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2018 – 2020. Di un’agenda politica comune e dei margini sensibili da cui partire
1 Febbraio 2018
Manifesto
Interdipendenza e autogoverno
9 Febbraio 2018
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2018 – 2020. Di un’agenda politica comune e dei margini sensibili da cui partire
1 Febbraio 2018
Manifesto
Interdipendenza e autogoverno
9 Febbraio 2018

Proprio alla luce di quella difficile transizione in realtà mai conclusa, posso affermare che il passaggio che oggi viviamo mi appare ancora più inquietante, il crepuscolo di un sistema. E’ la fine di un contesto – come osserva Federico Zappini nella sua stimolante riflessione (https://pontidivista.wordpress.com/2018/02/01/di-unagenda-politica-comune-e-dei-margini-sensibili-da-cui-partire/) – che non investe solo i partiti bensì l’insieme dei corpi intermedi, è cioè crisi culturale e sociale prima ancora che politica. E’ l’offuscarsi dei significati e, con il venir meno delle tradizionali soggettività sociali, lo spaesamento e la solitudine.

In Trentino assume i tratti dello sfarinarsi del blocco sociale che ha reso possibile l’anomalia, quel tessuto fatto di un diverso assetto proprietario che trovava rappresentazione nel movimento cooperativo, nel mutualismo e nella finanza di territorio; di un movimento sindacale che seppe anticipare processi aggregativi oltre le tradizionali appartenenze ideologiche ed innovare le risposte alla crisi industriale nel rapporto lavoro /ambiente; di un volontariato diffuso come forma di autogoverno e di partecipazione responsabile; di una vivace rete di associazioni che nascevano attorno alle grandi sfide planetarie e che ponevano domande alte che investivano il futuro; di luoghi di studio, formazione e ricerca che alzavano lo sguardo oltre le emergenze e sarebbero diventati eccellenze a livello europeo.

Qui dovremmo aprire e chiudere una parantesi sulla fragilità di questo tessuto e sulla crisi delle classi dirigenti, e dunque (almeno per la mia generazione) sulle nostre stesse responsabilità. Tema tutt’altro che banale, ma non è l’oggetto di questa riflessione.

Oggi, a differenza degli anni ’90, dal crepuscolo di un sistema non se ne esce inventandosi qualcosa. Voglio dire che la sola sperimentazione politica non basta. Occorre ritessere un tessuto sociale (ci torno) e prima ancora indagare le idee, quella crisi di sguardo – ovvero di chiavi interpretative e di visione – che oggi devasta non solo la politica ma la società nel suo insieme. Perché come ha scritto in questi giorni Ezio Mauro «la mutazione in corso è innanzitutto culturale». E perché, riprendendo la citazione di Roberto Esposito nella riflessione di Zappini, «un intero universo concettuale sta andando in pezzi».

Mutazione profonda, epocale. Che oltrepassa i confini tradizionali che oltremodo si rivelano – malgrado il rigurgito sovranista – una rappresentazione obsoleta del reale. Come gran parte delle categorie usate sin qui per raccontare il presente.

Al crepuscolo del sistema dovrebbero corrispondere cioè nuovi paradigmi, ma invece non c’è ancora né la consapevolezza della fine di un’epoca, né tanto meno una riflessione sull’inadeguatezza degli strumenti interpretativi.

E così, oltre all’avvilente scenario di rappresentanze che si autotutelano, nello spostare l’attenzione sui contenuti si ripropone tutto l’armamentario di banalità di cui sono impregnati i programmi. Parole come crescita, lavoro, sicurezza, migrazioni, famiglia… non significano nulla se non in un rituale simbolico ed ideologizzante.

Perché invocare la crescita quando l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo porta questo pianeta a consumare dopo sette mesi quel che gli ecosistemi riescono a produrre in un anno? Un approccio responsabile verso il pianeta non dovrebbe portarci al contrario alla riconsiderazione di ciò di cui abbiamo davvero bisogno e quindi dei nostri consumi? Il lavoro è destinato a cambiare, sta già cambiando, e – per effetto delle nuove tecnologie – a diminuire. Il tema è dunque la sua riqualificazione e redistribuzione. E come dare valore al tempo che si libera per le funzioni di cura e di educazione/formazione permanente… Insisto, fare meglio con meno. Sapendo che maggiore consapevolezza significa più sicurezza, ovvero capacità/possibilità di prendersi cura del prossimo, perché questo è il significato di una parola, sicurezza, agitata come un mantra per invocare militarizzazione ed esclusione. E, infine, come immaginare di affrontare i flussi migratori se il nostro modello di sviluppo (e i nostri stili di vita) impoverisce la terra dove queste persone sono nate?

