’ipotesi non accertata ha senso (è razionale) per chi sia scienziato e possa, con le sue ricerche, contribuire a darle ulteriori conferme (o confutazioni), non lo ha invece per chi scienziato non sia, perché per questi la voce dello scienziato isolato è solo una mera opinione senza fondamento e la sua applicazione a decisioni concrete è del tutto irrazionale. Da questo punto di vista, avere per riferimento uno scienziato invece di un altro (una fonte invece di un’altra) è del tutto illegittimo; più precisamente, è una ricaduta all’indietro nel pensiero mitologico, dove il garante del vero era l’autorità, era un individuo (la divinità, l’eroe), mentre nella scienza il vero “sta in piedi da sé” (episteme) grazie al discorso verificato dalle prove comunitarie.

Va aggiunta a questo l’aggravante che gran parte delle opinioni private dei singoli scienziati citati a sostegno erano, come detto, zeppe di contraddizioni, paralogismi e attacchi personali [14]: un esempio tipico sono le dichiarazioni contro le mascherine, tacciate di inutilità attiva (non protegge cioè chi le indossa), laddove tutti avrebbero dovuto sapere che la loro utilità è principalmente passiva (schermano, e molto, l’emissione delle famose “goccioline” che trasmettono il virus, impedendone la diffusione), e di dannosità per le vie respiratorie, in realtà quasi inesistente (come dimostrato dal loro ordinario uso da parte di un significativo numero di operatori in ospedali e opifici). Ma questo rientra nelle fallacie trattate in precedenza e ha senso menzionarlo solo perché segnala una volta di più che gli scienziati isolati, uscendo dal loro ruolo di competenza (la ricerca), hanno mostrato ripetutamente di svolgere malissimo quello di “informatori”.

Il cortocircuito del discorso argomentato

Giunti a questo punto è doveroso chiedersi come possa spiegarsi una simile Caporetto del pensiero razionale – e anche di quello, più banalmente, “ragionevole”. Messa da parte la risposta in termini di malafede (che peraltro in alcuni casi non è probabilmente da escludere, in parte o in toto), la spiegazione più immediata e plausibile è quella dell’avvenuto sopravvento dell’emotività, ovvero – per riprendere una famosa distinzione di Ignacio Matte Blanco [15] – della “logica dell’emozione” sulla “logica della ragione”: se quest’ultima analizza la realtà distinguendo le differenze e permettendo in tal modo di dividere i pregi dai difetti e i fondamenti validi dalle conseguenze spiacevoli, favorendo in tal modo una scelta ponderata, la prima viceversa, spinta dall’emozione prodotta da un evento fortemente sentito, unisce tutto quanto e, producendo un vero e proprio cortocircuito del discorso argomentativo, fa scegliere “di pancia” cancellando l’importanza delle ragioni valide. Non importa più, dunque, se mancano consequenzialità e coerenza, pertinenza e fondamenti: tutto ciò che va a vantaggio della salvaguardia del valore emotivamente percepito viene ritenuto valido.

Le emozioni in gioco nei cortocircuiti argomentativi di questi tre mesi sono riconducibili all’ansia destata da stili di vita ritenuti personalmente inaccettabili o difficili da affrontare e da prospettive future ritenute dannose. Ne possiamo schematizzare alcune.

Ansia per il danno economico

È la motivazione più comprensibile e finanche giustificabile, almeno nei casi più “estremi”: precari, lavoratori “a prestazione”, liberi professionisti, artisti, operatori del turismo, ristoratori e molte altre categorie si sono ritrovati inopinatamente senza reddito e con pesanti dubbi riguardo a quando e persino se avrebbero potuto tornare a percepirne uno. In questi casi è possibile, anzi molto probabile e comprensibile, che il turbamento possa portare a cortocircuitare il ragionamento. Meno giustificato che questo cortocircuito sia durato a lungo (le emozioni sfumano e, con il tempo, si dovrebbe tornare a esser lucidi), e anche l’ansia di chi fosse preoccupato solo di una diminuzione dello stato di benessere materiale – cosa che peraltro valeva un po’ per tutti – magari potendo contare anche su risparmi o altri tipi di ammortizzatori. Resta tuttavia vero per ogni categoria che le risposte a un problema reale andavano cercate altrove e non nella negazione della gravità della situazione o della validità delle poche cose che si potesse fare per contenerla, per quanti danni economici potessero seguirne. Risposte che potevano ben essere pensate, progettate e messe in atto, ma che quasi nessuno ha impiegato il tempo concesso dalla pandemia per cercare.

