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Ricordo uno dei primi film jugoslavi, “Il treno senza orario”: raccontava la storia delle migrazioni della nostra gente che, nell’immediato dopoguerra, si spostava dalle regioni più povere del paese per stabilirsi in quelle più ricche, viaggiando su “treni senza orari” – treni merci che andavano dal Sud al Nord del paese, dal Montenegro e dall’Erzegovina fino alla pianeggiante Vojvodina. Quest’autunno, alla stazione di Sarajevo, distrutta durante la guerra ed ora in gran parte ricostruita, ci siamo imbarcati su uno di quei treni. Ho provato una grande tristezza: tutto intorno a me ricordava la guerra recente. Lungo il viaggio l’angoscia mi abbandonava e riconquistava a intervalli.

Mostar è ancora divisa a metà, anche se adesso è più facile passare dall’una all’altra parte del fiume Neretva, dai quartieri in cui Croati e cattolici sono la maggioranza, ai quartieri nei quali furono ricacciati e si sono affollati i mostarini di origine musulmana. Il fiume scorre nel mezzo, ma il confine non segue il corso del fiume. Grazie agli aiuti dall’estero, sono stati ricostruiti alcuni ponti. Lo Stari Most, l’antico ponte, simbolo della città alla quale ha dato il nome, è completamente distrutto. Siamo andati a vederlo dapprima di notte, sotto la pioggia illuminata da lampioni ammiccanti. Lo sostituisce una passerella in legno simile a una palàncola gettata sopra un grosso ruscello. Nell’ oscurità le torri laterali somigliano a fantasmi di un racconto a cui manca la fine. In prossimità delle torri sono addossati negozietti e bugigattoli di artigiani, per lo più orefici, e tessitori di tappeti. Questo quartiere cittadino, chiamato alla turca “Kujundziluk” è stato parzialmente ricostruito. “Ma chi è stato a distruggere tutto questo?” mi chiedono quelli della televisione franco-tedesca che filmano tutto quello in cui si imbattono: le nuvole sulla città, le nebbie nella valle, gli scrosci di pioggia che ci accompagnano. Sono stati gli estremisti croati, rispondo, sottolineando la parola “estremisti” per non confonderli con tutti i Croati, per non fare di tutta l’erba un fascio.

L’indomani, con il cielo sereno, siamo tornati sul posto in cui per secoli, fino al 1993, sorgeva il famoso Vecchio Ponte. Lo spettacolo si è presentato sotto una luce diversa, ma non più bello. I contrafforti rocciosi laterali stanno franando, sul fondo del fiume è stata gettata una massa di cemento per creare una solida base per la nuova costruzione. Nel vicino caffè, che un tempo riecheggiava di inebrianti canti d’amore bosniaci detti sevdah, pochi avventori entrano per sorseggiare la turska kahvka, il caffé turco. Il rumoreggiare del fiume infrange un silenzio quasi sepolcrale. Ci si avvicina un uomo di mezza età, nervoso e agitato; implora gli stranieri di trovargli un lavoro qualsiasi, dice di sapere più lingue, è disposte a fargli da guida per la città, gli mostrerà tutto quello che desiderano vedere. E’ insistente, ostinato. Uno dei nostri amici gli mette in mano due-tre marchi tedeschi e l’uomo se ne va. Non chiedeva di più.

Ci siamo diretti verso la vicina moschea, per visitarla. Ce n’erano parecchie prima della guerra; alcune cominciarono a distruggerle i “Serbi” e finirono per abbatterle i “Croati” (uso le virgolette, talvolta, parlando di nazionalisti o fascisti, mai quando parlo del popolo al quale appartengono e al quale non somigliano). Nessun tempio musulmano è rimasto intero a Mostar. Ora li stanno ricostruendo: si può notare quale parte del minareto è di antica pietra, più scura, e quale è stata aggiunta, ricostruita, con pietra nuova, più chiara. L’aiuto è arrivato dai paesi islamici. Alcuni di essi hanno condizionato gli aiuti a delle concessioni: mi accorgo di certe pratiche che presso i musulmani di queste terre non c’erano mai state prima. Il Vecchio Ponte non univa soltanto due sponde della città di Mostar, ma era il legame fra Oriente e Occidente. Incontro certi amici d’infazia, Emir, Ibro, Fatima (hanno caratteristici nomi musulmani); si sentono “umiliati e offesi”. Nessuno di noi poteva immaginare qualcosa di simile a quanto è avvenuto. Abbiamo sottovalutato le capacità di coloro che hanno portato a questa catastrofe.

