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Il messaggio di Obama al mondo arabo

Osama bin Laden
Bin Laden non era un martire. Era uno sterminatore di massa che ha offerto al mondo un messaggio di odio, sostenendo con insistenza che i musulmani dovessero imbracciare le armi contro l’Occidente e che la violenza verso uomini, donne e bambini fosse l’unica strada verso il cambiamento. Ha preferito il suo estremismo violento alla democrazia e i diritti umani per i musulmani. Era concentrato su quanto poteva distruggere, e non su quello che poteva costruire.

Mohammed Bouazizi
Questa grande storia di autodeterminazione [le rivolte nel mondo arabo, ndr] è cominciata sei mesi fa in Tunisia. Il 17 dicembre un giovane venditore ambulante era devastato dalla tristezza: un agente di polizia aveva confiscato il carretto con la sua merce. Il suo non era un caso isolato. Si trattava dello stesso genere di umiliazione che avviene ogni giorno in molte parti del mondo: la tirannia incessante dei governi che violano i diritti dei propri cittadini. Solo che stavolta è successo qualcosa di diverso. Dal momento che gli agenti di polizia si erano rifiutati di prestare ascolto alle sue lamentele, questo giovane ragazzo – mai particolarmente attivo politicamente – aveva deciso di andare davanti agli uffici del governo provinciale, e una volta lì di cospargersi il corpo di benzina e darsi fuoco.

A volte, nel corso della storia, le azioni di normali cittadini generano grandi movimenti per il cambiamento, perché attraversano pulsioni di libertà costruite silenziosamente per anni. Negli Stati Uniti, pensate al coraggio dei patrioti di Boston, che si rifiutarono di pagare le tasse a un re. O alla dignità di Rosa Parks nel tenersi il suo posto in autobus. Allo stesso modo, in Tunisia, il gesto di disperazione di un giovane venditore si è saldato al sentimento di frustrazione diffuso in tutto il paese. Centinaia di manifestanti sono scesi per le strade, poi sono diventati migliaia. Di fronte ai bastoni e a volte anche ai proiettili, non sono andati a casa. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, finché una dittatura più che ventennale non ha dovuto abbandonare il potere.

Il mondo è cambiato
I fatti degli ultimi sei mesi dimostrano che per i regimi la repressione e la ricerca di scuse e diversivi non funzionano più. La televisione satellitare e Internet forniscono una finestra sul mondo, un mondo fatto di progressi sbalorditivi in posti come l’India, l’Indonesia o il Brasile. I telefoni cellulari e i social network permettono alle persone di entrare in contatto tra loro e organizzarsi come mai prima di adesso. Una nuova generazione è emersa. E le loro voci ci dicono che non si può negare loro il cambiamento.

Cosa faranno gli Stati Uniti
Per decenni, gli Stati Uniti hanno perseguito una serie di interessi nella regione: combattere il terrorismo, fermare la diffusione delle armi nucleari, garantire la libertà del commercio e la sicurezza dell’area, difendere la sicurezza di Israele e cercare la pace tra Israele e Palestina. […] Dobbiamo riconoscere che una strategia basata esclusivamente su questi interessi non riempirà le pance di chi ha fame né permetterà a chi lo vuole di dire quello che pensa. Il fallimento nel permettere a quei popoli di realizzare le proprie aspirazioni non farà che accreditare la tesi circolata per decenni che gli Stati Uniti perseguono i propri interessi nell’area a danno delle persone che vivono nell’area. Dobbiamo comportarci con grande umiltà, ma dobbiamo e possiamo fare di più e schierarci dalla parte di alcuni principi cardine.

Gli Stati Uniti si oppongono all’uso della violenza e alla repressione contro le persone. Sosteniamo i diritti umani universali. Questi includono la libertà di parola, la libertà di riunirsi pacificamente, la libertà di culto, l’uguaglianza tra uomo e donna garantita dalla legge, il diritto di scegliersi i propri governanti – valga per tutti, a Baghdad o a Damasco, a Sanaa o a Teheran. Sosteniamo riforme politiche ed economiche in Medio Oriente e in Nordafrica, così da permettere alle persone di raggiungere le loro legittime aspirazioni. Il nostro sostegno a questi principi non è un nostro interesse secondario: oggi diciamo ufficialmente che si tratta di una nostra massima priorità, da tradursi in azioni concrete. La politica degli Stati Uniti sarà volta alla promozione di riforme e al sostegno della transizione verso la democrazia.

