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Il Paese provinciale che siamo diventati

Purtroppo non sembra che in Italia ci siano anziani disposti a sfidare lacrimogeni e proiettili per cacciare il despota mediocre e dissoluto. Perfino i giovani che il 14 dicembre scorso avevano sconvolto la città di Roma "con la loro rabbia" paiono poco reattivi di fronte al grande sommovimento politico che scuote l’area del Mediterraneo e oltre: dalla Tunisia all’Egitto, dall’Algeria allo Yemen, dalla Giordania all’Albania. Eppure con i coetanei in rivolta condividono non solo "la rabbia" ma anche la condizione sociale: forza-lavoro istruita, declassata, umiliata, destinata alla precarietà o alla disoccupazione. Scendere in piazza, magari proclamare uno sciopero generale, in solidarietà con la grande insurrezione popolare che serpeggia nell’area sud-orientale del Mare nostrum significherebbe, qui e ora, cogliere l’occasione storica per ricucire i legami -ignorati, dimenticati o recisi- che annodano il nostro destino a quello di altri Paesi mediterranei. Significherebbe, al tempo stesso, sfidare il nostro regime, "equivalente funzionale e postmoderno del fascismo" (la bella formula sintetica è di Paolo Flores d’Arcais): non molto dissimile, se non nelle forme, dai regimi che crollano o vacillano, travolti dalle grandi sollevazioni popolari. Certo, da noi la confisca della democrazia, il malaffare come sistema di governo, soprattutto l’apparato di propaganda  hanno assunto forme più indirette e subdole. Ma forse anche più pervasive di quelle di un Ben Ali o di un Mubarak, poiché sono riuscite a offuscare la coscienza collettiva del Paese, a pervertirne l’immaginario e la vita sociale, ad annullarne la capacità di desiderare e perciò di lottare. Come è tipico delle inclinazioni totalitarie, queste forme hanno diffuso una sorta di neolingua orwelliana, della quale è parte la tendenza, presente anche a sinistra, a percepire e categorizzare tutto quel che riguarda gli altri, soprattutto i vicini dell’altra sponda del Mediterraneo, secondo cliché e luoghi comuni. Di questi, la parola-chiave -usata perfino da certi dotti- è "islamici", che permette d’infilare nello stesso sacco persone di fede o solo di cultura musulmana insieme con islamisti, jihadisti, terroristi…E l’icona è il "velo", che consente d’attribuire agli altri il monopolio della sottomissione delle donne e dell’oppressione di genere. Ora che gli "islamici" sfidano, con coraggio e dignità, regimi del terrore che sembravano incrollabili e i loro feroci apparati di repressione; ora che  chiedono democrazia e partecipazione, giustizia sociale e uguaglianza, libertà e rispetto; ora che si appropriano delle belle parole che noi abbiamo dimenticato, il Paese provinciale che siamo diventati non sa che dire. Perfino certa sinistra sgrana gli occhi di fronte a eventi che neppure aveva immaginato, in ciò degna di altre sinistre "riformiste" europee: basta dire che solo pochi giorni fa, dopo la fuga di Ben Ali, l’Rcd, il suo partito, è stato espulso dall’Internazionale socialista. Balbettano penosamente anche certe femministe nostrane, eurocentriche ma non fino al punto d’apprendere da altri paesi europei a usare correttamente le parole e ad evitare cliché:  i loro miseri pre-concetti sono messi in crisi dalle immagini delle rivolte che, in Tunisia come in Egitto, mostrano donne giovani e anziane alla testa delle manifestazioni, il capo coperto da un hijab.

Che il "nostro" ineffabile ministro degli esteri cada dalle nuvole o dica scempiaggini è cosa scontata. Meno ovvio è che certi quotidiani italiani abbiano impiegato qualche settimana per dare agli eventi la rilevanza che meritano. Per molti giorni, chi ha voluto informarsi degnamente ha fatto ricorso a emittenti arabe e a giornali inglesi, americani, soprattutto francesi: in testa Libération e Le Monde, che ancora una volta ci insegnano cosa debba intendersi per informazione. Né vale la scusa, che spesso ci viene opposta, del peculiare interesse francese verso paesi ex colonizzati: dai quei due quotidiani la rivolta egiziana ha ricevuto e riceve uguale spazio e attenzione.

Per quanto continuiamo a coltivarne la speranza, è incerto che un Paese divenuto tanto provinciale e incolto sappia cogliere il valore di evento storico dell’insurrezione mediterranea. Ma noi ci ostiniamo a ripeterlo, almeno ai pochi che ci leggono:  comunque vadano a finire, i moti popolari degli altri hanno inferto un grave colpo alla miope realpolitik, nutrita da  razzismo postcoloniale,  che ha spinto a utilizzare regimi tirannici e corrotti come cani da guardia dell’Europa-fortezza, dighe contro il presunto diluvio dell’islamismo politico, soci minori e disprezzati in affari più o meno leciti.  Qualunque ne sia l’esito, gli equilibri postcoloniali sono stati spezzati, quindi niente sarà più come prima, neanche per il Paese marginale che è diventata l’Italia.

* da Liberazione del 1 febbraio 2011

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