Gli amici che, insieme a me, hanno attraversato l’ex Boulevard della Rivoluzione e la via che porta il nome del più eminente poeta di questa regione, Aleksa Santic, hanno riportato impressioni terribili. Qui c’era ed è rimasto in piedi il vecchio carcere detto “celovina”. Una triste canzone così lo ricorda:

“Ci sono in esso cento e cento celle,
ciascuna cella per un uomo-schiavo”.

Un passante, avendomi riconosciuto, mi informa che quel penitenziario è adesso “l’unica istituzione comune che ancora funziona nella città” senza discriminazioni etniche e religiose. Il confine è segnato dal silenzio e dal sospetto. Lo attraversa la “prima linea” sulla quale si combattè l’insensata battaglia. Sui muri rimasti ancora in piedi si vedono migliaia di buchi prodotti dalle raffiche: si sparava furiosamente, con la veemenza dell’odio, con la volontà di distruggere tutto il possibile.
Sul Boulevard c’è anche la casa nella quale ho trascorso l’infanzia e i miei genitori hanno vissuto la loro vecchiaia. E’ rimasta sforacchiata, come una quinta, senza tetto e senza i pavimenti. Attraverso l’enorme fessura di quella che una volta fu una finestra si è infilato il lungo ramo di sambuco. Lì, sotto casa, mi fanno un’intervista: questi amici stranieri non possono nemmeno immaginare quel che provo mentre rispondo alle loro domande. E non si tratta solo di vergogna.

I luoghi di culto accanto ai quali passiamo hanno subito gravissimi guasti. La chiesa cattolica dei santi Pietro e Paolo venne centrata già all’inizio degli scontri, verso la metà del 1992, dalle granate dell’ “esercito jugoslavo” che all’epoca aveva già subito una “pulizia etnica” e risultava serbizzato, condito di “riservisti” raccolti Dio sa come nelle regioni dell’Erzegovina orientale e nel Montenegro. In questa chiesa ci andavo da ragazzo a implorare il Signore di far tornare vivo mio padre dal lager nazista in Germania. Anche questa chiesa è stata ricostruita grazie agli aiuti venuti da varie parti del mondo, probabilmente anche col denaro raccolto fra i pellegrini di Medjugorje. Il nuovo campanile è più alto perfino di quello della cattedrale di Zagabria. Goffo, disamornico, brutto, è stato costruito con l’intento di superare in altezza tutti i minareti delle moschee e dimostrare la superiorità di una religione sull’altra. Sulla collina detta Hum che sovrasta la città, non lungi dal luogo in cui un tempo sorgeva una fortezza austriaca, è stata eretta un’enorme croce che si vede da ogni parte: anch’essa è stata posta lassù perchè riconfermi la propria supremazia in una città nella quale noi cristiani non siamo stati mai maggioranza della popolazione, prima d’ora. Da una parte c’è un vescovo cattolico che si comporta da villanzone, intollerante, indegno della missione sacerdotale, a dall’altra c’è la Provincia erzegovese dell’ordine francescano che difende i propri interessi materiali, infischiandosene di quelli spirituali: l’uno e l’altra da tempo si scontrano e si combattono gettando fango sulla fede stessa. Il cardinale che ha sede a Sarajevo non riesce a trovare un farmaco che guarisca la gangrena. Egli stesso è stato eletto a quella carica in circostanze nelle quali sembrava migliore di quello che è. I Francescani bosniaci, della Provincia detta di “Bosnia Argentina”, sono di gran lunga più nobili e più attaccati ai valori del cristianesimo, ma non possono influire sui loro confratelli erzegovesi.

