L’improbabile di fronte a noi
12 Settembre 2019Roma e Bisanzio. Guardando la Mezzaluna fertile.
27 Settembre 2019Ben difficilmente la semplice presenza di un governo di “buona volontà” potrà risolvere la crisi strutturale di una stato nazione come l’Italia le cui istituzioni si stanno sfaldando non solo per limiti ed incapacità della politica ma per una evoluzione oggettiva della storia che deve ancora essere pienamente compresa. Dentro queste contraddizioni assume piena rilevanza il tema dei rapporti tra stato, territori ed Unione Europea.
Il programma del governo Conte sul tema delle autonomie appare di una estrema debolezza. Non è un male assoluto perché è come ammettere di non saper che pesci pigliare. E forse, partendo da questa novità, un dibattito serio potrà produrre qualche risultato. Purché tutti lavorino per affrontare la questione e non per pura propaganda, il che forse, ahimè, è chiedere troppo al nostro sistema politico attuale.
Non so se il “nuovo umanesimo” che il presidente Conte ha ripassato sul Bignami preveda qualche accenno alle autonomie territoriali. Di sicuro lì brilla l’immagine dell’uomo universale che rispetta i diritti degli altri e li educa a rispettare l’estetica. E probabilmente da qui è nata l’idea di dare qualche bastonata al nostro presidente Fedriga in materia di immigrazione e affini. Quello che produce Max non è in genere molto bello.
Il nuovo governo di fronte al rebus autonomia
E così l’operazione tecnico giuridica più neutra che il governo dovrebbe fare, quella di valutare il rischio di costituzionalità e la legittima competenza di norme emanate da una Regione a Statuto speciale, è diventata non solo una minaccia a futura memoria ma un affare prepotentemente politico.
Di questi tempi giudicare la corrispondenza alla Costituzione e la legittimità istituzionale di una qualsiasi norma è diventato sempre più difficile e succede che, in un confronto con una partita di calcio, praticamente ogni azione meriterebbe di essere sottoposta alla VAR. Salvo che gli strumenti tecnici sono sempre meno all’altezza e i giudizi non possono non tener conto dei boati del pubblico.
La decisione del governo, che nella sua prima riunione, ha riguardato il rinvio alla Corte di una serie di norme approvate dal Consiglio regionale del F-VG, ha soprattutto il senso di un “da adesso in poi si riga dritto e qui comando io”. Non poteva mancare la sdegnata risposta del Fedriga sull’autonomia vilipesa, pur comprensibile, ma il tutto rischia di semplificare troppo il gioco dei messaggi.
Sarebbe facile infatti demolire la credibilità di un presidente di Regione che, al pari dei suoi predecessori (Tondo e Serracchiani), ha gestito con molta delicatezza e “bon ton” il rapporto con il governo amico, spacciando per nettare la continuità della somministrazione di purganti finanziari. Ma dietro la vicenda, vista oltre il singolo episodio delle cronache di questi giorni, ci sta una spinta fortissima dei centri politici decisionali di tutti i partiti italiani, delle burocrazie statali e dei gestori dell’informazione (con il contributo di molti opinion leaders accademici), di farla finita con il territorialismo e il regionalismo.
E’ il risultato di una visione malata del rilancio dell’Italia sull’onda di una centralizzazione dei poteri decisionali in grado di fare piazza pulita dei “mali” distribuiti e permettere così di far finalmente funzionare la macchina dello stato senza sprechi e corruzioni. La vulgata comune plaude ad un neo sovranismo interno in nome di un distorto concetto di nazione senza capirne i limiti che nascono dalla distruzione delle differenze. 160 anni di fallimenti per una testarda volontà di inquadrare la questione meridionale come puro ritardo rispetto ad uno sviluppo standard lo stanno a dimostrare.
A parole, anche i membri di questo governo, come quelli che lo hanno preceduto (di volta in volta l’intero spettro politico italiano), giureranno di voler rispondere alle domande di autogoverno dei territori, soprattutto del nord, ma mai gli atti hanno realmente perseguito questo obiettivo, e semmai si sono mossi in direzione contraria, e così “tirando il mus pe glace” è probabile che andrà anche stavolta.