Qui, nell’incapacità di disegnare un futuro in discontinuità con un passato per nulla elaborato, abita il crepuscolo del sistema. E’ finito un tempo, ma il canovaccio di quello nuovo sembra per il momento inguardabile, diviso com’è fra liberismo e sovranismo, fra l’autoregolazione del mercato e il “prima noi”, fra Clinton e Trump. Non è forse questa la “dialettica possibile” rappresentata anche recentemente a Davos?

Una dialettica nella quale è faticoso riconoscersi, in fondo non molto diversa dalla rappresentazione elettorale che avviene negli Stati Uniti come in America Latina, in Europa come in Italia. E rispetto alla quale sembra del tutto assente un disegno alternativo. Perché non lo sono certamente le forme del populismo, pur nelle diverse versioni che abbiamo conosciuto in questo paese. E nemmeno quelle forme di neokeynesismo rappresentate da Sanders e Corbyn, espressione di «un vecchio umanesimo narciso e povero di mondo»2.

Ma, lo ripeto, non è solo un problema di narrazione politica. Se non vogliamo cadere nel soggettivismo è necessario interrogarsi sui processi sociali e culturali, laddove l’economicismo ha corporativizzato la società, l’atomizzazione e lo spaesamento trasformato le classi in agglomerati di individui soli e in sottrazione verso il prossimo.

E qui diviene particolarmente interessante la parte costruens della riflessione di Zappini, nel descrivere le forme nuove di cittadinanza e di azione politica. Nel ridisegnare ambiti di impegno sociale, di riappropriazione del territorio, di rigenerazione dei beni comuni… ma anche di «un mondo che attende di prendersi la ribalta che merita, sostituendo il precedente in esaurimento», creando così le condizioni di un «inedito inizio». Comprendere l’esaurirsi del “non più” e rendere possibile quello che sin qui abbiamo descritto come il “non ancora” e che spesso incontriamo nel nostro viaggio alla ricerca di pratiche buone ma soprattutto esigenti.

«Non manca molto» afferma Federico. La ricostruzione di un tessuto richiede pazienza, curiosità (il disporsi alla meraviglia) e, insieme, il coraggio della discontinuità.

La preoccupazione per il vento di destra, pericoloso ed aggressivo, che sembra piegare una società disorientata ed incattivita, non deve in ogni caso distoglierci da questo proposito. Che a ben pensarci è anche la condizione affinché la politica (le istituzioni, i partiti, l’associazionismo…) non diserti la propria funzione pedagogica e sappia fare tesoro del passato.

Non so ancora che cosa farò il 4 marzo, l’esercizio del «depotenziamento»3 di cui parla Marco Revelli in un suo saggio di qualche anno fa dedicato alla necessità di un nuovo paradigma politico, spero possa venirmi in aiuto. Anche perché l’uscita dallo schema della politica verticale costruita ad immagine e somiglianza dello “stato-nazione” non può che essere parte integrante di quel cambiamento di sguardo di cui avverto l’urgenza.

So, invece, che oltre quella data c’è un viaggio ancora largamente incompiuto4, fatto di idee, esperienze e connessioni da realizzare affinché un «inedito inizio» si possa almeno intravedere.

 

1Giuseppe Dossetti, Sentinella, quanto resta della notte? Riflessioni sulla transizione italiana. Edizioni Lavoro, 1994

2Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente. Bollati Boringhieri, 2016

3Marco Revelli, La politica perduta. Einaudi, 2003

4Il prossimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” sarà la Catalunya. Per chi fosse interessato, può scrivermi alla mail sol.tn@tin.it

 

5 Comments

  1. Vincenzo Calì ha detto:

    Giusto avvertimento: non saranno “lacrime e sangue” ma nemmeno passeggiate bucoliche. Attrezziamoci.

  2. Elena Nanci ha detto:

    É un sollievo leggere una riflessione che tenga conto della complessità del contesto in cui ci troviamo, pur mostrandone tutta la drammatica emergenza.