Abbiamo oltrepassato il fiume servendoci del ponte provvisorio, arrampicandoci fino al luogo dove, nella parte orientale della città, sorgeva la chiesa ortodossa. La ricordo bene: si distingueva per la sua posizione e la sua bellezza. Non ne è rimasto nulla. Dopo che da questa località fu cacciato l’esercito cetnico (“serbo”), i crociati “croati” dapprima la bombardarono a lungo con i mortai, poi la fecero saltare in aria con la dinamite trasformandola in un mucchio di macerie, terra brulla. (Alla stessa maniera i “Serbi” di Banjaluka hanno raso al suolo quella che fu un tempo la maestosa Moschea di Ferhadija; e, come se non bastasse, hanno trasformato in parcheggio per automobili lo spazio che prima occupava.) Accanto al rottame della porta principale del tempio serbo è rimasta una grande croce di ferro battuto, buttata per terra, calpestata, arrugginita. Almeno la croce di Cristo dovrebbe essere comune ad ambedue le confessioni cristiane!

Ho condotto la numerosa brigata su per l’erto fianco dell’altura verso il luogo in cui una piccola, antica chiesa ortodossa era rimasta per secoli radicata al suolo, recintata. I Turchi, nei quattro secoli del loro dominio, l’avevano tollerata, a condizione che non svettasse, non emergesse troppo nel panorama. Anch’essa è stata gravemente danneggiata. L’Amministrazione europea di Mostar ha finanziariamente contribuito alla sua ricostruzione. Due o tre icone, molto belle, si sono salvate dalla distruzione e sono state reinserite nell’iconostasi. La porta d’ingresso ci è stata aperta dal guardiano di piccola statura, sorpreso e perfino un po’ spaventato di fronte a tanti visitatori. Ho attaccato discorso, ricordandomi subito della consuetudine dei miei genitori: lasciare qualche obolo per la manutezione del tempio, non importa a quale religione appartenga. Uscendo dalla chiesetta, quel sagrestano mi ha detto che non poteva accettare l’elemosina. “Sapete – ha spiegato – io sono musulmano. E qui è stato pericoloso per un ortodosso fare il guardiano di una chiesa ortodossa! Mi chiamo Regjep Gashi”. Il nome, chiaramente, è musulmano, il cognome potrebbe anche essere albanese. Gli ho stretto la mano.

Mi sono ricordato di alcuni viaggi compiuti nel Kosovo negli anni Ottanta, quando coltivavamo l’illusione che fosse ancora possibile fare qualcosa per migliorare i rapporti già avvelenati fra Serbi ed Albanesi in Jugoslavia. Incontrai allora, visitando il monastero di Decani, il monaco ortodosso Justin Djuki_, un uomo di bell’aspetto e di alta statura, nativo della Bosnia. Mi accompagnò nelle sale in cui erano custoditi i tesori del monastero, mi mostrò quelle opere preziose. “Come avete fatto, padre – gli chiesi – a salvare tutto questo? Con tanti eserciti che sono passati per queste contrade saccheggiandole?”. “Sono stati gli Albanesi di queste parti a salvare i nostri tesori”, mi rispose. “Li hanno tenuti nascosti nelle loro case, tramandondoli di padre in figlio, di generazione in generazione, come sacre reliquie. Dicevano che gli portavano fortuna, raccolti abbondanti, figli sani. Ed oggi… ecco, oggi ci siamo scapestrati noi e loro”. Disse così, umilmente, e tacque. L’angoscia del musulmano Redjep incontrato nella piccola chiesa ortodossa di Mostar mi ha fatto ricordare la generosità del monaco Justin nel monastero kosovaro. Queste sono eccezioni rare. Ci meravigliamo di noi stessi quando veniamo a trovarci di fronte a questi casi.

Seguendo il corso della Neretva, ci siamo avviati verso il Sud. Un amico aggregatosi alla nostra comitiva a Mostar ci ha indicato i punti in cui, durante la guerra recente, gli ustascia crearono i campi di concentramento per i musulmani: “Ecco, questo è il malfamato Heliodrom (l’elioporto) e più in là seguivano i lager di Dretelj, Gabela e Ljubuski”. Non si conosce esattamente il numero dei musulmani uccisi in quei lager. L’estate erzegovese con il caldo soffocante, l’ affollamento, le torture, la fame, le malattie, la dissenteria falciava i miseri prigionieri denutriti e stremati. “Eravamo costretti a scavare trincee per i nostri carcerieri sulla prima linea del fronte. Talvolta, dal fronte opposto, i nostri non ci riconoscevano e ci sparavano addosso”, mi disse un testimone di fede islamica.