Libia
In molte nazioni, la risposta alla richiesta di cambiamento è stata la violenza. L’esempio più estremo è la Libia, dove Muammar Gheddafi ha dichiarato guerra al suo popolo, promettendo di dar loro la caccia come ai ratti. Noi non possiamo prevenire ogni ingiustizia perpetrata da un regime contro il suo popolo, e abbiamo imparato dalla nostra esperienza in Iraq quanto può essere costoso e difficile rovesciare un regime con la forza. In Libia, però, c’era un massacro imminente: abbiamo sentito la richiesta d’aiuto dei libici e abbiamo avuto un mandato per agire da parte dell’ONU. Se non fossimo intervenuti, migliaia di persone sarebbero state uccise. A quel punto il messaggio per i regimi sarebbe stato chiaro: per mantenere il potere basta uccidere tutte le persone che serve uccidere. Ora il tempo gioca contro Gheddafi. Non ha più il controllo del suo paese. L’opposizione ha organizzato un legittimo governo ad interim. Inevitabilmente se ne andrà o sarà rimosso dal potere, e allora una storia di provocazioni giungerà alla sua fine, e potrà cominciare la transizione verso una Libia democratica.

Siria
I siriani hanno mostrato il loro coraggio chiedendo una transizione verso la democrazia. Il presidente Assad ha una scelta: può guidare questa transizione o può togliersi di mezzo. Il governo siriano deve interrompere la repressione violenta delle manifestazioni, permettendo le proteste pacifiche. Deve liberare i prigionieri politici e fermare gli arresti ingiusti. Deve permettere alle associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani di avere accesso in città come Deraa. Deve iniziare un vero dialogo per una transizione democratica. Altrimenti, il presidente Assad e il suo regime continueranno a essere sfidati dall’interno e isolati dall’esterno.

Iran
L’ipocrisia del regime iraniano è dimostrata dal fatto che sostiene le proteste antigovernative all’estero ma reprime quelle dentro i suoi confini. Ricordiamoci che le prime proteste pacifiche le abbiamo viste a Teheran, dove il governo ha ucciso brutalmente donne e uomini, mettendo in carcere persone innocenti. Abbiamo ancora nelle orecchie i canti dai tetti di Teheran. L’immagine di una giovane donna uccisa per strada è sigillata nella nostra memoria. Continueremo a insistere, perché il popolo iraniano merita i suoi diritti universali e un governo che non demolisca le sue aspirazioni. La nostra opposizione all’intolleranza iraniana, al suo programma nucleare illegale e al suo sostegno al terrorismo è nota. Ma se l’America vuole essere credibile, deve riconoscere che i nostri alleati nella regione non hanno reagito allo stesso modo alle richieste di cambiamento. Questo è vero per lo Yemen, dove il presidente Saleh deve mantenere la sua promessa di cedere il potere. Ed è vero per il Bahrein.

Bahrein
Il Bahrein è un nostro alleato da molto tempo, siamo impegnati per la sua sicurezza. Sappiamo che l’Iran ha cercato di approfittare delle rivolte. Nonostante questo, abbiamo insistito pubblicamente e privatamente perché gli arresti di massa e l’uso della forza venissero fermati, perché contraddicono i diritti universali delle persone e non faranno sparire le loro legittime richieste. L’unica strada per il governo e l’opposizione è aprire un dialogo, e non puoi avere un dialogo vero quando un pezzo dell’opposizione è in galera. Il governo deve creare le condizioni per un dialogo proficuo con l’opposizione, per forgiare un futuro giusto per tutti gli abitanti del Bahrein.

Religione
La tolleranza è fondamentale, specie quando si parla di religione. A Piazza Tahrir abbiamo sentito i canti degli egiziani: "Musulmani, cristiani, siamo una cosa sola". Gli Stati Uniti lavoreranno perché prevalga questo spirito: perché tutte le fedi siano rispettate e perché si costruiscano ponti tra loro. In una regione che ha visto la nascita di tre grandi religioni, l’intolleranza può portare solo sofferenza e stagnazione. In questa stagione di cambiamenti, i cristiani copti devono avere il diritto di predicare il loro culto liberamente al Cairo, così come gli sciiti non dovranno vedere distrutte le loro moschee in Bahrein.

Quello che vale per le minoranze religiose vale anche per le donne. La storia mostra che i paesi sono più prosperi e pacifici quanto più le donne hanno potere. Per questo continueremo a insistere che i diritti universali si applicano alle donne come agli uomini, concentrandosi sulle politiche sanitarie per i bambini e le madri, aiutando le donne a insegnare o ad avviare un’impresa, difendendo il loro diritto a essere ascoltate e candidarsi alle elezioni. L’intera regione non realizzerà mai il suo potenziale se questo sarà impedito a metà della sua popolazione.