  3. Stefano ha detto:

    Molto interessante caro Michele, innanzitutto grazie!
    Come sai io lavoro esattamente nella direzione descritta da Zappini e da te. Noto perciò con un certo dispiacere come tutte queste correnti di pensiero generativo si muovano un po’ ognuna per conto proprio (o comunque cercando interlocutori tra simili), riducendo così la propria efficacia penetrativa e rappresentativa della realtà. Il pensiero senza connessione all’azione rischia il narcisismo così come l’azione senza connessione al pensiero rischia il donchisciottismo.
    Caro Michele, ti rivolgo perciò un appello accorato: metti insieme tutti e in modo permanente, così che si possa innescare concretamente una circolarità generativa tra pensiero e azione. Se vuoi, in questa direzione, io ti dò più che volentieri una mano, perché so che non è facile.
    Un saluto cordiale e a presto
    stefano

  4. roberto pinter ha detto:

    Un mondo migliore senza cambiare il mondo?

    E’ vero stiamo assistendo o meglio siamo parte di una mutazione profonda, la crisi di un sistema e l’incapacità di disegnare un futuro. E mi piacerebbe condividere l’idea di trovare una via d’uscita nelle nuove forme di cittadinanza e di azione politica, ma ho paura che non sarà così facile.
    Sono ottimista di natura ma uno dei problemi è stato proprio l’ottimismo riformista.

    Perché davanti ad un modello di sviluppo che ha disegnato questo disastroso pianeta la risposta non doveva essere l’ottimismo della ragione, l’entusiasmo della socialdemocrazia progressista, l’idea borghese e illuminista che la crescita avrebbe portato con se la soluzione di tutti i problemi. Perché la realtà è un’altra: un mondo di crescenti ingiustizie e regimi autoritari, lacerato dalle guerre e dal terrorismo, dalle paure e dai nazionalismi risorgenti.
    Il patto tra produttori e lavoratori che accettando il capitalismo lo compensava con maggiori diritti, è saltato perché non c’è più una classe operaia e anche la borghesia “sconfitta” sta scomparendo. E senza più i contraenti saltano il compromesso socialdemocratico e la democrazia non è più una certezza e il futuro fa paura.
    Che l’ottimismo riformista non fosse giustificato lo dimostra l’ingiustizia globale e lo conferma quanto sta accadendo con i processi migratori.
    Non si tratta solo di non aver capito che sarebbero state la logica conseguenza di quanto l’occidente ha prodotto nel mondo e che continua a produrre, ma di quanto fosse inadeguata la risposta.
    Certo che i numeri (quantomeno gli attuali numeri) delle migrazioni potrebbero essere gestite senza problemi dalle nostre società, certo che i migranti non sono che un piccolissimo problema rispetto ai problemi di ingiustizia e di illegalità, ma averlo pensato senza provare a governare la cosa non è stata una buona idea.
    Oggi i candidati del centro sinistra o sinistra sinistra balbettano imbarazzati, parlano di sicurezza e di fermezza e qualche volta di accoglienza, ma non possono spiegare che cosa hanno fatto, perché salvare i disperati si capisce ma abbandonarli poi nei centri di accoglienza è difficile da giustificare se si è stati al governo. Perché ci si affidava alla crescita economica come soluzione dei problemi, ma poi c’è stata la crisi e comunque la crescita con questo modello di sviluppo non fa altro che peggiorare le cose.
    Nel sostanziale fallimento dell’integrazione, anche quando ci sono lavoro e cittadinanza, c’è una colpa della sinistra, che è quella di aver confidato nell’accoglienza ma di averla chiesta a chi già pagava il prezzo della crescente ingiustizia assicurando sicurezza ma percependo solo la propria.
    Perché i migranti finiscono nelle case e sui pianerottoli di chi, per assenza di lavoro e reddito, per la riduzione e precarietà dello stesso, è già stato privato della piena cittadinanza e si finisce per contendersi le briciole che cadono dal tavolo dei ricchi, e il riscatto degli ultimi si trasforma nella guerra dei penultimi contro gli ultimi.
    Brutto da vedere, bruttissimo da accettare, per il degrado culturale e della convivenza, ma se la sinistra non sa più mettere in discussione il modello che concentra la ricchezza e distrugge il lavoro e la dignità dei lavoratori, se non sa più prospettare un mondo migliore, se finisce per asserragliarsi nei piani alti e difendere i privilegi di chi sta meglio, se chiede accoglienza ma non tocca il proprio status, che alternativa c’è?
    Il problema è che l’occidente vorrebbe fermare le migrazioni dopo averle volute prima con lo schiavismo e il colonialismo, poi con il bisogno di manodopera e infine esportando consumi e armi alimentando nuove migrazioni in una spirale perversa. E la sinistra si è limitata a confidare nel riformismo e nel suo ottimismo, nella socialdemocrazia e nella Siliconvalley, in Blair e in Clinton, e vediamo come è andata.
    Non ci sono più classi ha detto la sinistra democratica e si è unita al popolarismo che aveva più prosaicamente e da sempre sostenuto l’interclassismo, ma invece le classi ci sono e la sinistra non è più riuscita a metterle in discussione perché ha confidato nel patto con la borghesia come se fosse possibile un governo democratico e progressista di questo modello di sviluppo.
    Non ho alcuna nostalgia e simpatia per chi agita nuove bandiere rosse ma solo per chi sa stare con umanità sui pianerottoli di oggi (ed è più difficile che fare il presidente dell’internazionale socialista) e quindi confiderei anch’io in nuove forme di cittadinanza, ma intanto oggi c’è ancora bisogno di politica, anche di quella riformista se fosse tale, e di mettere in discussione questo sistema.
    So che anche se prendessimo tutto il sacco della ricchezza e la redistribuissimo in parti uguali non avremo ancora cambiato il mondo ma almeno potremo chiedere a tutti di essere accoglienti e giusti. La domanda è: la sinistra, anche quella che parla di liberi e uguali o di potere al popolo, lo farebbe veramente? Rinuncerebbe all’inganno del merito e proverebbe a costruire una società di eguali? E lo farebbe senza ricavarsi uno spazio esclusivo dove conservare il privilegio degli status e la presunzione della propria superiorità intellettuale?
    Non siamo uguali, questa è la verità, che la sinistra si è preoccupata di nascondere anche quando voleva costruire il comunismo e che continua a nascondere, perché come altro potrei descrivere la promessa di un mondo migliore senza voler toccare il mondo?
    Non è facile cambiare il mondo ma è impossibile se nascondiamo la verità.

