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Non voglio dire che non ci possano essere ambiti di riflessione nei quali ci si interroghi mettendo da parte gli abiti delle appartenenze o del vittimismo, ma che questo possa diventare un movimento di opinione capace di indurre ad una nuova coscienza collettiva mi sembra del tutto improbabile, anche per effetto del vento che soffia in Europa e del quale la vicenda balcanica di fine secolo non era – a ben vedere – che un’anticipazione. Del resto, nel non aver fatto tesoro del Novecento abita il rinascere dei nazionalismi o il virus mai debellato del razzismo in Europa, tanto che al “Deutschland über alles” si è sostituito un “Prima noi” divenuto la parola d’ordine del moderno populismo.

A meno che… un semplice gesto non possa mettere in moto un effetto di imprevedibile contagio, un fiore che diviene una forma irrefrenabile di obiezione di coscienza a dispetto degli imprenditori della paura che, in queste latitudini, sono anche i signori della guerra.

 

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Jovan mi chiama da Belgrado e mi dice che a Srebrenica vorrebbe venire anche lui, portando un fiore per le migliaia di vittime che lì dimorano. Con il professor Jovan Teokarevic1 nel corso degli anni seguiti alla tragedia che ha spazzato via la Jugoslavia è nata un’amicizia profonda a partire da una comune idea: la strada per uscire da quella follia avrebbe potuto essere l’Europa. O, meglio, il progetto politico europeo, come risposta ai nazionalismi ma soprattutto come spazio culturale e politico nel quale scardinare i vecchi paradigmi che hanno segnato il Novecento definendo un nuovo racconto sovranazionale in dialogo con il mondo.

Proprio la nascita di un progetto transeuropeo come Osservatorio Balcani Caucaso rappresentò nei primi anni del nuovo secolo il terreno di una comune riflessione, a partire dalla straordinaria metafora rappresentata da quel fiume oltre le nazioni che è il Danubio. Forum, convegni, seminari, incontri formativi, scambi fra Università, viaggi di studio… per far vivere, prima ancora che le istituzioni facessero la loro parte, l’idea di un’Europa oltre i confini.

Per poi trovarsi a dover prendere atto che l’Unione Europea dopo la prima fase di allargamento si andava arenando nell’incapacità di darsi una Costituzione inclusiva e di far crescere quel processo condizionale che avrebbe potuto dar vita ad uno spazio rilevante di uguaglianza sociale e civile. Il contrario cioè del proliferare di paesi offshore in balia di mafie e di poteri che proprio nella deregolazione traevano enormi vantaggi e dove il confine fra criminalità e legalità diveniva sempre più sfumato.

E malgrado un’intera generazione di giovani avesse imparato a viversi come cittadini europei, quel progetto politico non solo si è fermato ma ha visto prendere corpo, nel crescere delle diseguaglianze e dell’insostenibilità dei modelli di sviluppo ereditati dal passato, una diffusa avversità, traducendo la paura e il rancore in sovranismo e filo spinato.

Jovan ha continuato a lavorare con gli studenti di scienze politiche a Belgrado e in diverse Università europee per far crescere al contrario la conoscenza e la sensibilità verso la prospettiva di una casa comune europea, ma la fatica di questo andare controcorrente affiora oggi nelle sue parole. Sappiamo entrambi quanto fossero fondate le preoccupazioni di Giuliano Amato nel rapporto conclusivo della Convenzione sul futuro dell’Europa quando scrisse (era il 2005) che l’Europa si fa o si disfa nei Balcani. Ed oggi nonostante l’amore per il suo lavoro e l’intelligenza che gli permette di guardare con ironia alle cose del mondo (e che per fortuna da queste parti non manca) anche la prospettiva europea deve fare i conti con la crisi che l’attraversa e con il vento sovranista che ne mina il significato.

Prospettiva che appare ancora lontana. «… in questi tempi ipocriti in cui, nonostante i proclami, c’è meno Europa di cento anni fa» scrive Paolo Rumiz2 a proposito dei collegamenti ferroviari fra occidente e oriente. E i camion che attraversano i confini interni all’Europa non sono esattamente espressione di un incontro di civiltà.

Ci diamo appuntamento a Bratunac, collegata pressoché quotidianamente con bus a Belgrado, ma poi all’ultimo momento non ce la fa a raggiungermi. L’intenzione è solo rimandata. Ci incontreremo il giorno successivo nella vecchia capitale jugoslava, la sua città.

 

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La Drina non è solo uno dei grandi fiumi della vecchia Jugoslavia. La Drina rappresenta uno spartiacque geopolitico che attraversa i Balcani dal Montenegro fino a quell’incrocio di fiumi che 346 chilometri più a nord che segna il confine fra Bosnia, Serbia e Croazia.