Incapacità di passare un periodo di solitudine

Altra motivazione diffusa e comprensibile è quella dell’inquietudine legata alla difficoltà di passare un periodo relativamente lungo in compagnia di se stessi o dei soli familiari. La comprensibilità della motivazione, legata al fatto che l’uomo è un animale sociale e necessita anche affettivamente di relazioni con i propri simili, non esime però da una riflessione critica, culturale e individuale: le limitazioni di contatti sociali imposte in Italia e all’estero non equivalevano alla segregazione a tempo indeterminato su un’isola deserta a mo’ di Robinson Crusoe, ma lasciavano ampi spazi di relazione sia a distanza (una chiacchierata per telefono o via skype è certo più “sociale” di certe uscite con amici durante le quali non si scambia una conversazione degna di questo nome), sia diretta (non erano poche le persone che, per questa o quella commissione, uscivano anche tutti i giorni). Non solo: merita anche chiedersi che tipo di vita faccia usualmente chi, in situazioni d’emergenza quali quelle che abbiamo vissuto, non sia in grado di starsene con se stesso o, peggio, con il coniuge, i figli, i genitori per due mesi senza sentirsi privato della libertà o averne ricadute psicopatologiche (come molti hanno ipotizzato lamentandosi delle misure). Di fronte a situazioni di disagio pregresso come queste, è inquietante che ci si preoccupi di rimuovere le misure di limitazione sociale invece che di intervenire sulle condizioni culturali e sociali che rendono le persone così fragili e poco capaci di padroneggiare la propria esistenza.

Paura di cambiare stile di vita

Questa è probabilmente la motivazione più plausibile per spiegare la mancata ricerca di risposte diverse al possibile danno economico conseguente alla pandemia e al confinamento: tali risposte avrebbero infatti fatalmente prospettato un cambiamento del modello di sviluppo e, quindi, degli stili di vita dei cittadini, specie nel malaugurato caso che con una pandemia attiva avessimo dovuto convivere per un tempo indeterminato e medio-lungo; ma cambiare stili di vita – lo sappiamo dalle resistenze da sempre fortissime quando si ipotizza di farlo per ragioni di salvaguardia dell’ambiente o di redistribuzione della ricchezza su scala internazionale – produce su moltissime persone una vera e propria paura, che qui non si deve esitare a definir tale perché comporta spesso reazioni sopra le righe – derisioni, anatemi, vere e proprie accuse [16]. L’idea che si potesse prospettare, anche temporaneamente, una quotidianità priva di bar e discoteche, partite di calcio e funzioni religiose, assembramenti di folla e viaggi in aereo è parsa ad alcuni spaventosa, tanto da far scattare il cortocircuito dell’argomentazione non solo in semplici cittadini, ma anche in pensatori di un certo livello.

Paura di cambiare pensiero

In questo caso siamo di fronte a una variante del cambiamento di stile di vita, anzi in un suo complemento. L’uomo, anche in ragione dei suoi limiti di tipo fisico, tende a economizzare i modelli di pensiero con i quali interagisce con il mondo, privilegiando i più funzionali e cercando poi di conservare la realtà nella forma che gli permetta di usare esclusivamente quelli. Ciò implica però una difficoltà a cambiare modelli, che si fa più forte quanto maggiore diventa l’abitudine a usarli, anche in considerazione della cultura dominante, statica e a prevalenza innatista, la quale spinge a considerare identitari i modelli di pensiero che abbiamo già in uso. Cambiare pensiero, perciò, può essere ancor più spaventoso del cambiare stili di vita. Lo si è visto tutte le volte che qualcuno (pochi, peraltro) ha prospettato la possibilità di pensare un mondo diverso, nel quale mutassero anche i diritti, i doveri, le interpretazioni degli eventi: non solo è stato perlopiù ignorato, ma i pochi che l’hanno preso in considerazione lo hanno fatto solo per esprimere disprezzo e irrisione. La “normalità” perduta, a dispetto dei suoi riconosciuti difetti e perversioni, era l’unica cosa che interessava ritrovare.