Misure economiche
Per prima cosa, abbiamo chiesto alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale di presentare un piano, al G8 della prossima settimana, per stabilizzare e modernizzare le economie di Tunisia ed Egitto. Secondo: non vogliamo che l’Egitto democratico sia zavorrato dai debiti ereditati dal suo passato. Quindi alleggeriremo di un miliardo di dollari il debito dell’Egitto e lavoreremo coi nostri partner egiziani per investire queste risorse per la crescita economica. Garantiremo agli egiziani un miliardo di dollari in prestiti, per creare posti di lavoro e infrastrutture. Terzo. Stiamo lavorando con il Congresso per creare fondi d’investimento in Tunisia e in Egitto, sul modello di quelli che furono messi in campo nell’Europa dell’est dopo la caduta del Muro di Berlino. Quarto, lanceremo un’iniziativa globale per ravvivare il commercio e le esportazioni di Medio Oriente e Nordafrica: se si toglie il petrolio, oggi le esportazioni dell’intera regioni sono pari a quelle della Svizzera.

Israele e Palestina
Voglio concludere parlando di un altro punto fondamentale del nostro approccio alla regione, che ha a che fare con il raggiungimento della pace. Per decenni, il conflitto tra Israele e il mondo arabo ha gettato un’ombra sull’intera regione. Per gli israeliani, ha significato vivere con la paura che i propri figli potessero saltare in aria su un autobus o colpiti da un missile nella loro camera. Per i palestinesi, ha significato la sofferenza e l’umiliazione dell’occupazione, la vita in uno Stato che non gli appartiene. Inoltre, questo conflitto ha avuto un costo per tutto il Medio Oriente, impedendo partnership e alleanze che potrebbero portare maggiore sicurezza e prosperità.

La mia amministrazione ha lavorato per due anni con le due parti e con la comunità internazionale per finire questo conflitto, e ancora le nostre aspettative sono lungi dall’essere soddisfatte. Il programma di insediamenti israeliani sta procedendo. I palestinesi hanno abbandonato il negoziato. Il mondo guarda a questo conflitto che va avanti da decenni e lo vede in fase di stallo. Infatti, c’è chi sostiene che il cambiamento e l’incertezza riguardo il futuro della regione rendano impossibile andare avanti, arrivare alla pace.

Non sono d’accordo. Nel momento in cui le persone del Medio Oriente e del Nordafrica si stanno liberando dalle catene del passato, la sfida per una pace giusta e duratura che concluda questo conflitto si rende più urgente che mai.

Gli sforzi di delegittimare Israele da parte dei palestinesi sono destinati a fallire. Le azioni simboliche per isolarlo alle Nazioni Unite, a settembre, non porteranno alla creazione di uno stato indipendente. I leader palestinesi non otterranno né pace né prosperità se Hamas insisterà sulla strada del terrore e del rifiuto di qualsiasi negoziato. E i palestinesi non raggiungeranno mai l’indipendenza negando a Israele il diritto di esistere. Dall’altra parte, sì, la nostra amicizia con Israele ha radici profonde e valori condivisi. Il nostro impegno per la sua sicurezza è inamovibile, e ci opporremo ai tentativi di isolarlo nei contesti internazionali. Ma proprio per via della nostra amicizia, è importante che gli Stati Uniti dicano a Israele la verità: lo status quo è insostenibile e Israele deve prendere azioni concrete verso la pace.

Già oggi un numero crescente di palestinesi vive a ovest del fiume Giordano. La tecnologia renderà sempre più complicato difendersi, per Israele. La comunità internazionale è stanca di questo processo di pace infinito che non porta mai a niente. Il sogno di uno stato ebraico e democratico non è compatibile con uno stato di occupazione permanente.

In ultima analisi, tutto sta agli israeliani e ai palestinesi. Non c’è pace che possa essere imposta loro dall’esterno, ma rinviare il problema all’infinito non lo risolverà. Quello che gli Stati Uniti e la comunità internazionale possono fare è dire con franchezza quello che tutti sanno: che una pace duratura potrà esserci solo con due stati per due popoli. Israele come stato ebraico, patria per il popolo ebraico, e la Palestina come patria dei palestinesi. Autodeterminati, reciprocamente riconosciuti e pacifici.

