Migranti. La sostanza e l’ipocrisia.
29 Giugno 2018Derive.
16 Ottobre 2018“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (84)
di Michele Nardelli
(10 luglio 2018) La vicenda di Slow Food merita di essere osservata con attenzione e non solo per il numero di persone, di presidi, di condotte ed ora di comunità che sono coinvolte in Italia e nel mondo. Una grande rete che nel corso degli anni ha assunto un peso sempre maggiore nel dar vita ad esperienze che si pongono nel solco del “buono, pulito, giusto e sano per tutti“.
Osservarne il tragitto nel corso dei suoi quarant’anni ci fa comprendere, attraverso i passaggi cruciali che Carlo Petrini ha ricordato nel suo intervento a chiusura della giornata inaugurale del Congresso di Montecatini Terme, come questa associazione abbia assunto l’attuale fisionomia.
Il primo è stato la presa di coscienza che non si poteva parlare di alimentazione senza affrontare il tema cruciale della perdita delle biodiversità e del crescente impoverimento del patrimonio di conoscenza che questo portava con sé.
Il secondo passaggio è stato quello della dimensione internazionale, ovvero che il diritto al piacere non poteva riguardare solo una parte dell’umanità, laddove questo tema sembrava improponibile per paesi impoveriti che pure della biodiversità erano i principali custodi.
Il terzo momento cruciale di cambiamento è stata la nascita nel 2004 di “Terra Madre“ e dell’“Università di scienze gastronomiche“ di Pollenzio. L’assunzione cioè di una visione sistemica del mondo del cibo e del suo carattere interdisciplinare.
Tredici anni dopo è ancora il padre dell’associazione a lanciare la sfida delle comunità dal Congresso internazionale di Slow Food svoltosi a Chengdu in Cina nell’ottobre scorso, assumendo la dimensione globale e quella locale come le nuove polarità di riferimento, cui corrisponde la necessità per Slow Food Italia di mettere in soffitta un vestito “vecchio ed eurocentrico“, sono le parole di Carlo Petrini, per aprire una nuova stagione.
Passaggi cruciali, vissuti talvolta come strappi da un corpo sociale che ha fatto e fa un po’ di fatica a star dietro al vecchio timoniere, pur subendone il fascino e intuendone la lungimiranza. Perché effettivamente il vestito fin qui indossato è vecchio ed eurocentrico, ma al tempo stesso quello nuovo che viene proposto non è ancora confezionato e non può bastare rivoltare quello di prima.
Per questo – è la mia sensazione dopo questa immersione nella tre giorni di Montecatini – non sono sufficienti semplici riassetti organizzativi, quel che è necessario è interrogarsi sulle visioni (e dunque sulle categorie e i paradigmi).
Analogamente, l’apertura (al mondo, al prossimo, ad altre soggettività) che viene auspicata (e talvolta confusa con il concetto non proprio rispettoso di inclusione) è senz’altro necessaria, ma ad essa deve corrispondere una nuova capacità di leggere e raccontare il pianeta che il richiamo ad una fraternità antica e nuova, che affonda cioè le sue radici nella storia del movimento operaio o nella “Laudato Sì“ di Papa Francesco, non credo possa bastare.
La crisi che attraversiamo mette in discussione i fondamentali che sono stati alla base del pensiero moderno. In primis, l’idea di sviluppo. Se l’insostenibilità globale porta il pianeta a consumare 1,7 volte le risorse che gli ecosistemi terrestri sono in grado annualmente di produrre, questo significa che l’umanità deve decisamente e responsabilmente cambiare rotta. Non è più solo un problema di equità nella redistribuzione delle risorse, il nodo è che i modelli sin qui sperimentati (e che hanno letteralmente occupato lo scenario novecentesco) sono all’origine di un’insostenibilità che oggi assume le forme di una terza guerra mondiale fra inclusione ed esclusione e della quale vediamo quotidianamente le conseguenze.
