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Grazie, Arlechin Batocio

Infine Zanzotto chiude la lirica mostrandoci il vecchio contadino che in una fredda e umida mattina di dicembre sale in bicicletta verso i suoi campi senza quasi sentire il peso degli anni («tra i settanta e gli ottanta pedalando quasi volage») e celebrando quella che gli appare come la sua qualità più alta, la capacità di coniugare i valori della
tradizione con quelli dell’innovazione. Ritroviamo Nino in un componimento di «Idioma» (1986) intitolato «Nino negli anni Ottanta».

Ora tutto è peggiorato. Lo sviluppo industriale ha prodotto violente e brutali trasformazioni. Il paesaggio è stato stravolto da ogni sorta di speculazioni ma Nino, pur stracarico di anni, sa ancora aderire in modo armonioso ad aspetti della realtà
che tutti gli altri non sanno leggere. Ed è questo che lo aiuta ancora a difendersi dalla morte e dagli assalti dell’alienazione e dell’angoscia. Eccolo allora, immune da malattie e rapido nei suoi gesti quotidiani, nel freddo di gennaio quando «pedalando/ tra i novanta e i cento anni quasi volage» si addentra «nel mistero delle colline» che solo lui è in grado di comprendere nella sua più autentica e resistente vitalità.

Questo singolare personaggio si chiamava Nino Mura «agricoltore ma anche botanico, astronomo e tante altre cose oltre che poeta», morto all’età di novantasei anni. Zanzotto ha raccontato di averlo conosciuto e di averne percepito il carisma per la prima volta da bambino, un giorno in cui sua madre lo mandò alla latteria oltre il Soligo: «Era quasi sera e c’era un cielo rosso, incredibilmente rosso. Tutti erano fermi a guardare la pianura infuocata quando a un tratto si presentò una figura aitante che si impose con una spiegazione paradossale e visionaria: «Fèmene, non sté aver paura. L’è un fenomeno che se spiega subito: l’è el sol che se rispecia nel Mar Rosso». Quell’uomo ironico e beffardo era appunto Nino Mura, che sarebbe diventato mio amico molti anni più tardi…».

Le interviste di Zanzotto. A parte quella con Marzio Breda (che, in realtà, è una lunghissima conversazione avvenuta in tempi diversi) diventata un libro («In questo progresso scorsoio», Garzanti, 2009), fondamentale per chiunque vorrà accostarsi, anche in mancanza di preparazione specifica, a Zanzotto, ce ne sono diverse. E tutte molto importanti perché le sue risposte, sia che parli di sé o di poesia o di cultura o di società, sono sempre profonde e ricche di stimoli per la riflessione. Qui ne voglio ricordare una, brevissima, che non figurerà mai in nessuna bibliografia, neanche la più
accurata, ma che prediligo per le semplici ragioni che dirò tra poco. Si tratta di un’intervista apparsa su «Sette» (n°1-2 gennaio 2000) nella rubrica «Terzo grado», dove all’intervistato di turno, con una serie di quesiti fissi, veniva chiesto di snocciolare rapidamente le sue preferenze in fatto di scrittori di libri e di personaggi letterari. Per brevità citerò solo due delle risposte di Zanzotto (le domande erano quindici). La prima mi aveva molto divertito per la salace postilla autoironica (Citazione preferita? «Una sola cosa mi dà il senso dell’infinito: l’imbecillità umana». Credo sia Voltaire, e vorrei aggiungere «compresa la mia»); la seconda mi commosse per la sincerità spiazzante (Un personaggio con cui si è identificato? «Arlechin Batocio, quello che prende le bastonate»).

(L’Adige, 18 ottobre 2012)

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