Passiamo accanto al graande Aluminijski Kombinat, lo stabilimento in cui dalla bauxite si ricava l’alluminio. Dopo anni di inattività, finalmente ha ripreso a produrre grazie anche all’aiuto di azionisti stranieri. Una volta ci lavoravano operai, tecnici e ingegneri di varie nazionalità e confessioni religiose, ora è stato etnicamente “ripulito”, è accessibile quasi esclusivamente ai cattolici “croati”.

Si viaggia su due piccoli bus presi a noleggio. Propongo di fare tappa a Zitomislic, un paese reso celebre da un monastero ortodosso. Nell 1941, qualche mese dopo la creazione dello “Stato Indipendente Croato” da parte delle potenze dell’Asse, le milizie ustascia massacrarono tutti i monaci sopresi nel cenobio, quaranta e più. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, il monastero fu ripristinato, le icone tornarono al loro posto, ripresero i riti liturgici; in un edificio non lontano da quello centrale fu istituito un convento femminile. Le monache trascorrevano la giornata tra la preghiera e il lavoro, coltivando campicelli e vigneti lungo il corso della Neretva. Nell’ultima guerra sia il monastero che il convento femminile sono stati prima bersagliati dai mortai e poi incendiati dai estremistsi cattolici d’Erzegovina.

Attraverso gli squarci nei soffitti e nei muri scendeva la pioggia. Ho sollevato da terra un tizzo spento; un pezzetto di quella che era stata una icona, una finestra, la cornice di un quadro, non lo so. Dove lo metto? L’ho restituito alle rovine dell’incendio. Sul palmo della mano mi è rimasto un segno nero di carbone. Tutto intorno c’era il fango. Quello che era stato un monastero era avvolto dalla malerba e da gramigne, la macchia era cresciuta e sbarrava il passo. Per fortuna il fuoco aveva risparmiato i cipressi che, snelli ed alti, rimanevano muti testimoni di un misfatto. Sullo scalino di pietra della soglia d’ingresso al chiostro una donna anziana aveva acceso una candela. Mi sono avvicinato, l’ho salutata chiamandola “madre”; si usa così da quelle nostre parti in segno di rispetto verso le donne anziane. Le ho chiesto se erano state salvate almeno le icone della chiesa. Mi ha risposto: “Io non ne so nulla”, ed era spaventata. Ho continuato a parlarle, le ho chiesto se potevo esserle di aiuto in qualche modo. E’ scoppiata a piangere. Alla fine mi ha rivelato: “Io sono una delle monache ortodosse che coltivavano questa terra. Non ho voluto andar via. Non avrei saputo nemmeno dove andare. Mi ha accolto sotto il suo tetto una buona e onesta famiglia cattolica, qui nel villaggio croato vicino. Che Iddio li protegga!”.

Ho pensato alla mia famiglia, originaria di quella regione per linea materna, cattolica: nell’altra guerra salvarono dalle fosse comuni e dalla camere a gas Serbi ed Ebrei. Ho chiesto perciò di conoscere la famiglia croata che aveva dato ospitalità alla monaca ortodossa, ma non c’è stato il tempo. Non c’è mai tempo per le cose più importanti da fare: gli amici della Televisione avevano fretta ed è stato necessario proseguire il cammino.

Seguendo sempre il fiume Neretva, una decina di chilometri più a Sud, siamo arrivati alla cittadina di Pocitelj descritta in una delle prose più brillanti di Ivo Andric, Sulla pietra a Pocitelj. Qui una volta, tanti anni addietro, le sentinelle turche montavano la guardia nel punto in cui il fiume si restringe, serrato tra due colline, su una delle quali, sovrastante la sponda sinistra, dominava una fortezza. A Pocitelj c’erano pure una bella moschea, un grande haman o bagno pubblico alla turca, un’antica scuola religiosa islamica, e case pittoresche per il loro aspetto. Quasi tutti gli abitanti della cittadina erano musulmani. D’estate qui bivaccava un carissismo amico – uno dei più popolari pittori e scrittori jugoslavi, musulmano di nascita, belgradese di elezione, ma eterno vagabondo, autore di indimenticabili diari di viaggio: Zulfikar D_umhur detto “Zuko”. In questa cittadina organizzava ogni anno incontri di artisti che arrivavano da tutta l’ex-Jugoslavia e da tutto il mondo. Per sua fortuna ha fatto in tempo a morire per non vedere quello che noi oggi vediamo: una città deserta, la moschea distrutta dalle granate, il minareto traforato dalla cannonate. Gli abitanti sono fuggiti due volte, sparpagliandosi dappertutto; la prima volta per non essere scannati dai “Serbi” in ritirata, la seconda volta davanti ai “Croati” che hanno preso possesso di questa ragione instaurando un potere spietato.

