La memoria di sé. Un racconto della città di Trento e dei suoi cambiamenti nell’ultima frazione di secondo
1 Aprile 2020Un destino comune dentro la fragilità
2 Aprile 2020Una situazione di questo genere è dunque il modello-tipo per mettere in pratica l’atteggiamento filosofico, quello che Gerd Achenbach – il filosofo che ha ideato la Consulenza Filosofica – chiama “capacità di saper vivere” (Lebenskönnerschaft): la sospensione di ogni conoscenza, presa di posizione, giudizio; il temporaneo accantonamento di ogni obiettivo, scopo da realizzare, desiderio da soddisfare; il tutto a pro dello studio e della comprensione del fenomeno, della costruzione di ipotesi riguardo a come conviverci, della progettazione di nuove forme di interazione sociale capaci di tener conto dei limiti imposti dal virus e dalle conseguenze economiche della pandemia.
Ebbene, osservando quel che sta avvenendo nell’ultimo mese, è facile riconoscere che pressoché nessuno ha assunto l’atteggiamento filosofico, neppure gli stessi filosofi. Si è infatti assistito – certamente nel nostro Paese, ma sembrerebbe anche altrove – a un compulsivo comportamento da “superesperti” da parte sia di chi era a vario titolo competente in materia – medici, virologi, biologi, ecc. – sia di chi fino ad allora s’era occupato di tutt’altro. Un po’ tutti si sono infatti affannati a:
– prendere posizione per una qualche lettura del contagio;
– difendere o attaccare una qualche misura di contenimento;
– sostenere qualche tipo di ipotesi esplicativa relativa all’origine del virus, spesso sbizzarendosi in fantasiosissime teorie della cospirazione;
– ingaggiare una caccia al colpevole della diffusione del contagio – il governo ça va sans dire inadeguato, gli untori che se ne vanno in giro a infettare, la sanità incapace di intervenire con efficienza, ecc.;
– cercare altri “nemici” da incolpare in qualche modo – il “popolo di codardi” che rispetta misure inutili, il “popolo di incoscienti” che non le rispetta, i tedeschi che non ci concedono i prestiti necessari, il Potere che si approfitta dell’emergenza per imporre controlli autoritari, ecc.
– esporre striscioni, cantare in coro dai balconi o via internet, fare appelli, sorta di preghiere laiche beneauguranti.
Tutte cose, quelle elencate, sostanzialmente inutili, vista l’ignoranza generale riguardo all’oggetto in discussione, se non solo a sfogare – perlopiù inconsapevolmente – l’ansia prodotta dalla minaccia incombente.
Ben pochi hanno invece dedicato il molto tempo messo a loro disposizione dalle misure contenitive al tentativo di comprendere meglio ciò che sta accadendo e, soprattutto, a immaginare come ricostruire – dopo il morbo e nei mutati scenari che esso ci può lasciare – una “nuova normalità”, fatta di forme di vita individuali, sociali ed economiche diverse da quelle precedenti.
E sì che le ragioni non mancavano: quanti di coloro che si lamentano di ciò che stanno vivendo, rimpiangendo la “normalità perduta”, si dichiaravano soddisfatti di essa quando vi erano immersi? Quanti di coloro che si sentono “incarcerati” dall’obbligo di rimanere a casa propria apprezzavano di essere, prima, derubati del proprio tempo? Quanti di coloro che temono (certo anche con alcune giuste ragioni) il tracollo economico che quasi certamente seguirà alla pandemia erano estimatori del sistema economico neoliberista che imperava? E allora, non sarebbe stata proprio questa l’occasione giusta per interrogarsi, dialogare (non si dica che non si può uscire, siamo o non siamo “sempre connessi”?), studiare e progettare un altro mondo possibile, visto che il precedente sta crollando?
Viceversa, vittime di una cultura emotivistica, si è per l’ennesima volta dato solo sfogo ad ansie e paure. E non tanto a quella di morire, che in ragione della sua unicità pure qualche legittimità l’avrebbe anche avuta (chi perde la vita non può sostituirla con niente di equivalente o superiore), ma soprattutto ad altre assai meno sensate: quella di dover cambiare aspirazioni, obiettivi e abitudini; quella di attraversare un periodo di minore benessere materiale; quella di ritrovarsi in un mondo diverso. Paure a cui si è ceduto ancor prima di domandarsi se, alla fin fine, ciò che le causava fosse necessariamente negativo e da temere.
In altre parole, quasi nessuno ha approfittato del proprio “tempo ritrovato” – dono del virus la cui immensa positività è perlopiù sfuggita – per porsi filosoficamente di fronte alla pandemia, cercando di usare categorie diverse da quella fin troppo ovvia della “sciagura” – valida certo per coloro che il virus non sono riusciti a evitarlo e per i loro cari, ma non per tutti gli altri.
C’è ancora tempo, proviamoci.
* da https://filosopolis.wordpress.com