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Il PD è da rottamare?

di Roberto Pinter

(16 novembre 2010) Leggendo l’analisi impietosa del direttore Giovanetti si rischia di arrivare a questa conclusione, ma non credo sia ancora ora di conclusioni. Parto da quel “rottamare” che ha animato il dibattito interno al PD. C’è un po’ di bullismo nell’uso di questo termine. E la contrapposizione tra le ambizioni di chi si ritiene insostituibile e quelle di chi vuol prenderne il posto, a prescindere da una seria valutazione delle competenze, non porta lontano. Ma se non convince la contrapposizione generazionale altrettanto ingiustificata appare la deroga come regola per un gruppo dirigente, che se ha il merito di aver dato vita al Partito Democratico dovrebbe ambire anche al merito di far crescere un gruppo dirigente che più compiutamente esprima la sintesi di pensiero che il PD ha promesso.

La regola dei tre mandati può essere ingiusta non distinguendo i meriti degli eletti, ma è necessaria se si vogliono rimescolare le storie e offrire pari opportunità. Ognuno può offrire la propria esperienza per la crescita del partito in altri modi e soprattutto è necessario che alla fibrillazione degli eletti e delle correnti alle quali fanno riferimento si sostituisca la partecipazione democratica, nella scelta dei candidati, e un maggior ruolo dei territori nell’esprimerli.

Ciò che non è accettabile è la continua riproposizione di logiche di appartenenza, di correnti e di aree che inchiodano il PD a storie che vanno superate, di uno scambio di ruoli all’interno dello stesso gruppo che è bravo a conservarsi ma che non riesce ad esprimere coesione e volontà di rinnovamento. Ciascuno fa all’altro ciò che non vorrebbe fosse fatto a se stesso e lo fa senza peraltro che si riesca a cogliere significative differenze tali da giustificare la mancanza di una reciproca e piena fiducia.

Io ho dato la mia fiducia a Veltroni, come l’ho data a Franceschini come la do a Bersani. E in Trentino l’ho data a Nicoletti anche se ero candidato a lui contrapposto alla segreteria. Non è troppo chiedere che tutti si comportino nello stesso modo. Dibattito politico, ma poi coesione e fiducia in chi il partito ha indicato come responsabile della gestione e della guida politica. Basta con il chiederla quando si è segretari e rifiutarla quando non lo si è. Il popolo del PD chiede unità e coesione.

Suggerimenti? Si scelga la partecipazione, si rinunci ai bilancini interni al gruppo dirigente. Si applichi la regola dei tre mandati, si facciano le primarie per scegliere i candidati, si lasci ai territori la scelta dei propri eletti, si elegga il gruppo dirigente come espressione di un partito federato e confederato e non come somma di correnti e gruppi nazionali.

E si applichi una regola: nessuno dei dirigenti e degli eletti si permetta il diritto di critica se non al termine di una dura giornata di lavoro per il partito. Abbiamo troppi grilli parlanti che stanno a vedere cosa succede per poterlo criticare, troppi che parlano del partito come se il partito non dipendesse anche da loro. Ogni eletto rappresenta il partito e costituisce un pezzo dell’immagine del partito e quando spiega come dovrebbe essere il PD dovrebbe prima spiegarci cosa ha fatto lui perché il partito sia un’altra cosa. Vedo dirigenti che se non sono loro i segretari, i presidenti o i capogruppo, si comportano come se fossero liberi da ogni responsabilità.

 

Ma le regole non bastano.

Nelle contrapposizioni interne al PD al di là degli scontri personali, si colgono differenze politiche, quelle che una volta si chiamavano differenze di linea politica. Quando si parla ad esempio di alleanze, di sistema elettorale, di bipolarismo, di vocazione maggioritaria, di rapporto con il sindacato… l’elettorato del PD non capisce più quale sia la posizione del partito. Perché dovrebbe esserci il tempo del dibattito e il tempo delle scelte e invece nel PD sembra che ci sia un eterno dibattito e nessuna scelta. Qui c’è ancora un problema di metodo che non c’è o non viene rispettato, per cui ogni posizione è possibile e ogni decisione resiste un solo giorno, ma c’è anche un problema di merito, di una sintesi che non c’è e che possibilmente guardi in avanti. E’ un problema evidente nel PD nazionale, ma anche in Trentino sono in molti a chiedersi quale sia la posizione del PD rispetto a molti nodi o ancora prima se il PD sia un partito di governo o di opposizione.