A Pocitelj sono tornate solo due-tre famiglie di anziani, quelle che non sono riuscite a trovare altrove nessun rifugio, un asilo, una casa. Sono entrato in una casa, ho salutato e chiesto di che cosa vivessero. Mi ha risposto una donna, tenendo per mano un ragazzetto che girava intorno a sé due occhi grandi che hanno conosciuto troppo presto il terrore: “Di qui, per la strada, passano le automobili. Qualcuno si ferma per vedere tutto questa disastro, e ne approfitta per comprare un po’ delle erbe medicinali che noi andiamo raccogliendo intorno sulla collina. Soltanto tre famiglie musulmane sono rimaste in mezzo a questo rovina”. Al momento del commiato mi hanno donato una bella melagrana matura e spaccata. “Prendi, è dolce! Prendi, la mangerai durante il cammino”.
All’ingresso di Pocitelj – ahimé! – si levano al cielo due croci enormi. Quando fui qui qualche anno addietro, insieme ad alcuni amici italiani ce n’era una terza, piantata sulla cima dell’antica torre turca. Mi h anno detto che il cardinale ordinò che almeno quella fosse rimossa. Come ho detto, prima che fossero piantate quelle croci, gli abitanti della cittadina erano musulmani. Lo sono anche le poche famiglie, rimaste o tornate. Nelle file di altre religioni si annidano i fondamentalisti, non soltanto nell’Islam.

Tra Pocitelj e Ciapljina la terra è fertile. Vi fruttificano le viti, i fichi, i melograni, i mandorli, gli aranci, tutte le piante da frutto mediterraneee, e l’erba verdeggia. Lì si trova la celebre necropoli di Radimlja, nei pressi di Stolac – il cimitero dei patareni medievali bosniaci detti bogomili. Una piccola oasi nella carsica e brulla Erzegovina. La pioggia è cessata, il profumo dei pini si mescola con l’umidità dell’aria.

Conoscevo bene Stolac, mio padre vi prestò servizio per diversi anni, mandatovi come in una specie di esilio. Era una cittadina armoniosa, sparsa su ambedue le sponde del piccolo fiume Bregava che scorre e mormora anche in una poesia dell’amico Giacomo Scotti (traduttore di questo saggio), dedicata a Mak Dizdar – amico comune, poeta d’origine musulmana, da tempo morto. Il corso d’acqua scorre cristallino ai piedi di una collina sulla quale restano le vestigia di una torre medievale. Fino a pochi anni addietro, il centro di Stolac aveva il caratteristico aspetto di una borgata islamica: la moschea con il minareto, le case con i tetti sporgenti e le pensiline sulle porte, la pubblica fontana detta scedervan, le finestre chiamate demirli penger, i cortili interni pavimentati a ciottoli.

Non riuscivo a credere che Stolac fosse stata a tal punto devastata finché non siamo arrivati nell’area in cui sorgeva il nucleo storico della cittadina, la Cittavecchia. I “Croati cattolici” hanno distrutto tutto ciò che avesse avuto dei contrassegni orientali, hanno cacciato dalle loro case le famiglie musulmane, sterminandone parecchie. Recentemente, quando i pochi profughi che sono riusciti a rientrare nella loro città e nelle loro case hanno tentato di ricostruire la moschea, sono stati aggrediti e messi in fuga alla stessa maniera con cui i “Serbi” di Banjaluka hanno agito nei confronti di quei concittadini musulmani che hanno tentato di erigere nuovamente la celebre Ferhadija, la moschea centrale di quella città. Un mio amico, professore universitario in America d’origine croata, ha scritto che qui, in Erzegovina, con le città abitate da musulmani i suoi connazinali si sono comportati come i “Serbi” si comportarono con Vukovar; la “Vukovar croata”, radendola al suolo.

