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Fra pericolose empatie e percorsi di autogoverno

Queste elezioni regionali sono capitate in un momento drammatico della storia della democrazia italiana, con tre soggetti  (singoli o plurimi) ormai estranei alla cultura politica costituzionale che formalmente ancora regola il sistema delle istituzioni. Il loro obiettivo non è trovare soluzioni di governo ma trasformare il sistema secondo un modello che maggiormente risponda alle proprie esigenze di potere, in un quadro peraltro instabile che confonde anche i singoli particolari interessi.

Ogni attore in campo ha i propri fans che per ognuno rappresentano il “popolo”, salvo il PD scosso da rapporti di odio anche tra i propri sostenitori, e comunque ognuno ritiene di potersi avvantaggiare nel momento in cui la corda si romperà del tutto.

Le elezioni in Friuli-Venezia Giulia hanno coinvolto circa il 56-57% degli aventi diritto disponibili rispetto al 76% delle elezioni politiche del mese precedente. Quali le considerazioni?

Una conferma eclatante del predominio della destra con un rafforzamento della Lega, tra l’altro qui presentatasi come Lega Nord, passata dal 27 al 35%, con un contemporaneo exploit di alcune componenti clientelari di liste di centro destra personalizzate (10%) ed un residuo voto di Forza Italia e Fratelli d’Italia di un complessivo 18%. Queste sono percentuali un po’ drogate dal meccanismo di voto e poiché il candidato presidente Fedriga ha raggiunto il 57% dei voti validi totali, si può ritenere che le liste extra Lega Nord vadano depotenziate di un 6% per valutarne il reale peso elettorale. E se valutiamo che una delle liste personalizzate, Regione Speciale, era direttamente di supporto a Fedriga si può arrivare alla conclusione di un voto che per il 40% appartiene all’area della Lega Nord e che per il 17% è relativo a componenti diverse, con un 5% di destra nazionalista (FdI) ed un 12% di un’area qualificabile come centro destra “moderato liberale”.

Il voto al candidato del PD ed alle sue liste di sostegno (PD al 18%) non è portatore di alcuna novità poiché le percentuali del 29 aprile sono sovrapponibili a quelle del 4 marzo, con il conseguente calo di voti reali corrispondenti alla maggiore astensione. Nessuna reazione di maggior partecipazione al voto come è avvenuto ad es. nel 2013. La soddisfazione di non aver ulteriormente perso appare quindi banale.

Il voto al candidato presidente del M5S si è dimezzato nel confronto con le politiche passando dal 24% al 12%, mentre i soliti motivi tecnici (quelli che hanno favorito il centro destra) hanno portato il voto della lista a poco sopra il 7%. La sofferenza del M5S era già presente in marzo con la perdita reale di 30.000 voti rispetto a quelli delle politiche 2013, ma alle elezioni regionali è apparsa evidente l’estraneità della proposta M5S sui temi del F-VG ed in particolare la lontananza di quell’elettorato da una cultura regionalista.

Non commento e non interpreto il voto al Patto per l’Autonomia che ha grosse difformità nel territorio regionale e la cui media 4% è il risultato di aree di buon radicamento e credibilità sia del candidato presidente sia delle liste presentate, con percentuali omogenee tra l’8 e il 10%, e zone più deboli, compresa la mancata presentazione della lista nella Circoscrizione di Trieste, il cui peso è valutabile intorno al 20% rispetto all’intera Regione.

Dal mio punto di vista l’elemento straordinario di queste elezioni non sta tanto nella ripartizione dei voti quanto nell’entusiasmo di massa che ha supportato la campagna elettorale della Lega (Nord), in particolare con le presenze di Salvini nei vari luoghi della Regione. E la stessa mobilitazione nella fase pre elettorale aveva accompagnato la candidatura di Fedriga, peraltro appena rieletto in Parlamento, mentre gli accordi romani prevedevano un candidato presidente di Forza Italia.

