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di Michele Nardelli
(3 maggio 2015) Con questa nota so che rischio di scontentare i più, ma fa niente. Ritengo però che il dibattito attorno alla riforma del sistema elettorale, in Parlamento e fuori, abbia assunto toni così pesanti che rischia di lasciare dietro di sé macerie e ponti abbattuti. Permettetemi allora di dire che non sono d’accordo.
Non condivido le posizioni di Renzi e della maggioranza del PD che fanno della riforma elettorale la madre del cambiamento politico. Non credo affatto che sia così. Personalmente sono convinto che il sistema proporzionale dia le maggiori garanzie di rappresentazione democratica e che l’obiezione sulla governabilità debba essere affrontata attraverso l’esercizio della politica, della ricerca del compromesso (che non è affatto un esercizio disdicevole, anzi), prima e dopo l’esito elettorale. Che la capacità di dialogo e di ascolto sia una prerogativa del dibattito parlamentare (e non solo), nel quale gli eletti non devono avere alcun vincolo di mandato che non sia la propria coscienza. Che si possa governare anche stando all’opposizione, nell’esercizio di una forte dialettica fra cittadini, parlamento e governo. Che la cultura maggioritaria, la logica del “chi vince piglia tutto“, non faccia bene alla democrazia e generi deliri di onnipotenza in chi la esercita. E, infine, che la legge elettorale oggi in via di approvazione sia figlia della cultura plebiscitaria.
Non condivido altresì le posizioni di chi, stando all’opposizione, grida allo strappo democratico o al fascismo. Certo, l’uso della fiducia per la legge elettorale non è il modo migliore di mettere mano alle regole e, al contrario, è segno di grande debolezza (e semmai di scarsa cultura istituzionale). Ma quel che si vota in questi giorni alla Camera dei Deputati non è poi molto diverso dalle leggi regionali (o di altri paesi) che prevedono premi di maggioranza. Che di tali premi si avvalga un solo partito anziché la coalizione vincente, corrisponde all’idea che la dialettica fra i partiti (di una stessa coalizione) avvenga attraverso posizionamenti di potere piuttosto che nel confronto sui programmi. Avvallata, certamente, dallo stato di degenerazione in cui versano i partiti. Ma non sufficiente a motivare con questo una regola che sembra ritenere ineludibile (e dunque normale) l’incapacità della politica di svolgere il proprio ruolo. Del resto, il senso della politica è proprio questo, rappresentare le idee e ricercare punti d’incontro fra visioni (ed interessi) diversi. Voglio dire che ci sono buoni motivi per essere in disaccordo, ma non per gridare al fascismo o per evocare l’Aventino.
A guardar bene quel che il Governo Renzi ha proposto (e che il Parlamento italiano sta votando) altro non è che il frutto di una cultura che in varie forme attraversa questo nostro tempo. E’ questa una delle tante facce dell’antipolitica. Non quella del “sono tutti uguali“, dell’astensione dal voto, del diritto naturale in virtù del quale bisogna lasciar governare l’economia. E nemmeno quella, che pure si sta diffondendo, che tende a dividere il mondo in maniera manichea fra il bene e il male. Estirpando il male (degli altri, ovviamente), come se ognuno di noi non fosse portatore di questa contraddizione. Ma quella più sottile che porta ad avere fiducia nel leader piuttosto che nel collettivo, a guardare con sospetto ogni forma di bilanciamento istituzionale dei poteri, ad affermare che la dialettica fra maggioranza ed opposizione è “consociativismo“.
Mi preoccupa molto di più la progressiva omologazione nei contenuti, il centralismo che tende ad accomunare maggioranza ed opposizione, la deriva della paura nel pensare di poter gestire i fenomeni migratori con gli strumenti dell’ordine pubblico, l’indifferenza verso l’insostenibilità nell’utilizzo delle risorse globali che di fatto significa accettare la divisione del mondo fra inclusione ed esclusione, l’uso della guerra come strumento di accesso alle risorse strategiche (ed il portato di spese militari che ne viene), l’affrontare il tema del lavoro attraverso l’insana idea della crescita illimitata piuttosto che una sua riconsiderazione in virtù di stili di vita più sobri e così via.
Con questo non voglio affatto negare l’importanza delle forme attraverso le quali i cittadini partecipano alla vita di una comunità, locale, nazionale o sovranazionale che sia. Ma il tema è ben più vasto della riforma elettorale, investe la nostra capacità di abitare questo tempo attraverso nuove chiavi di lettura e strumenti partecipativi che ci aiutino a cambiare davvero i paradigmi di una cittadinanza sempre più interdipendente.
Ancora una volta, il dito o la luna?
2 Comments
Caro Michele, una discussione sulla legge elettorale necessita di una premessa che indichi quello che si ritiene sia il ruolo delle elezioni, ossia le ragioni per cui siamo chiamati al voto.
Ora, in un sistema parlamentare come quello italiano nel quale le elezioni politiche nazionali hanno il compito di individuare i componenti il Parlamento il quale, successivamente, voterà il presidente del consiglio e il governo, si presume che la votazione dovrà esprime una rappresentanza che, pur con tutti i correttivi del caso, fotograferà in maniera sufficiente anche se non in maniera fotocopia il paese reale. Detto in altri termini il principio di rappresentanza è un nodo che non può non essere valutato nelle discussioni sulle leggi elettorali. E’ ben vero che la Corte Costituzionale ha bilanciato questo principio con un altro che va sotto il nome di governabilità, ma, come spesso ci ha ammonito la stessa Corte, i principi devono trovare un loro equilibrio. In questo caso l’equilibrio è possibile trovarlo solo non comprimendo totalmente il principio di rappresentatività, specie in assenza di elementi di limiti all’esercizio del potere che la responsabilità di governare porta necessariamente con sé.
