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L’idea di progresso e la sinistra globale

E’ la centralità del cambiamento – visto come chiave per risolvere i problemi sociali e contrastare le spinte conservatrici – a caratterizzare il progressismo. Cambiamento promosso da due driver tra loro in relazione: la ricerca e l’innovazione in campo economico e i diritti individuali in campo sociale. L’orizzonte è quello della costruzione di una società aperta: tanto nei suoi confini (con una predilezione verso una visione cosmopolita), quanto nei suoi riferimenti culturali (con l’insistenza sui valori della tolleranza e del pluralismo) e nei modi di vivere (con la sottolineatura della autodeterminazione morale del singolo individuo). All’idea di un cambiamento di sistema – tipica della sinistra del secolo scorso – il progressismo sostituisce l’idea di una continua trasformazione interna nella direzione di una maggiore libertà per tutti (a partire dalle donne). Dove la stessa uguaglianza – che Bobbio indicava come tratto distintivo della sinistra – viene ripensata in termini di accesso alle opportunità.

Il problema è che il progressismo tende a rigettare l’idea stessa di limite, visto solo come riduttore di possibilità. Lungo questa linea, esso si espone a posizioni radicali: un conto è la spinta inesauribile a superare gli equilibri esistenti; o la tensione verso un continuo miglioramento. Un altro conto è promuovere continuamente un mondo in cui non c’è più forma, legame, misura. E che non può che aumentare frammentazione, disgregazione, entropia. Come tutti i rimossi, il limite peraltro ritorna nella sua cattiva interpretazione. In fondo, il sovranismo – quando invoca la chiusura dei confini, quando stigmatizza lo straniero, quando ammette solo la famiglia tradizionale – altro non è che la reazione speculare al progressismo. Da questo snodo derivano alcune delle principali difficoltà in cui la sinistra si trova impelagata.

In primo luogo, un’idea di libertà individuale che fatica a combinarsi con la solidarietà. Il problema nasce nel momento in cui ci si dimentica che libertà e legame sono polarità in tensione che vanno sempre ridisegnate, ma che non possono essere disgiunte. La libertà esige di combattere tutte le forme di ingiustizia e di oppressione. Ma non consiste nell’aspirazione a sciogliersi da tutti i legami. Il problema della libertà non è “non avere limiti”, ma decidere quali relazioni (liberanti o oppressive) accettare, rifiutare o mettere al mondo. La responsabilità (e quindi il legame con l’altro e con il senso) non riduce la libertà, ma è la condizione per prendere forma. Che, come tale, non può che essere disegnata da limiti (per quanto porosi e transitabili).

In secondo luogo, la centratura sul cambiamento porta il progressismo – nato nella fase ascendente della globalizzazione – ad avere un’idea unilateralmente positiva del processo di innovazione, specificatamente di quella tecnologica. Va da sé che la tecnica, oltre ad essere essenziale per una società avanzata, è una preziosa alleata per migliorare le condizioni di vita. Ma ciò non significa dimenticare che la tecnologia è un “farmaco” che mentre guarisce, intossica; mentre abilita, disabilita; mentre affascina, spaventa. Ambivalenza particolarmente evidente oggi quando la tecnologia, insieme ai suoi prodigiosi successi, pone gravi questioni in termini sociali e ambientali. Non a caso, sono i gruppi culturalmente e economicamente arretrati che, sentendosi esclusi o minacciati, finiscono per cadere nelle braccia dei conservatori.

Infine, mentre propugna il ritorno ad un rapporto più equilibrato con la natura – con l’attenzione al “bio”, al “km0”, al “green” – in nome del superamento della visione antropocentrica che ha caratterizzato gli ultimi secoli, al tempo stesso il progressismo è assai meno restrittivo quando si parla di intervento tecnico sulla vita umana. L’autodeterminazione individuale diventa qui il principio di riferimento assoluto, col solo vincolo della possibilità tecnica.

Eppure, è proprio il limite – da intendersi non come chiusura ma come soglia che mette in relazione, che fa riflettere e che apre al suo fruttuoso superamento piuttosto che a una cancellazione – a costituire il cuore della questione della sostenibilità: in fondo, diventare sostenibili, significa prendere atto che ogni sovranità (politica, economica, organizzativa, individuale) non può che essere “limitata”, dalla relazione di interdipendenza con ciò che la circonda. E’ a partire da qui che la riflessione sulla sinistra dovrebbe, a mio parere, ricominciare.

* Corriere della Sera del 12 novembre 2022

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