Pochi hanno fatto caso ai “vagoni di visitors”, di destra e di centro sinistra, che in campagna elettorale si spostavano dovunque, mentre una folla fitta e soprattutto “innamorata” accompagnava il leader leghista e ne sottolineava con boati ogni banalità che usciva dalle sue labbra. Un testimone non corroso dalla politica mi ha riferito di aver risentito lo stesso tipo di entusiasmo che si percepiva ascoltando alla radio il discorso di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Probabilmente il paragone è improprio ma sicuramente è indice di una “pericolosa” empatia tra “popolo” e leader.

Parlando in generale credo si possa notare l’aprirsi di uno spazio nuovo per i leaders politici dell’Italia di domani. Se fino al 4 marzo la competizione era tra chi le raccontava più grosse nei talk show televisivi, forse oggi si sta aprendo una potenzialità di investitura che non passa attraverso i media ma proviene direttamente dal “popolo” e costringe i media ad inseguire.

Se la Lega al Nord continuerà con questo trend, e le elezioni di autunno in Trentino ne saranno la verifica, appare evidente che il M5S dovrà trovare le sue contro misure al sud. E comunque ambedue, se ritengono che in gioco è l’egemonia sull’intero stato italiano, dovranno farsi concorrenza lavorando su questo modello di rapporto tra leadership e “popolo”.

La questione della ricaduta in termini di trasformazione dello stato e della democrazia liberale non è una novità. Ma, in genere c’è un leader autoritario e carismatico che, con il consenso del popolo, si impadronisce del sistema politico istituzionale contro l’incapacità decisionale di una stanca democrazia rappresentativa. Si può così arrivare a forme implicite o esplicite di fascismo, o semplicemente di autoritarismo corroborato da consenso popolare. E’ quello che attualmente capita in molte realtà europee ed extra europee.

I contendenti però in Italia sono due e grosso modo potranno essere pesati in maniera analoga. Fintanto che il loro compito era quello di combattere il PD e il comando dell’UE, tutto facile, ma adesso si cambia poiché lo scontro diventa tra loro per la conquista dei territori.

Forse esagero ma pare di potermi ricollegare ad una specie di “guerra civile” spagnola nella contesa delle diverse “regioni”. Prevedibilmente una guerra civile di questo tipo può essere combattuta anche senza armi, ma i suoi effetti devastanti non potranno mancare. Quando la paura, il rancore e la vendetta cominciano a guidare le nostre azioni politiche, il pericolo è in agguato.

Nell’immediato per quanto riguarda il F-VG non succederà nulla perché di galli nel pollaio ce ne è solo uno ed anche perché la gioiosa macchina da guerra che ha vinto le elezioni sembra godere di un consenso sociale radicato. Ma le nubi all’orizzonte non mancano. Se le esternazioni di Salvini a Redipuglia sulla difesa dei sacri confini della patria hanno fatto sorridere anche i leghisti locali, in questi giorni nella contesa per il ballottaggio al Comune di Udine il candidato della Lega Fontanini, perdendo ogni bussola politica, non manca di chiedere il consenso ed a trattare pubblicamente con forze dichiaratamente osannanti al fascismo.

Si tratta di qualcosa che il centro destra italiano non può permettersi. Berlusconi il 25 aprile scorso ha voluto festeggiare la liberazione recandosi a Porzus in una cerimonia di commemorazione dei partigiani osovani uccisi da formazioni GAP comuniste. Ma da lì a schierarsi con Casa Pound ce ne vuole.

Per i cittadini del Friuli Venezia Giulia è arrivato il momento di accorgersi che dai percorsi “evolutivi” del sistema stato nazione Italia non c’è molto da attendersi e che nelle reti e culture dei nostri territori ci sono elementi preziosi per la costruzione di un’autonomia politica capace di innescare percorsi di autogoverno e di democrazia. Aperti al confronto con il mondo ma non succubi.

Il “governatore” veneto Zaia ha usato una straordinaria metafora per commentare queste elezioni regionali: “il Friuli – Venezia Giulia è uscito dal Medioevo per imboccare la strada del Rinascimento”. Peccato che il Friuli ricordi l’uscita dal Medioevo proprio come il momento della conquista e della dominazione veneta. Che stia per ripetersi?

Udine, 7 maggio 2018

 

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