Riprendere il dialogo a partire da “Darsi il tempo”
14 Settembre 2010Spunti stimolanti e… destabilizzanti
8 Maggio 2011di Fabio Pipinato
(18 febbraio 2011) Anche le trasmissioni più intelligenti come Vieni via con me o Che tempo che fa possono scivolare nella semplificazione in tema di cooperazione internazionale allo sviluppo. Bambini che piangono, farmaci che salvano, sms che ridonano una vita, adozioni che resuscitano, partite del cuore e tanta felicità. Senza volerlo ed in assoluta buona fede si dà voce solo alle ong/aziende più conosciute che già sono marketing oriented e che sanno come bucare lo schermo per loro conto o stressare i passanti nei centri storici.
La svedese Filippa Lagerback non è certo colei che è deputata ad affrontare la complessità delle “relazioni internazionali”. Presenta la beneficienza come un prodotto, un paio di scarpe o un ombrello, cavalcando spesso il “buon cuore” del telespettatore donatore. Ma, nel post Obama, si potrebbe tentare uno sforzo di andare oltre gli stereotipi che vedono il “vecchio-ricco-bianco buono” aiutare il “giovanissimo-nero-povero e buono finché piccolo”. Altrimenti si rafforzano delle mappe mentali che, peraltro, non ci aiutano a “stare al mondo”. A capire ove siamo e cosa facciamo e perché oltremare s’arrabbiano così tanto.
Lo scrivo con un accento un tantino polemico perché da quasi tre anni stiamo presentando in tutta Italia quel tentativo di ragionamento che abbiamo titolato “la Carta di Trento per una migliore cooperazione internazionale“. La Carta, dal 2008 al 2015, cerca di declinare nelle prassi gli otto obiettivi di sviluppo del millennio. Ebbene, per farla breve, l’esperimento non funziona. O, meglio, funziona per coloro che l’hanno scritta e che l’hanno masticata ma “non dice molto” al volontario comune che è dentro “una relazione internazionale” che lo gratifica e per la quale si spende. Talvolta più con il cuore che con la mente.
Spesso mi sento dire, post presentazione della Carta: “ma cosa si intende per….?, Cosa volevate dire con….?” (e questo la dice lunga sulla nostra incapacità di comunicare, di parlare ai più). Poi arrivano delle affermazioni, da parte di alcuni, che vanno in tutt’altra direzione dell’obiettivo che c’eravamo pre/proposti. Sono quindi a compiere, con il seguente scritto, un atto violento nei confronti dei curatori de la carta, dei molti amici che hanno frequentato un incontro informale a Bagnacavallo lo scorso anno e degli autori (Cereghini e Nardelli) del libro Darsi il tempo che, naturalmente, raccomando la lettura.
Insomma. Voglio banalizzare il tutto con un decalogo di NO. Per intenderci.
1) No al vuoto di senso. Molte, troppe ong son sin troppo preoccupate a sopravvivere. Ad un tram tram privo di scopo e pensiero. Rincorrono i denari anziché le idee e si ritrovano ad un tatto “povere”. Afone. Incapaci di pensiero. Nella tesi su Feuerbach Marx affermava: non basta interpretare il mondo, bisogna cambiarlo. Oggi, invece, è più importante interpretare. Leggere il presente. Darsi tempo, qui ed ora, per trovare un orizzonte che abbia senso.
2) No all’Io. Cooperazione è “noi” e quindi una relazione “bidirezionale” che non vede più una parte ricca aiutare l’altra povera. L’altrimenti sarebbe autismo. Ancora presente in molti interventi oltremare. L’accentuazione dell’Io porta, spesso, a disconoscere l’altro. Lo stesso meccanismo che esclude il diverso.
3) No, quindi, al leader. Le organizzazioni devono durare oltre la persona. Le ong che hanno concentrato troppa attenzione sul “capo carismatico” tendono a non formare quadri in grado di favorirne l’alternanza. Meno leader e più leadership, quindi.
4) No alla divisione tra Nord e Sud. Entrambi sono presenti in tutti i territori. Ogni paese ha il suo profondo nord e profondo sud. Il divario va colmato oltremare ma non solo. No, quindi, a quel nonsenso che sono i summit esclusivi. Dal G8 a Davos. No alla bugia che ancora c’include tra i grandi paesi industrializzati e che esclude, per esempio, il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).
5) No all’emergenza. Le relazioni internazionali sono un matrimonio di lungo periodo e non una relazione di breve. Non è possibile abbandonare le popolazioni appena cessata l’emergenza e la relativa smobilitazione delle telecamere.
6) No ai container. Globalizzazione economica significa che in ogni capitale di ogni stato al mondo vi sono le merci necessarie per tutti i progetti di cooperazione internazionale. Non ha più alcun senso trasportare merci valicando mari ed oceani ed indebolendo, peraltro, le economie locali.
7) No al caritatismo. Si a percorsi di giustizia che riequilibri le opportunità tra diversi territori. Che ci aiuti a liberarci dalla “quantità senza qualità”, dalla privazione di una comunità e conseguente solitudine. No al caritatismo significa riconoscere i saperi che caratterizzano ogni territorio ed i diritti fondamentali dell’uomo.
8) No al confine. Non esistono né partiti e né sindacati europei. Flebile la società civile transnazionale. Tutti chiusi dentro le gabbie statuali. L’unica struttura transnazionale forte è la criminalità organizzata con i suoi traffici di droghe, armi e forza lavoro da sfruttare. Eppure il vento del nord Africa dovrebbe insegnarci quanto importante è saper vedere oltreconfine. Noi che siamo incapaci di mettere fuori il naso di casa se non spinti dalle nostre donne perché non ci facciamo aiutare dai blogger nordafricani in un’azione, questa si, unilaterale?
9) No al moralismo. Prima di additare il “criminale” che è negli altri dovremmo incontrare il “criminale” che è in noi. Colui che si pappa l’80% delle risorse mentre parla di etica e riequilibrio planetario. Il tema della sobrietà ci riguarda. Il povero non è solo il bambino che è privo di opportunità all’equatore ma anche i nostri ragazzi costretti a passare le domeniche in un ipermercato.
10) No alla devastazione ambientale. Progetti costosi ed insostenibili calati in territori fragili possono portare ad un disequilibrio a danno delle popolazioni più vulnerabili.