Una seria autonomia significa ripensare lo Stato
C’è inoltre una distinzione da fare: non bisogna confondere il tema dell’autonomia, sia essa speciale che delegata, con la questione del nord, che ormai viene assimilata allo slogan “meno stato, meno tasse e più infrastrutture”. Questo è un programma politico, peraltro incompleto poiché non dice cosa lo stato non farà (servizi, opere, welfare), e parte dalla “falsa” convinzione che gli sprechi e l’evasione-elusione fiscale (che pur ci sono) siano sufficienti a bilanciare le mancate entrate.
L’autonomia territoriale è invece un modello di governo che lascia ai cittadini il più vasto universo possibile nell’organizzare e “amministrare” la sfera pubblica. Ed è evidente che non può esserci autonomia reale senza il controllo di parti fondamentali delle entrate, commisurate ad un corretto rapporto con lo stato e eventualmente con il concetto di solidarietà tra i territori dello stato stesso, qualora vi sia la certezza che le risorse siano impiegate effettivamente a tale scopo e non siano semplicemente distrutte dalla inefficienza e dalle clientele dello stato centrale. Questa operazione di ricostruzione delle autonomie è non solo delicata, ma proprio per quello che significa, si presta a interpretazioni contese sia per quanto riguarda le cifre ed i parametri di riferimento (ad es. costi standard o storici) sia per definizione degli ambiti di competenza (definiti come “materie” negli articoli della Costituzione).
Sulla questione del rapporto tra centro e territori si gioca la partita della trasformazione dello stato italiano e, pur con una certa cautela, la stessa sopravvivenza dello stato italiano nelle funzioni che può adeguatamente e utilmente svolgere oggi. Tolto dal tavolo il tentativo di comando unico (sia politico che burocratico) e pure quello illusorio di ritenere che interpretando bene la costituzione tutto si risolva, si deve partire da un nuovo accordo di cooperazione tra i territori, finalizzato a capire cosa può doverosamente svolgere lo stato attuale integrato nel quadro dell’Unione Europea e quali “competenze amministrative” debbano essere compiutamente assolte nei territori. Sapendo che vi sono questioni di sicura attinenza ad un territorio istituzionalmente definito (dipendenti anche dalla particolarità di quel territorio), altre che ragionevolmente possono essere meglio assolte da più territori (magari appartenenti attualmente a stati diversi), ed altre che si intersecano in modo più complicato. Un sistema di poteri a geometria variabile è l’unica maniera per affrontare i singoli problemi.
La costruzione di una nuova geografia politica non può essere il risultato di una semplificazione interna ad uno stato-nazione, sia essa di stampo accentratore che di meticolosa ripartizione di competenze con l’attuale sistema regionale (italiano), ma deve permettere l’organizzazione di relazioni verticali ed orizzontali nella prospettiva di una geografia che concepisca i diritti e doveri (di sostenibilità ambientale per esempio) non legati ai confini, siano essi interni che di separazione di stati.
Se nello Stato italiano c’è qualche esperienza da valorizzare, è quella del Sud Tirolo, proprio per l’intreccio che propone tra una autonomia decisionale ampia con adeguate risorse finanziarie e una propria collocazione geografica che permette di gestire relazioni sovra regionali e sovrastatali di respiro europeo. Che poi questo nasca per la capacità di una minoranza linguistica di pretendere e gestire i propri diritti, per un livello di internazionalizzazione delle questioni che la riguardano, e infine da una capacità di “vendere bene” la propria forza rappresentativa al potere politico italiano, è cosa che riguarda nello specifico la particolare situazione storica, ma questo non significa che il suo modello sia irripetibile.
E’ di questo che deve convincersi il mondo politico italiano per affrontare l’intero tema delle autonomie non come gioco politico tra partiti e schieramenti ma come questione da dirimere per una riorganizzazione istituzionale che sappia gestire una radicale trasformazione, dimenticando il risorgimento, il fascismo e anche, purtroppo, “le magnifiche sorti e progressive” della Repubblica democratica.
* Giorgio Cavallo è fra gli animatori del “Patto per l’Autonomia” in Friuli Venezia Giulia