Nella storia è stata l’antica linea di demarcazione tra Impero romano d’Oriente e d’Occidente, fra dominazione ottomana e asburgica, occupazione nazifascista e resistenza partigiana.

Con le sue dighe rappresentava il fiore all’occhiello della capacità dell’uomo di imbrigliare le forze della natura a sostegno dello sviluppo industriale della Jugoslavia socialista; con le sue infrastrutture viarie (la “partizanski put”) la forza di volontà del lavoro gratuito (ma anche di quello forzato) che garantiva il collegamento fra Sarajevo e Belgrado.

La Drina è il suo leggendario ponte costruito dall’architetto Mimar Koca Sinan nel 1577 ed intitolato al gran visir Mehmed Pasa Sokolovic per unire le sue sponde nella città di Visegrad. Ed insieme il più grande riconoscimento letterario (Il ponte sulla Drina) con il premio Nobel per la letteratura del 1961 a Ivo Andric.

Drina è anche la marca delle sigarette più popolari della vecchia Jugoslavia che si fabbricano dal secondo dopoguerra in Bosnia Erzegovina, fra i pochi marchi sopravvissuti alla sua scomparsa.

Durante la guerra degli anni ’90 “Drina” era il nome di un corpo militare dell’Esercito della Republika Srpska (il Vrs Drinski Corpus) comandato da Radislav Krstic, criminale di guerra e fra i responsabili del genocidio di Srebrenica ed in quanto tale il primo ad essere condannato dal TPI per genocidio. La Valle della Drina divenne infatti nella prima metà degli anni ’90 il territorio della più sistematica pulizia etnica da parte dei nazionalisti serbi che ebbe il suo epilogo nel genocidio delle popolazioni mussulmane che avevano trovato rifugio nell’enclave – che avevano immaginata protetta – di Srebrenica.

Insomma, un fiume che – nella sua dimensione simbolica – più che rappresentare un crocevia del molteplice è diventato, nel passaggio fra una storia finita ed una ancora indefinita, un ingorgo impazzito. Come ad anticipare, ancora una volta, la crisi dell’Europa

Bisogna andarci a Visegrad, la città del ponte raccontato da Ivo Andric, per comprendere quanto la dimensione del simbolico conti, dopo la tragedia degli anni ’90, tanto nel considerare quel manufatto come una cosa estranea a quel che rimane di quella città dopo la pulizia etnica, quanto nell’ingorgo ideologico che ha portato il regista Emir Kosturica a realizzare “Andricgrad”, finzione kitsch così lontana dal carattere schivo dello scrittore jugoslavo e destinata, nonostante il grande dispendio di denaro, al museo degli orrori.

Ed è lungo questo fiume che prendiamo la via di Belgrado, dove ci aspetta Jovan. Ci porterà attraverso i luoghi significativi del centro storico della vecchia capitale jugoslava proprio nei pressi della statua che ricorda lo scrittore bosniaco, qui in maniera sobria e che restituisce la discrezione dello scrittore premio Nobel per la letteratura, nel parco davanti al palazzo del Parlamento.

 

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Ivo Andric, nel suo raccontare un paese dove Oriente e Occidente si sono incontrati (e scontrati), rivendicava non l’equidistanza fra Roma e Bisanzio, bensì la sua “equovicinanza”. «Con Roma e con Bisanzio» amava dire, ed era un programma politico che lo distingueva da un altro scrittore forse più organico alla terza via titoista come Miroslav Krleza. Un’eredità culturale – quella di Andric – oggi violentata da una lettura che qualcuno vorrebbe ricondurre non alla ricerca di unità degli slavi del sud ma ad una sua componente. Così l’impermeabile dello scrittore viene stiracchiato in maniera indecente o, per altro verso, gettato nell’oblio.

Ma che cos’era quel racconto ambientato nei pressi di quel ponte controverso, costruito di giorno dall’ingegno ottomano e sabotato nottetempo dal rancore di chi non ne voleva sapere di un progresso immaginato come foriero di sventura? Se non la disputa fra il ferro moderno e il sapere antico dopo che il centro del mondo si era spostato da Oriente ad Occidente, capovolgendo la storia precedente? Quel ponte che, in una nuova prospettiva, riuniva appunto Roma e Bisanzio.

Così i fiumi nel loro attraversamento sopra i confini divengono altrettante metafore della storia. Come il Danubio del cui ecosistema fa parte, la Drina nasce in Montenegro, entra i Bosnia, accosta la Serbia ed entra nella grande Sava. Che a sua volta nasce dal Monte Triglav nell’interfacciarsi di Italia, Austria e Slovenia (di cui è il simbolo), attraversa la Croazia, costeggia la Bosnia ed entra nel grande disegno europeo che il Danubio con i suoi 2888 chilometri simbolicamente rappresenta. Dalla fortezza di Kalemegdan, nel centro di Belgrado, lo spettacolo è maestoso.