Vogliamo un partito più riformista? Lo vogliamo più egualitario? Bene, cosa vuol dire questo nelle scelte di governo? Nel contenuto di una finanziaria piuttosto che in un’idea di sviluppo, nelle politiche sull’immigrazione o nel sistema fiscale, nelle Comunità di valle piuttosto che nella riforma della scuola o nel piano della mobilità? Siamo tutti bravi ad indicare i valori e i principi che dovrebbero ispirarci, meno nel declinarli.

Forse il problema è che il PD dovrebbe essere più popolare.

Un partito popolare non è un partito che segue il popolo e la pancia del popolo, ma che è vicino al popolo e che ne cerca di interpretare i bisogni orientandoli verso scelte che nel caso del PD non possono che guardare alla solidarietà, alla giustizia sociale, all’uguaglianza e alla libertà. Compito ancora più difficile di ieri, ma che è l’unico che dia senso alla scommessa del PD. Qualche volta il PD è chiaro e convincente, altre volte no. E quando non lo è l’elettorato del Pd sceglie Di Pietro che anche se non conosce democrazia e radicamento territoriale conosce il populismo e risulta convincente su alcune cose. Oppure sceglie Vendola perché, anche se appartenente alla stessa storia, sa toccare i tasti giusti. Oppure sceglierà Casini o anche Fini perché più rassicuranti ancor più che moderati.

Mi piacerebbe poter dire che il PD perde consensi perché troppo di sinistra, ma non lo è, o perché è troppo moderato, ma non lo è. Ho paura che perdiamo consensi non perché troppo, ma perché troppo poco, perdiamo consensi per quello che non siamo. E quando si perde consenso che senso ha dividersi sulle alleanze? Il problema non sono le alleanze, perché quando non si è autosufficienti se non si sceglie di rimanere all’opposizione non rimane alternativa, d’altronde è stato proprio Veltroni, che pure incarnava l’idea maggioritaria e plurale del PD, ad allearsi con Di Pietro.

Che fare? Quello che tutti chiedono, un partito che abbia idee chiare (rispettando il tempo del confronto e quello delle scelte) e che le sappia comunicare e che ognuno le interpreti esprimendo unità e condivisone. E questo compito lo si può meglio svolgere in un sistema bipolare ma non credo che spetti al PD decidere il sistema.

In Trentino il sistema non è mai stato veramente bipolare, e se salta il bipolarismo a livello nazionale c’è da chiedersi cosa accadrà. Potranno delinearsi delle maggioranze a prescindere dal PD? Già ora non manca chi lo teorizza, ma il PD non deve farsi prendere dal panico e non solo perché nessuno oggi conosce quello che accadrà in questo paese smarrito.

Dare per scontata la propria presenza nel governo provinciale come pensarsi autosufficienti è un errore da evitare e può aiutare il PD ad essere più consapevole dei propri limiti come delle proprie potenzialità, il che non vuol dire naturalmente cadere nell’errore opposto di rinunciare all’ambizione di essere partito guida e di esprimere il candidato presidente o di accontentarsi di una presenza qualsiasi pur di rimanere al governo.

Il PD deve innanzitutto essere PD del Trentino, che è un altro modo di essere partito popolare, completando il processo di radicamento territoriale, elevando la propria capacità di rappresentanza sociale e migliorando la proposta di governo, magari dando l’idea di essere un partito unito e coeso, capace, al termine di un percorso democratico, di scegliere quale Autonomia vorrebbe e quale idea di sviluppo propone. Che è anche il modo per contribuire alla rigenerazione del PD nazionale.

Se ci riuscirà, allora anche un bipolarismo imperfetto dovrà fare i conti con il PD e qualcuno in Trentino più che fare  i conti con il PD forse potrebbe trovare nel PD del Trentino la risposta che cerca invano qui come nello scenario nazionale.

 

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