    Roberto Pinter

  5. e.b. ha detto:

    Giusto per non far venir meno la reciproca comunicazione…
    Tu dici, “occorre ritessere un tessuto sociale”..
    Ma un tessuto sociale c’è, si compone di un fitto intreccio di molti fili, dove il buono il brutto il cattivo formano un solido tessuto prevalentemente tendente al grigio.
    Metto in fila una serie di fenomeni osservati, dove il soggetto è l’io: il collaudato “non nel mio giardino”; poi, “prima gli italiani o i trentini”, rilanciato con grande successo in “America first”, in sostanza un “prima me” mondiale; nell’incontro alla manifattura di Rovereto Morelli ci ha spiegato come il massimo di consapevolezza può generare o genera l’indifferenza; ci ha spiegato anche il fenomeno dell'”after you” a fronte della necessità di adottare una proposta di sobrietà virtuosa; pensiamo alle fakes news e a come sono accuratamente coltivate; e quando si è posti di fronte a una scelta innovativa, due soggetti su tre sono per la conservazione dell’esistente (più o meno le proporzioni registrate nel referendum costituzionale del 4 dicembre).
    Non è forse vero che siamo un po’ tutti parte di questo tessuto grigio? e quindi, nel tentativo di venirne fuori, anche con qualche lacerazione, la necessaria relazione di prossimità dovrà pur essere una relazione di promiscuità: cioè, dovremmo stare dentro i due tratti semantici dell’ubuntu, la “benevolenza verso il prossimo” e “io sono ciò che sono per ciò che siamo tutti”.
    La pista che suggerisci di indagare con Revelli, del depotenziamento della politica, se significa rinunciare a riformare i vertici ed occuparsi del “rasoterra” deritiano, andrà certamente bene ma non sono sicuro che configuri ancora un nuovo paradigma.
    Il tema della crescita è quello più presente e insistito in questa campagna elettorale: sembra impossibile che nessuno riesca o voglia liberarlo dalla gravezza puramente sviluppista, materiale, consumistica; sembra che il termine sia congelato in un significato che nega l’accezione immateriale della crescita, il naturale accumulo di esperienze, di conoscenze, di saggezza, di raffinatezza spirituale, anche, una crescita con al centro l’io e le sue relazioni, non le cose.
    Ciao.