Incapacità di cambiare “ruolo”

Quest’ultima motivazione è anch’essa legata alle precedenti e, in particolare, è un’estensione della paura di cambiare pensiero, nella misura in cui questo è da un lato un aspetto dell’identità personale, dall’altro parte integrante del ruolo ricoperto socialmente. Lo si è visto bene in alcuni casi emblematici, riconducibili in generale alla categoria degli antagonisti [17]: identitariamente caratterizzati dal loro contrapporsi al “sistema” e perciò impossibilitati a cambiare il loro ruolo, essi sono stati incapaci di guardare in modo oggettivo il fenomeno della pandemia e le misure prese per contenerla, dal momento che venivano decise proprio da quel “sistema” cui si oppongono. Si è assistito così al cortocircuito argomentativo anche da parte di personalità non da poco della cultura [18], le quali non a caso hanno usato i medesimi argomenti anche quando provenienti da posizioni ideologiche di opposto antagonismo: sovranisti e anarchici, neonazisti e estremisti di sinistra hanno finito per convergere sulle stesse posizioni, senza neppure essere turbati dal fatto che queste fossero le medesime praticate anche da parti sociali e leader politici da essi sempre contestati.

Una cultura con poco pensiero

Le conclusioni di quest’analisi, purtroppo, non possono essere molto positive: la crisi prodotta della pandemia Covid-19 ci ha mostrato una volta di più e in modo particolarmente eclatante che la cultura in cui viviamo, che pure si vanta di essere tra le più avanzate della storia dell’uomo, fa ancora un uso troppo poco incisivo del pensiero. Messi sotto pressione emotiva, com’è accaduto in questi mesi, troppi cittadini perdono la loro capacità di ragionare in modo conseguente – e, con ciò, di autocorreggere la loro reazione emotiva nei confronti degli eventi – cadendo nella superstizione e nel pensiero mitologico. Con molta probabilità ciò non dipende, come spesso si sostiene, da una carenza di “intelligenza emotiva” o di “educazione alle emozioni”, bensì tutto al contrario da una ancor troppo limitata educazione logica e, al tempo stesso, proprio dall’eccessivo valore che si attribuisce alla sfera emotiva rispetto a quella razionale. Due aspetti dell’uomo, questi, che devono interagire equilibrandosi l’un l’altro, ma che viceversa oggi, come ben si è visto in questi mesi, finiscono per collassare nell’annichilimento del pensiero logico per opera della sfera emozionale. È perciò auspicabile che i cortocircuiti del pensiero prodottisi durante la pandemia fungano da monito, fornendo una ragione in più per dare al pensiero maggior valore di quello che oggi gli assegna la nostra cultura e per accrescere l’educazione pubblica a usarlo in modo lucido e rigoroso.

 

* Saggio pubblicato su Dialoghi Mediterranei, Periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo

 

Note

[1] Va forse ricordato che i coronavirus sono migliaia, ma sono poco studiati in quanto perlopiù di bassa dannosità. Uno dei pochi pesantemente dannosi, il Sars-Cov, dette origine nel 2002 all’epidemia denominata Sars, la quale fu studiata individuando anche vaccini, ma che scomparse rapidamente e sorprendentemente del 2004. Dopo Sedici anni la comunità scientifica non ha ancora una spiegazione plausibile per tale scomparsa.

[2] Gerd Achenbach, Saper vivere, Apogeo, Milano 2007.

[3] Con ciò non si vuol sostenere in alcun modo che dette istituzioni abbiano fatto tutto bene.

[4] Una cosa del genere è stata fatta da alcune istituzioni di altri Paesi – per esempio dal leader inglese Boris Johnson e da quello statunitense Donald Trump, peraltro poi precipitosamente tornati sulle loro decisioni pagandone anche un prezzo in termini di diffusione del virus e di vite umane.