All’ingresso del cimitero bogomilico di Radmila una volta sorgeva una modesta costruzione nella quale uno poteva concedersi qualche minuto di riposo, acquistare il biglietto d’entrata, cartoline illustrate, libri che in più lingue raccontavano la storia dei Bogomili (cio’ e’ – patareni bosniaci), sorbire un tè caldo. Quell’edificio è stato demolito. Su un muro rimasto ancora in piedi un ignoto fanatico cattolico ha scritto: “Non c’è posto per gli eretici”. Ricordo agli amici forestieri quanto diceva il grande scrittore croato Miroslav Krleza all’epoca in cui, dopo il 1948, la Jugoslavia venne a trovarsi in grave pericolo per la scomunica lanciata da Stalin contro la “cricca di Tito”. Qui, in Bosnia – diceva il poeta – si è manifestata la nostra vera appartenenza: “né Bisanzio né Roma, ma una terza componente”. Sulle stele si possono leggere ancora oggi i nomi slavi dei nostri ignoti antenati: Miogost (“ospite caro”), Bolasin (“doloroso”), Bratovic (“fratellino”). Alcuni sono scritti negli antichi caratteri bosniaci cirilliani. I grandi cippi sepolcrali sono pesanti e la dinamite costa caro. Forse è per questo che non sono stati distrutti né eliminati. Sono rimasti al loro posto, dove stanno da secoli, all’ombra dei cipressi che si dondolano al vento e vegliano su di loro.

Intorno a noi non ho visto nessuno, ad eccezione di un uomo magro e esaurito che camminava su e giù nervosamente fra i cippi di pietra, parlando con se stesso. Eravamo tutti sbalorditi, di stucco. E con quello sbalordimento ci siamo allontanati. Questo è successo a conclusione del mio primo viaggio in Erzegovina, l’anno scorso.

Il secondo viaggio, compiuto con gli scrittori inviati dal “Centre André Malraux” che ha sede a Sarajevo, si è concluso un po’ piu’ tardi a Blagaj, nei presi di Mostar, alle sorgenti del fiume Buna. E’ un “fiumicello dalle acque gelide come il ghiaccio e chiare come le lacrime”, si legge nelle annotazioni di un cronista antico. Qui è stata ripristinata la tekija (il monastero dei dervisci). Vi si entra a piedi scaldi, e le donne con il capo avvolto in uno scialle. Sembra un miracolo: qui la popolazione non ha avuto morti e la borgata non ha subito distruzioni.

A titolo di aiuto, i Norvegesi hanno costruito un allevamento di pesci che si è dimostrato redditizio anche per i donatori. Invece decine di miei amici della Bosnia, della Serbia e di altri paesi dell’Europa orientale non hanno di che pagarsi nemmeno un modesto pranzo: una piccola trota allevata qui e un bicchiere di vino bianco erzegovese. Questa è la nostra miseria!

Per tornare a Sarajevo abbiamo preso nuovamente un “treno senza orario”. Insieme a noi viaggia un gruppo di giornalisti del settimanale “Feral Tribune” di Spalato, il foglio dissidente che ha condotto una irriducibile opposizione al regime di Tudjman. Solo sulle sue pagine, e su pochissimi altri fogli, ho potuto pubblicare i miei scritti, nel mio paese, senza essere costretto a nascondere il mio pensiero sui capi di quel regime. Quel settimanale ha fatto onore al capoluogo della Dalmazia, una città gloriosa per la resistenza opposta al fascismo durante la seconda guerra mondiale, sulla quale però i fantasmi di quel fascismo gettano ora nuovamente le loro ombre minacciose.

Nel viaggio di ritorno, il gruppo degli “strani viaggiatori” (definizione dell’organizzatore francese, che è ricorso a un verso di Baudelaire) si è sistemato nella vettura della “mescita”, insieme ai redattori del “Feral”. Ci siamo allineati tutti davanti al bancone, gente arrivata da mezzo mondo, bevendo all’impiedi il bianco e il nero, zilavka e blatina, vini gagliardi dell’Erzegovina. Abbiamo poi attaccato a cantare a gola spiegata canzoni delle varie regioni di un paese nel quale abbiamo vissuto insieme fino a dieci anni addietro, un paese che tutti conosciamo. E’ infelice quel popolo al quale non è permesso cantare le comuni canzoni. Non mi batto certamente per la ricostituzione di uno Stato o di un regime che avrebbero potuto essere migliori di quello che sono stati: ma per la fraternità, per lo stare insieme, sì. Nulla può sostituire l’amicizia e la convivenza. Si deve esser “dissidente” quando si lotta per questo? Per così poco! Abbiamo continuato a stare in compagnia fino a tarda notte per le vie di Sarajevo. Quella per noi non era più una città distrutta.