Ne parliamo nel nuovo lavoro editoriale che esce in questi giorni in libreria[1], laddove gli attori di questa guerra non sono solo o tanto gli eserciti all’opera nei conflitti armati diventati endemici, ma ciascuno di noi quando rivendica la non negoziabilità dei propri stili di vita.
Se non sapremo lasciarci alle spalle l’epoca della “dismisura“ ogni nostra azione rischia di venir vanificata. Comprese le tante buone pratiche di cui i quasi cinquecento delegati presenti a Montecatini danno quotidianamente testimonianza nel loro impegno e nelle loro vite.
Uno scarto di pensiero che ponga al centro il concetto di limite: questo è il nodo cruciale sul quale vorrei misurare il mio stesso impegno nella chiocciolina, in Trentino (o meglio nella Regione Dolomiti) come nel Consiglio nazionale dell’associazione (nel quale sono stato eletto).
Il secondo ordine di problemi ha a che fare con la crisi delle forme della politica, che investe peraltro l’insieme dei corpi intermedi. E Slow Food non può certo chiamarsi fuori. Perché se in questi quarant’anni Slow Food è stata identificata con il suo padre fondatore qualcosa vorrà pur dire. Un male comune, sia chiaro. E’ così per Libera rispetto a don Ciotti, per Emergency e la famiglia Strada… è così per i partiti talmente identificati con il proprio leader che i loro nomi appaiono nei simboli fino a divenire immagini talmente esibite da diventare ingombranti. La personalizzazione è il tratto di questo tempo e non casualmente corrisponde alla crisi delle classi dirigenti e della partecipazione. Ma per questo non servono le liturgie e nemmeno le mozioni degli affetti, anzi.
Malgrado il congresso di Slow Food Italia si sia svolto all’insegna dell’unanimismo e che la parola “entusiasmo“ sia stata fra le più evocate dai delegati, le contraddizioni appaiono evidenti: nella fatica di cambiare i paradigmi di riferimento come nel far emergere un corpo collettivo in grado di assumere le sfide del tempo.
Cambiare vestito è un po’ come cambiare pelle. E sguardo. Una grande comunità al lavoro sui temi cruciali del pianeta, in dialogo con il mondo e tutte le persone che in questo modello di sviluppo e di consumi non si riconoscono. Vedremo se Slow Food, a partire dal cibo “buono, pulito, giusto e sano per tutti“, sarà in grado di essere lievito per una nuova rivolta, come scrive Albert Camus, “in nome della misura e della vita‘.
[1]Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Sicurezza. Edizioni Messaggero, 2018. Se non lo trovate, richiedetelo al vostro libraio o partecipate alle serate di presentazione che inizieranno l’ormai prossimo 12 luglio.
1 Comment
Grazie Michele per la riflessione, positiva e “piccante” com’è tua abitudine.
Rispondo telegraficamente (condivido che sarebbe bello ricavarci uno spazio nel regionale per parlarne) affermando che non mi hanno entusiasmato a Montecatini né l’unanimismo un tantino servilista (che da sempre detesto) e l’assenza totale di dibattito delle plenarie, né la “dipendenza dal padre” che ancora emerge con forza pressoché inarrestabile. Meglio il sabato, almeno per la mia esperienza. Intendiamoci, non sono né per l’ipercritica, né per i parricidi, tuttavia o l’Associazione riesce a far crescere una classe dirigente meno dipendente da Bra e dintorni, oppure rischia di vivacchiare di slogan. E qui credo che i territori abbiano una forte importanza se riescono ad inserire nei loro comportamenti energia propulsiva e propositiva.
Crescere, dicevo. Crescita significa autonomia dei territori, non dipendenza dal centro, coerenza nei comportamenti, capacità di incidere s-gli stili di vita nelle proprie comunità. Certo, non sono cose che si possano fare da soli, perciò è fondamentale il ruolo delle alleanze con istituzioni, gruppi ed individui “buoni, puliti e giusti”.
A presto, Giuliano.