 

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Dello spirito europeo di Belgrado Jovan è figlio. Lo spirito di una città oggi per la verità provata dal tempo, da un Novecento che l’ha segnata bombardandola ripetutamente, dalle guerre che ne hanno alterato la natura cosmopolita, dal rancore verso l’Occidente che l’ha spinta verso altre simmetrie geopolitiche e culturali, da un’esperienza come quella del comunismo che l’ha ingrigita, dall’impoverimento che l’isolamento e l’embargo economico hanno prodotto nella sua gente. Ma che pure vive nei caratteri profondi di questa città che anche delle avversità si fa beffa. Come quando, nel 1999, durante i bombardamenti della Nato, gruppi di giovani salivano sui tetti dei palazzi a scommettere che cosa avrebbe colpito il successivo missile Cruise lanciato dal mare Adriatico dalla Nato.

Che ritrovi nei palazzi o nei grandi alberghi di Belgrado, nei suoi imponenti bulevard, nel portamento elegante delle persone anziane che frequentano Kneza Mihaila3, nel fascino decadente (e fin troppo turistico) della Skadarlija, nelle storie della “Casablanca serba”4 raccontata dai giovani scrittori belgradesi accomunati da «una distanza urbana dall’isteria nazionalista», nella società belgradese che sapeva esprimere un sindaco come Bogdan Bogdanovic5 e in tante altre cose.

«Nel farsi e disfarsi della storia – scrive Nicole Janigro – Belgrado ha subito metamorfosi che incarnano contemporaneamente mitiche fisionomie metropolitane: da Chicago degli anni venti a Berlino degli anni trenta, da Casablanca degli intrighi spionistici degli anni quaranta a Saigon edonista e cataclismatica degli anni sessanta. Anche il paesaggio ne porta le tracce. Il centro storico che qui e là pare periferia, le panchine nel parco della fortezza di Kalemegdan crocicchio di profughi, i palazzi screpolati corrosi all’interno da un degradante abbandono, le costruzione kitsch dei businessmen malavitosi che, sulla collina di Dedinje, hanno sostituito le ville nascoste della nomenclatura comunista ansiosa di copiare il decoro borghese. E il Danubio, nel punto focale dove le sue acque incontrano quelle della Sava, inghiottitore silenzioso di cadaveri, testimone di risse e bevute dei signori della guerra, di gare spericolate di motoscafi, di matrimoni finiti in funerali, di cerimonie di addio fra chi si sentiva troppo vecchio per partire e chi invece troppo giovane per rimanere e marcire»6.

Difficile insomma nel centro di Belgrado imbattersi in una krcma7 e qui, come nelle altre grandi città jugoslave negli anni in cui montava il disastro, delle “maschere” che avrebbero portato la gente al massacro (per usare l’espressione del vecchio libro di Paolo Rumiz che ancora mantiene intatto il proprio valore8), si rideva non cogliendo la loro tragica modernità. Come in Italia, del resto, di fronte a fenomeni da baraccone che poi ci siamo trovati, nella loro capacità di sintonizzarsi sugli umori, nelle stanze del potere.

Jovan ci mostra fra l’altro il palazzo dove aveva sede la Lega dei Comunisti quando lui era più giovane e che ora ospita il Museo storico della Serbia: sorridiamo nel vedervi campeggiare l’immagine di una delle dinastie monarchiche della Serbia. Non male come nemesi.

Qui forse più che altrove l’ironia diviene una forma di sopravvivenza. Anche l’antica fortezza e il suo grande parco che sovrasta l’incontro fra la Sava e il Danubio, pur mantenendo intatto il fascino della natura (ma anche della moltitudine che lo frequenta come luogo d’incontro) e che per vent’anni ho indicato a chi mi ascoltava come la più grande metafora europea, considerati gli acciacchi della vecchia Europa oggi fa insorgere un’amara ironia, come se un appuntamento fosse sfumato per sempre.

Un po’ per questo e un po’ per l’ora tarda, desisto dallo svolgere qui con Jovan un momento di riflessione sulla nostra casa comune. In realtà ho più voglia di rakija che di parlare del vuoto politico siderale o delle occasioni mancate. E anche per Jovan è così, tanto che dirottiamo il nostro bus verso Zemun, un tempo l’ultima riva danubiana dell’impero asburgico dove andiamo a cenare per goderci da qui lo spettacolo del fiume della melodia9 che entra nella città.