L’indomani siamo tornati seri. Mi si è avvicinato uno scrittore, mio “connazionale ” rimproverandomi di essere stato “troppo duro” nel parlare dei crimini compiuti dai “Croati in Erzegovina”. Gli ho risposto che non aveva capito la cosa essenziale: usando parole “troppo dure” intendevo lanciare al tempo stesso una sfida: indurre gli scrittori serbi, bosniaci, montenegrini e quant’altri a dire alla stessa maniera quanto avrebbero dovuto dire sui crimini compiuti e sulle sciagure seminate dai loro “connazionali”.

Mi è capitato per le mani un articolo apparso recentemente a Belgrado sul foglio “Helsin_ka povelja” (La Carta di Helsinki). Vi si parla “delle responsabilità di Milosevic, Karadzic, Mladic e di altri guerrafondai serbi che si sono battuti per creare la Grande Serbia fino alla linea Karlobag-Ogulin-Virovitica in Dalmazia; delle loro responsabilità per i tre anni e mezzo di cannoneggiamenti su Sarajevo, del bombardamento di Dubrovnik/Ragusa, dell’incendio delle borgate della Piana del Konavle, della distruzione di Vukovar, del massacro di 7.000 civili musulmani a Srebrenica, dei misfatti compiuti contro i deportati e prigionieri nei lager di Keraterm, Omarska, Trnopolje, Manjacia; dei cadaveri dei neonati e delle bambine albanesi che vengono fuori dai frigoriferi, dalle acque del Danubio e dalle fosse comuni scavate in prossimità dei commissariati di polizia nei dintorni di Belgrado; delle migliaia di giovani serbi morti ammazzati e rimasti mutilati nelle guerre alle quali la Serbia ‘non ha partecipato’… della Chiesa ortodossa serba esclusivista, intollerante, rigida e reazionaria”, e così via. Questo l’ha scritto e l’ha firmato un amico Serbo. E ha fatto bene.

Sarajevo non può dimenticare facilmente tanti suoi cittadini morti dilaniati sotto le granate nella via di Vaso Miskin mentre facevano la fila per un pezzo di pane, né i morti ammazzati alla stessa maniera nel mercatino Markale mentre compravano, per dire, un chilo di patate: corpi straziati, fatti a pezzi, uomini e donne morti sul posto o mentre si cercava di trasportarli negli ospedali già stracolmi di feriti; non può dimenticare le ferite e le pozze di sangue sui marciapiedi, gli urli di chi invocava aiuto e i soccorsi che arrivavano talvolta quando non si poteva fare più nulla per salvare un uomo. E dopo tutto questo, come non ricordare le terribili, vergognose notizie e le menzogne sparse dagli assassini, secondo le quali sarebbero stati gli stessi Bosniaci musulmani ad autobombardarsi, ad ammazzarsi, per richiamare su di sé l’attenzione del mondo? Ancora più terribile e vergognose è il senso stesso di queste notizie e di queste menzogne che i propagandisti del regime tentarono di spargere con tutti i mezzi: indurre qualcuno a suicidarsi è peggio che ucciderlo.