[5] Interessante che siano stati proprio coloro che criticano la scienza (per esempio i cosiddetti no-vax) a scambiare per “scienza” quelle che invece erano solo opinioni personali di individui che di professione fanno gli scienziati, cosa che evidenzia come gli antiscientisti manchino in primo luogo della comprensione di cosa sia la scienza.

[6] Non ci stiamo riferendo all’omonimo principio di Donald Davidson, il quale peraltro non è qui del tutto fuori luogo, in virtù della sua radice agostiniana.

[7] Un esempio di questo tipo è stato il riferimento al “modello svedese”, il quale veniva presentato a confronto con i dati italiani, rispetto ai quali appariva buono anche senza il confinamento, e non con quelli degli altri paesi scandinavi, rispetto ai quali appariva viceversa totalmente fallimentare.

[8] Da questo punto di vista è perfino incredibile come la quasi totalità dei video diffusi in rete da “esperti” oppositori delle misure di profilassi e di quella che è stata chiamata “scienza mainstream” contenessero un’impressionate quantità di errori logici e argomentativi, apparentemente sfuggiti alla moltitudine di cittadini che vi si appellavano per contestare i provvedimenti governativi.

[9] Questo aspetto è simbolicamente rappresentato dalla pretesa/appello degli no-mainstream di usare “altre fonti”, vale a dire quelle che avevano una posizione diversa: ma nel formarsi un’opinione ben fondata non è importante quali fonti si usino, bensì se le fonti usate sia attendibili, sviluppino argomenti logicamente validi e basati su premesse ben fondate – dettagli, questi, che sfuggivano spesso a entrambi gli schieramenti.

[10] Per una ben argomentata critica dell’argomento di Agamben rimandiamo all’articolo di Paolo Pecere Parole sulla pandemia, in “Il Tascabile”, https://www.iltascabile.com/linguaggi/parole-sulla-pandemia/.

[11] Il divulgatore scientifico David Quammen già nel 2012 aveva dedicato un ponderoso libro al tema, Spillover. L’evoluzione delle pandemia, diventato un best sellers internazionale e tradotto in Italia da Adelphi.

[12] Qualcosa di simile, anche se in forme molto mascherate, è stato avanzato da alcuni rappresentanti politici dell’opposizione.

[13] Va peraltro detto che la storia della scienza ci insegna che le più clamorose truffe scientifiche (come il caso di “poliacqua” negli anni Sessanta e quello della “fusione fredda” negli ultimi anni Ottanta) sono state perpetrate proprio da scienziati non mainstream, spinti dalla necessità di rientrare dentro il circolo dei finanziamenti.

[14] Analizzando i video di alcuni degli “eroi” di chi si opponeva alla “scienza mainstream” salta agli occhi quanto spesso le posizioni di quest’ultima vengano respinte con con autentiche confutazioni, ma definendo semplicemente “imbecilli” o “corrotti” i suoi sostenitori – un argomento retorico basato su una fallacia logica e noto fin da Aristotele con il nome di “avvelenamento dei pozzi”.

[15] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infinitiSaggio sulla bilogica, Einaudi, Torino 2000.

[16] La più recente riprova di questo sono stati gli attacchi e le derisioni rivolte a Greta Thumberg, l’adolescente che ha innescato e poi rappresentato il movimento internazionale che chiedeva un cambio del modello di sviluppo internazionale.

[17] Si osservi che spesso questi ritengono di esercitare lo spirito critico, quando viceversa si limitano a opporsi alle idee e alle posizioni del loro antagonista, senza porre mai in discussione la validità e sottoporre a verifica i fondamenti delle loro stesse idee, momento essenziale dell’esercizio dello spirito critico. In questo modo finiscono per essere la “faccia nascosta” del potere cui si oppongono, il loro contrario speculare, se non il loro necessario complemento, un po’ come il servo lo è per il padrone nella nota figura che Hegel sviluppa nella Fenomenologia dello Spirito.

[18] Un esempio particolarmente clamoroso, ma non isolato, è stato quello del già citato filosofo Giorgio Agamben, arrivato a equiparare la didattica a distanza al nazismo (sic!).

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