Non riesco a nascondere il mio pessimismo davanti allo sgretolarsi dell’unico disegno politico – quello europeo – che avrebbe potuto riaprire una nuova dialettica globale e per il quale ho dedicato un segmento importante della mia vita. E tanto meno di fronte al cameriere compagnone che, come scrive Rada Ivekovic «reagisce positivamente all’appellativo “Eh, fratello mio”, Hei burazeru!»10, che mi considera un povero deficiente da spennare nel “casinò totale” cui sono ridotte le relazioni umane.

Eppure c’è qualcosa che mi frulla in mente fin dal giorno precedente e di cui non ho ancora fatto parola con questo caro amico che pensa europeo in questa città che ha tante risorse umane e intellettuali e che forse potrebbe più di altre mettersi alle spalle l’incubo in cui si è cacciata.

 

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Uno dei meccanismi perversi degli anni ’90 è stato quello di identificare i criminali che avevano intravisto nella deregolazione estrema della guerra una fonte di arricchimento e di potere con la popolazione di cui esibivano i simboli nazionali e religiosi. Laddove questi coincidevano le cose diventavano oltremodo complicate, ma non per questo meno ingannevoli. E’ bastato far leva sul vittimismo identitario e l’inganno etnico è stato un gioco da ragazzi. Chi si chiamava fuori era semplicemente un traditore della patria.

Questo ovviamente non toglie nulla alla responsabilità collettiva di cui parla Karl Jaspers11 nel suo chiamare in causa il concetto di colpa politica e morale. O forse conoscete una dittatura in Europa che non abbia avuto un grande consenso popolare?

Ma al tempo stesso sarebbe profondamente ingiusto non dare voce a chi ha avuto (ed ha) il coraggio di non allinearsi, alle persone che hanno denunciato l’imbroglio etnico o anche solo a chi ha saputo nel tempo riconoscerlo, trovando la forza di abbattere Milosevic malgrado il soccorso che veniva dall’occidente e anche dall’Italia, come nel caso dell’affare Telekom Serbia12. O di compiere un gesto tanto semplice eppure così difficile come chiedere “perdono”.

Quel che mi frulla per la testa non ha a che fare con tribunali, né con improbabili commissioni per la verità e la riconciliazione. Le strade a volte sono molto più semplici di quel che possiamo immaginare.

E la strada me l’ha indicata proprio Jovan, nella sua volontà di un gesto individuale di riconciliazione. E’ il tempo di un gesto semplice, forte e nonviolento. Forte perché nonviolento e perché rompe le appartenenze. E che, se divenisse collettivo, oltre agli steccati, potrebbe rompere l’incubo di una narrazione fondata sul complotto, sul martirio e su tutto il resto.

Mi viene in mente la lunga lettera che all’inizio degli anni ’80 un giovane tedesco scrisse a Vladimir Jankelevitch dopo l’uscita de L’imprescriptible13 e che inizia così: «Io non ho ucciso ebrei. Che io sia stato tedesco, non è una mia colpa né un mio merito… Io sono del tutto innocente rispetto ai crimini nazisti; ma questo non mi consola affatto. Non ho la coscienza tranquilla e provo un misto di vergogna, pietà, rassegnazione, tristezza, incredulità, rivolta. Non dormo sempre bene. Spesso resto sveglio durante la notte, e rifletto, e immagino…». E la risposta del filosofo francese di origine russa che scrive: «Caro Signore … ho atteso questa lettera per trentacinque anni…»14.

Quello che mi frullava in testa, un fiore su ogni stele di Srebrenica, portato in un giorno di libertà da parte del “nemico”.

Srebrenica, ottobre 2018

 

1Jovan Teokarevic, professore all’Università di Scienze politiche di Belgrado

2Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi. Feltrinelli, 2014

3La parte pedonale nel centro di Belgrado

4A cura di Nicole Janigro, Casablanca serba. Feltrinelli, 2003

5Bogdan Bogdanovic, architetto e sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986

6Nicole Janigro. Prefazione di Casablanca serba. Feltrinelli, 2003

7La balkanska krcma, la locanda balcanica.

8Paolo Rumiz, Maschere per un massacro. Editori Riuniti, 1996

9Come lo definisce il poeta tedesco Friedrich Hölderlin

10Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani. Raffaello Cortina editore, 1999

11Karl Jaspers, La questione della colpa. Raffaello Cortina editore, 1996

12Grazie ai proventi del quale Milosevic prolungò di qualche tempo il suo governo.

13Vladimir Jankelevitch, Perdonare? Giuntina, 1987

14Jacques Derrida, Pedonare. Raffaello Cortina Editore, 2004

 

1 Comment

  1. Mauro Arnese ha detto:

    Grazie Michele, te lo dico con gli occhi umidi, sono davvero bellissime parole di speranza. Ti abbraccio, Mauro.