Da questa premessa è evidente che a mio avviso la legge in discussione non ha le caratteristiche per essere considerata positivamente. In realtà fin dalle premesse era chiaro che per i promotori della legge lo scopo delle elezioni non è, o per lo meno non è solo, l’elezione del parlamento ma anche di fatto del potere esecutivo con una forzatura in senso presidenzialista di tutto l’impianto istituzionale italiano, usando un’espressione forse non totalmente corretta ma sufficientemente didascalica. L’importante non è la rappresentanza dei diversi interessi e delle diverse visioni ma, come viene affermato, “sapere la sera delle elezioni chi ha vinto”. Per ottenere questo compito che sia una minoranza del paese senza limiti a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi non sembra preoccupare. Invece è proprio questo il limite maggiore della legge in approvazione dalla camera. Col meccanismo individuato, qualora, come è molto probabile, al primo turno nessuna forza politica abbia ottenuto la percentuale prevista, 40%, per il premio di maggioranza (e già in questo caso una forzatura sul concetto di rappresentanza è presente anche se è vero quello che molti osservano che ciò è già previsto in molte leggi elettorali regionali), concorrendo al secondo turno i soli due partiti maggioritari, ma sempre estremamente minoritari nel corpo elettorale, si avrà il risultato di un premio di maggioranza estremamente elevato. Per fare un esempio pratico; prendendo per buoni gli ultimi sondaggi andrebbero al ballottaggio il PD col 35% dei voti e il M5S col 21%. In caso di vittoria del PD il premio sarebbe pari al 20%, in caso di vittoria del M5S il 35%. Non solo; i due partiti sommati avrebbero il consenso del 56% degli elettori (quelli che si esprimono perché in realtà il consenso è molto minore se teniamo conto dei non votanti, astenuti, nulli e schede bianche). Ebbene al secondo turno l’altro 44% dei votanti andrebbe a votare solo in senso negativo, ossia sceglierebbe, qualora volesse esprimersi, contro quello che riterrebbe maggiormente negativo rispetto ai suoi interessi e/o visioni del mondo. In questa logica nulla vieta di pensare (è già successo in alcune elezioni amministrative) che la maggioranza vada al M5S in quanto raccoglitore dei peggiori istinti negativi presenti negli elettori; esso è proprio il contenitore adatto a raccogliere il voto negativo. I sostenitori della legge affermano che questo effetto è inevitabile in un sistema elettorale a doppio turno, quello che dimenticano è che il sistema elettorale a doppio turno proposto in passato (anche all’interno del PD) e vigente, per esempio, in Francia si riferisce sempre a un doppio turno di collegio , mai a un collegio unico nazionale che, per sua natura, amplifica la non corrispondenza tra votanti e risultati elettorali. Altra dimenticanza nel commento favorevole è quella di non evidenziare come nei doppi turni attuali e proposti in passato si parlava sempre di coalizioni e apparentamenti in modo da diminuire sempre il gap tra risultato e rappresentatività che nella proposta diventa comunque abnorme. Il sistema democratico è un sistema non efficiente per sua natura basando la sua forza sulla ricerca di consenso e, quindi, c’è sempre la necessità di cercare un compromesso tra rapidità di scelte e necessità di dialogo. Per queste ragioni il sistema elettorale proporzionale, in teoria più democratico, ha delle controindicazioni che nel tempo si sono manifestate e per cui si è cercato un correttivo cosiddetto maggioritario ma questo correttivo non può dimenticare che la forza del sistema democratico sta proprio nella costruzione di regole per cui tutti (o quasi) si riconoscono in un risultato che li può vedere anche perdenti purché le loro ragioni non siano totalmente annullate. Se, al contrario, il sistema di rappresentanza non permette per sua natura costitutiva nessuna dialettica successiva alle elezioni è evidente che i ceti, gli interessi, le visioni del mondo, che non possono avere successo neppure come minoranze, troveranno altri canali di rappresentazione passando da una rappresentanza istituzionale ad una effettuale (avere visibilità con gli effetti delle azioni intraprese) in una dialettica politica che potrà avere effetti anche molto negativi in termini di contrasti politico sociali. Quindi è vero che alzare troppo i toni è eccessivo, parlare di fascismo è sbagliato, utilizzare termini, democratura, costruiti per altre situazioni politiche mondiali (in questo caso per la Russia da parte di Limes) è banalizzare analisi più raffinate e conferma quelle modalità di fare dibattito politico che privilegia le esternazioni mediatiche al faticoso “entrare nel merito delle questioni” ma non si può non sottolineare che con una legge come quella approvata si è modificato profondamente l’equilibrio tra poteri dello stato e, contemporaneamente, si da una forte spinta alla non partecipazione al voto da parte di coloro che non possono riconoscersi nelle forze politiche vincenti.
Caro Flavio, grazie per questo tuo contributo di analisi che condivido e che faccio mio.