Se i punti chiave di questo conflitto dovranno essere discussi, la base di questo negoziato è chiara: una Palestina indipendente, un Israele sicuro. Gli Stati Uniti pensano che questi negoziati debbano fornire due stati, con l’istituzione di confini permanenti e ufficiali tra la Palestina e Israele, Giordania ed Egitto, e di Israele con la Palestina. I confini di Israele e Palestina dovrebbero essere basati su quelli del 1967, con delle correzioni stabilite di comune accordo, così che possano essere individuati e stabiliti confini sicuri. Il popolo palestinese ha il diritto di governarsi e realizzare le proprie potenzialità in uno stato sovrano.

Dal punto di vista della sicurezza, ogni stato ha il diritto all’autodifesa e Israele dev’essere capace di difendersi da sé contro qualsiasi minaccia. Bisognerà prendere provvedimenti robusti abbastanza da prevenire il risorgere del terrorismo, da fermare il commercio clandestino di armi e rendere i confini effettivamente sicuri. Il completo ritiro delle truppe militari israeliane dalla Palestina dovrà coincidere con l’assunzione di responsabilità del governo palestinese per quel che riguarda la sicurezza loro e dei loro vicini, in uno stato sovrano e non militarizzato. La durata di questo periodo di transizione dev’essere condivisa, e il funzionamento dei provvedimenti adottati dovrà essere concretamente dimostrato.

Questi principi possono fare da base ai negoziati. I palestinesi conoscano i confini del loro futuro Stato. Israele sappia che le sue preoccupazioni sulla sicurezza saranno soddisfatte. So che questo da solo non basterà a risolvere il conflitto. Ci sono due altri nodi, intricati e sensibili: il futuro di Gerusalemme e il destino dei profughi palestinesi. Ma fare dei passi avanti adesso sulla base dei confini territoriali e la sicurezza non può che aiutare a risolvere anche questi due problemi in un modo equo, che rispetti i diritti di israeliani e palestinesi.

Certo, dire che questo negoziato può già cominciare non vuol dire che sarà facile farlo. In particolare, il recente annuncio di un accordo tra Hamas e Fatah suscita in Israele domande profonde e legittime: come si può fare un negoziato con una parte che non riconosce il tuo diritto a esistere. Nelle settimane e nei mesi a venire, i leader palestinesi dovranno fornire una risposta credibile a questa domanda. Nel frattempo, gli Stati Uniti, il Quartetto e gli Stati arabi dovranno fare ogni sforzo per superare l’attuale empasse.

La speranza
Per tutte le sfide che abbiamo da affrontare, ci sono molte ragioni di speranza. In Egitto abbiamo visto la speranza negli sforzi dei giovani che hanno guidato le proteste. In Siria, l’abbiamo vista nel coraggio di chi affrontava i proiettili gridando "pace", "pace". A Bengasi, una città minacciata dalla distruzione totale, l’abbiamo vista nel tribunale in cui le persone si sono riunite per celebrare la conquista di una libertà che non avevano mai conosciuto. In tutta la regione, i diritti che noi diamo per scontati sono acclamati con gioia da chi sta tentando di liberarsi da una morsa d’acciaio.

Per noi americani queste scene di rivolta possono essere spiazzanti, ma conosciamo bene le forze che le guidano. La nostra stessa nazione è stata fondata sulla base della ribellione contro un impero. Il nostro popolo ha combattuto una sanguinosa guerra civile che ha esteso le nostre libertà e ha restituito dignità a chi era schiavizzato. Io non sarei qui, oggi, se le precedenti generazioni non avessero scelto la forza morale della non violenza come strada per arrivare a un’unione ancora più perfetta ["a more perfect union", parole della Costituzione americana, ndr], organizzandosi, marciando e protestando insieme e pacificamente, allo scopo di mettere nero su bianco le parole che ci hanno proclamati nazione: "Noi consideriamo le seguenti Verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati eguali"

Queste parole guidino la nostra risposta al cambiamento che sta trasformando Medio Oriente e Nordafrica: sono parole che dicono che la repressione fallirà, che i tiranni cadranno, che ogni uomo e ogni donna sarà dotato di certi diritti inalienabili. Non sarà facile. Non c’è una linea dritta verso il progresso, le difficoltà accompagnano sempre le stagioni di speranza. Ma gli Stati Uniti d’America sono stati fondati sul principio che le persone dovrebbero avere il diritto di governarsi. Ora, non possiamo esitare a schierarci dalla parte di chi sta cercando i propri diritti, consapevoli che il loro successo creerà un modo più pacifico, più stabile e più giusto.

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