La ’ndrangheta in Trentino
6 Gennaio 2021Naufraghi nella neve. Una nuova disfatta europea?
3 Febbraio 2021“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (110)
di Michele Nardelli
A chi nelle scorse settimane mi ha chiesto chi avrebbe vinto le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, in genere ho risposto che le avrebbe vinte Donald Trump. Salvo improbabili colpi di scena, sono felice di essermi sbagliato. Avere una persona asociale e narcisista (come lo definì la nipote di Trump), psicopatico e bugiardo, razzista e omofobo nonché ammiccante con l’estrema destra, alla guida del paese più potente del mondo non è stato e non sarebbe stato in caso di rielezione per nulla rassicurante.
Eppure Trump, quando lo spoglio sarà ultimato, avrà ricevuto circa 73 milioni di voti elettorali, il 47,3% dei cittadini statunitensi che hanno esercitato il diritto di voto. Per Trump saranno dodici milioni in più rispetto al 2016, cosa che comunque dovrebbe farci riflettere. Il fatto che complessivamente si siano recate al voto (iscrivendosi alle liste elettorali, passaggio non indifferente) oltre 30 milioni di persone in più rispetto alle elezioni precedenti ha fatto la differenza. Così Joe Biden, con il 51%, ha ricevuto quasi 79 milioni di voti elettorali, un vero e proprio record nelle elezioni presidenziali statunitensi.
Nelle ore dello spoglio elettorale credo di aver cliccato qualche centinaio di volte la carta interattiva del voto americano per capire cosa stava accadendo in Pennsylvania o in Georgia, in Arizona o in Nevada, nella considerazione che in bilico ci fosse qualcosa di più della dialettica politica di un paese per quanto importante come gli Stati Uniti d’America (e nella quale pure faccio fatica a riconoscermi). Contrariamente a chi pensa che un presidente valga l’altro, ero e sono convinto che questo voto avesse a che fare con le sorti di quel grande paese ma anche con quelle del mondo intero.
Non poteva sfuggire come il trumpismo fosse diventato una delle forme specifiche della post-politica, capace di influenzare l’orientamento culturale prima ancora che politico di molti paesi in ogni parte del pianeta, di agire al di fuori del diritto internazionale e di delegittimare il sistema quand’anche malandato delle Nazioni Unite fino a svuotarne le risoluzioni (come nel caso della cosiddetta “Pace di Abramo“) e di comprometterne le attività come nell’uscita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, di aumentare le spese militari ad un ritmo senza precedenti (solo fra il 2018 e il 2019 del 6,6%) e di far saltare gli accordi sulla proliferazione nucleare (compreso l’importante lavoro di mediazione che l’Unione Europea aveva tessuto con l’Iran), sulle emissioni di CO2 o sul carbone. Solo per citare le prime cose che mi vengono in mente.
A questo si aggiungevano le preoccupazioni per il destino di un paese che, con Trump, si configurava sempre più chiuso in una sorta di autismo sovranista. Tanto è vero che, nelle scorse settimane, intendendo riflettere su questo blog attorno alle elezioni presidenziali negli USA, non ho trovato di meglio che postare un commento/recensione del libro dello storico Bruce Levine “La guerra civile americana“, uscito in italiano nel 2015 per Einaudi. Mettendo in rilievo come la geografia che aveva portato alla presidenza di Donald Trump nel 2016 rappresentasse la fotocopia della divisione fra gli Stati Unionisti e Confederati che nel 1861 portò alla secessione del sud schiavista. E come, in assenza di elaborazione del conflitto, quel passato (compreso il genocidio dei nativi americani) continuasse ad incombere sul presente attraversando gli Stati Uniti d’America nelle sue diverse geografie (non solo nord/sud, ma anche città e aree rurali, bianchi e neri ed altro ancora).
Ora, accostare le elezioni americane al milione e passa di morti che quella guerra lasciò sui campi di battaglia e nelle case bruciate lungo il Mississipi o nelle città della Virginia, poteva risultare azzardato. Ma immagino che uno sguardo analogo sia stato quello che ha portato il giornalista Andrea Purgatori a dedicare un’intera puntata di Atlantide su La7 proprio alla guerra di secessione americana.
Un paese radicalmente diviso, sul piano culturale prima ancora che su quello politico, nella società più ancora che nelle sue rappresentazioni politiche ed istituzionali. E, paradossalmente, con l’establishment dalla parte di Biden e i lavoratori bianchi da quella di Trump.
Una divisione profonda che, in buona sostanza, è stata confermata anche nelle elezioni del 2020, plasticamente raffigurata dagli Stati in bilico fra il voto delle città e quello dell’America profonda, separate da un solco che si è andato allargando e di cui si ha percezione nelle immagini che hanno accompagnato la campagna elettorale ma ancora di più nelle manifestazioni inquietanti che ne sono seguite, con schiere di guerrieri armati fino ai denti che non si rassegnano alla sconfitta di Trump.
Oltremodo aggravata dalla bagarre dell’ex presidente sui presunti brogli elettorali, accelerando quel processo di delegittimazione del tessuto istituzionale che peraltro non ha mai più di tanto considerato quando era al potere, figuriamoci ora. Fenomeno non nuovo, questo, a descrivere il carattere eversivo della post-politica, negli Stati Uniti come altrove.
Ho la sensazione che Joe Biden l’abbia ben compreso, se è vero che le prime parole spese come neo eletto Presidente degli Stati Uniti sono andate proprio verso la necessità di una urgente quanto improbabile ricomposizione. Che non può ridursi ad un messaggio di buona volontà, ma un lungo lavoro di riconciliazione ed una nuova narrazione capace di indagare il profondo di questo paese e del suo rapporto con il mondo.
Spero che il processo partecipativo che ha messo in moto milioni di persone che prima disertavano le urne e una moltitudine di donne che hanno portato sul piano simbolico alla elezione di Kamala Harris alla vicepresidenza (la prima nella storia degli Stati Uniti) possa rappresentare per questo paese una sorta di nuovo inizio.