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Il volontariato, un tratto di questa terra

La solitudine non è solo il venir meno di relazioni nell’ambito familiare o amicale, è anche l’effetto di un’atomizzazione sociale per cui l’individuo si viene a trovare in un rapporto di tipo verticale (e plebiscitario) con il potere, deprivato cioè delle forme attraverso le quali interagire democraticamente con le istituzioni.

Non è affatto casuale che nella storia, i momenti di crisi acuta tanto sul piano sociale che politico siano stati segnati dall’emergere di figure forti, "uomini della provvidenza" che facevano del loro rapporto diretto e carismatico con la gente (intesa come insieme di individui) la fonte del proprio consenso e la legittimazione del proprio potere. Ma la partecipazione può essere ridotta all’ascolto di un programma televisivo?

Questo è un tempo di solitudine. Per questo la democrazia fatica. Perché la partecipazione democratica si fonda proprio sui corpi intermedi, nel loro occuparsi della sfera pubblica, nell’interlocuzione con le istituzioni ai vari livelli, sul piano della ricerca sociale e della formazione dei cittadini. Sono questi, accanto alle istituzioni formative, i luoghi della formazione della classe dirigente. Quel tessuto di educazione e apprendimento permanente che ci aiuta a mettere in fila la grande quantità di informazioni che l’era digitale ci mette a disposizione e in assenza della quale anche
l’informazione diviene una nebbia polverosa che ci fa sentire smarriti.

Voglio dire che se questo flusso vitale fra cittadini e istituzioni si interrompe, ad entrare in crisi è la società nel suo insieme. La partecipazione è passione civica, impegno, studio, confronto collettivo. Ecco perché l’associazionismo diventa una componente fondamentale di una comunità come il Trentino, un tratto della sua diversità. Se negli indicatori sulla qualità dello sviluppo regionale (Quars) il Trentino è ai primi posti lo deve anche al fatto che quello relativo alle forme partecipative è di gran lunga superiore ad ogni altra regione italiana. E quando i ricercatori mi hanno chiamato per chiedermi ragione di questa distanza a noi favorevole, la mia risposta è stata che la differenza la fanno i Vigili del fuoco volontari e i Nuvola, la Sat e la cooperazione trentina, i cori le bande musicali… persino le Casse rurali quando sanno rappresentare una finanza etica di fronte ad una finanza globale che con i "derivati" scommette sull’andamento del valore dei beni di prima necessità come il grano o il riso. Cioè sulla fame.

Questa riflessione ci può aiutare a comprendere l’importanza di una realtà come il Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani, oggi insieme di 81 associazioni di volontariato ed enti di ricerca e studio sui temi della pace e della mondialità.

La prima domanda da porci è perché il Consiglio Provinciale, in quell’ormai lontano 10 giugno 1991, abbia approvato una legge per la diffusione della cultura della pace e l’istituzione del Forum. La risposta è molto semplice. Perché la pace non va invocata solo quando si avverte il rumore sordo dei bombardieri, la pace si costruisce come cultura diffusa, come modo di essere delle persone, come gestione attenta dei conflitti affinché non degenerino violentemente. Insomma la pace come tratto costitutivo di un paese e della sua comunità.

La pace, e conseguentemente la guerra, vanno studiate. Ci si deve interrogare sulla guerra che ci ha accompagnati fin dalla "notte dei tempi", ma che nel secolo scorso ha prodotto un numero di vittime tre volte superiore ai morti in guerra nei diciannove secoli precedenti dall’inizio dell’era cristiana. Ci si deve interrogare sulla pace, nella consapevolezza che in assenza di elaborazione del conflitto non c’è riconciliazione e che senza riconciliazione "la guerra non è mai finita". Se non saremo capaci di elaborare il Novecento e le sue tragedie, se non saremo capaci di spiegare quel "Arbeit
mach frei" che campeggiava all’ingresso di Auschwitz, se non sapremo indagare
l’arcipelago gulag e andremo ad Arkhangelsk senza neanche portare un fiore, non
impareremo nulla dalla storia.

Il problema è che ci rendiamo conto del valore della pace solo quando l’abbiamo perduta. Allora questo lavoro di prevenzione della guerra e di educazione alla pace deve diventare l’impegno comune delle istituzioni e delle nostre comunità.

E’ stato questo il ruolo del Forum in questi vent’anni. Proprio nell’interrogarci senza reticenze sull’efficacia di questo lavoro (e sulla necessità di uscire dai rituali del pacifismo), abbiamo deciso di approfondire di anno in anno un tema considerato cruciale.

Nel 2011 con "Cittadinanza euro mediterranea" abbiamo cercato di spiegare che non ha senso parlare di "scontro di civiltà", che le nostre radici nascono nello straordinario intreccio di culture e saperi che hanno attraversato il Mediterraneo nel corso della storia. Lo abbiamo fatto parlando del pane che accomuna le genti o dello "status quo", la regola secondo la quale il luogo più importante della cristianità (il Santo Sepolcro) da mille anni è governato dalla famiglia Nuseibeh, palestinese e mussulmana. In questo lavoro di conoscenza, quasi con naturalezza, abbiamo incontrato la primavera
araba. 

Nel 2012 affrontando il tema del limite, a partire dalla considerazione che le guerre moderne si fanno per il controllo delle fonti energetiche, dell’acqua e della terra. Che oggi siamo sulla Terra in sette miliardi di esseri umani e che nel 2030, cioè domani, saremo in nove miliardi. E che o sappiamo tutti riconsiderare i nostri stili di vita e i nostri consumi, o non ci sarà posto per tutti. E sarà la guerra. "Nel limite. La misura del futuro" abbiamo scritto, per far comprendere che in questa contraddizioni ci siamo tutti. E, come nei momenti di difficoltà del pensiero, la poesia ci è venuta in aiuto. In particolare la "poetica dello spaesamento" che il grande Andrea Zanzotto ci ha lasciato in dono andandosene per sempre un anno fa. Negli ultimi anni, di fronte ad un tempo e alla sua terra che faticava a riconoscere, amava proporre un epigramma: "In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato, o se ingoio".

A questo interrogativo (e a questa solitudine), la partecipazione e il volontariato possono aiutarci, se non proprio a dare una risposta, almeno a sentirci meno soli.

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