Sugli uomini di penna ricade una parte preponderante di responsabilità per tutto quello che è successo. Sarebbe un bene se esistesse uno speciale tribunale per gli scrittori e giornalisti, oltre a quello dell’Aja per i crimini di guerra, un tribunale migliore e più severo dei Collegi di probiviri o Giurì d’onore che funzionarono in Jugoslavia e in Europa dopo la seconda guerra mondiale davanti ai quali furono chiamati a rispondere gli scrittori che avevano messo la loro penna al servizio dei fascisti e dei loro misfatti. Un siffatto tribunale dovrebbe poter giudicare pubblicamente tutti i responsabili di questa tragedia, facendo conoscere al mondo i loro nomi: colui che per primo istruì e preparò il “duce” serbo ora finito all’Aja (e suoi maestri furono Dobrica Ciosic e i suoi caudatari), colui che sostenne il “Supremo” croato e usò la sua penna spuntata per giustificare l’aggressione contro la Bosnia (Ivan Aralica, per esempio), colui che sorresse il microfono sotto la barba di un gonfaloniere e ne esaltò la imprese mentre andava randellando la gente da un capo all’altro di Sarajevo (e mi riferisco al romanziere serbo Momo Kapor oriundo bosniaco). E tutti gli altri che sposarono il crimine, spinsero al crimine, tacquero e occultarono i crimini, giustificarono i misfatti nei modi più svariati e tuttora cercano di giustificarli: lo scrittore belgradese Matija Beckovic che ha gettato un’onta incancellabile sul proprio talento; il poeta serbo-erzegovese Gojko Djogo e il serbo-bosniaco Rajko Nogo con il loro depravato misticismo nazionalista; il romanziere e poeta croato-bosniaco Andjelko Vuletic aiutante di campo dei peggiori vessilliferi dell’odio quali sono stati il defunto Mate Boban, già presidente per conto di Tudjman della cosiddetta “Repubblica croata di Erzeg-Bosnia” e di quel maledetto Tuta Naletilic che oggi risponde all’Aja di orribili crimini di guerra; il poeta Mile Pesorda, croato-bosniaco pure lui e seminatore lui stesso di odio. E l’elenco degli indegni potrebbe continuare, è lungo. Anche alcuni uomini di penna musulmani, appartenenti dunque a quel popolo che più di tutti in Bosnia ha subito violenze e sofferenze, dovrebbero scucire finalmente la bocca e scrivere, condannandoli, dei misfatti compiuti dai loro connazionali a Grabovica, a Celebici, a Bradina, a Busovacia e non so dove ancora, crimini compiuti non sempre per difesa.

Dopo la seconda guerra mondiale ci sono stati degli scrittori progressisti tedeschi che, non senza seri rischi personali, hanno posto lo specchio di fronte alla nazione cercando di mostrare ai connazionali tutti i crimini compiuti in loro nome dai nazisti. Anche noi dovremo, prima o poi, seguirne l’esempio. I Croati non lo hanno fatto ancora neppure per i crimini orrendi compiuti dagli ustascia nella seconda guerra mondiale; lo fanno oggi, al posto nostro, i figli dei nostri Ebrei i cui genitori furono massacrati nei lager sparsi da Pago a Jasenovac. I Serbi esaltano nuovamente il generale Draza Mihailovic, capo dei massacratori cetnici nella seconda guerra mondiale, dimenticando il sangue a fiumi scorso nella Drina dalle gole dei musulmani bosniaci sgozzate dai loro pugnali. Anche gli Sloveni hanno taciuto a lungo sulle stragi compiute dai loro, negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.

Sono troppo pochi coloro i quali osano guardarsi allo specchio della storia senza inorridire della propria immagine riflessa. Gli scrittori rifuggono da questo compito ingrato, gli intellettuali nazionalisti non vogliono guardare la propria nazione così com’era veramente, preferendo i miti. Ai nuovi leader, come ai loro predecessori, sta a cuore soprattutto il potere. Anche quando si viveva in una comunità federale, preferimmo sottolineare e denunciare quasi esclusivamente i crimini compiuti dagli altri contro di noi, nascondendo i propri. E fino a quando noi punteremo gli occhi su noi stessi, fino a quando non interrogheremo la nostra coscienza, non potrà esserci nemmeno una vera presa di coscienza e una vera catarsi.

(Traduzione di Giacomo Scotti)

P-S. Alcuni scrittori di cui i nomi si trovano in questo testo – considerati dall’autore come ispiratori o esortatore dell’ultima guerra nei Balcani – hanno riposto con arroganza nei giornali di Belgrado. Un processo aspetta l’autore nelle settimane prossime dinanzi al Tribunale di Zagabria. Questo tipo di interventi sembra ancora raro e non accettabile. L’autore lo considera comunque necessario e indispensabile. (P.M.)

 

1 Comment

  1. Lorenzino ha detto:

    La nostra specie sopravviverá? Oppure sparirà da questo mondo sopraffatta dalla sindrome di Caino-Abele?