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di Michele Nardelli
(28 dicembre 2016) Nella tarda serata di venerdì scorso le agenzie battono la notizia dell’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della risoluzione 2334 sugli insediamenti israeliani nei territori palestinesi come violazione del diritto internazionale e ostacolo al processo di pace (in allegato il testo integrale).
Si tratta di un atto certamente importante. Il testo chiede infatti che Israele cessi la sua politica di realizzazione di nuovi insediamenti nei territori palestinesi, inclusa Gerusalemme est, e insiste sul fatto che la soluzione del conflitto nel vicino Oriente passi per la creazione di uno Stato palestinese che conviva insieme a Israele. Secondo la risoluzione approvata, l’espansione delle colonie e gli insediamenti “costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e un grande ostacolo per costruire la soluzione dei due stati, così come una pace giusta, duratura e completa‘.
Il Consiglio ribadisce inoltre che “non riconoscerà alcuna modifica alle linee tracciate nel 1967 salvo diverso accordo tra le due parti attraverso appositi negoziati‘. Così, condanna “tutte le misure volte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo stato del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, in cui accadono confische e demolizioni di case palestinesi‘.
Per la prima volta dopo decenni gli Stati Uniti non pongono il veto su una risoluzione di condanna verso Israele, nonostante le forti pressioni con le quali il primo ministro Netanyahu ha cercato in ogni modo di impedire che la risoluzione venisse posta al voto. Le cronache ne hanno ampiamente parlato.
Tutto bene, dunque? Sì e no. Che il massimo organismo dell’ONU condanni finalmente una pratica illegale che prosegue da anni rappresenta certamente un fatto positivo. Risoluzioni come quella approvata venerdì scorso costituiscono fonte del diritto internazionale e non si cancellano così facilmente. Ma purtroppo la questione palestinese è costellata da risoluzioni rimaste sulla carta e si accompagna all’impotenza delle Nazioni Unite di fronte al prevalere della forza e del fatto compiuto. E quando il diritto e la realtà non s’incontrano, la politica rischia di morire.
Nelle ore immediatamente successive al voto nel Palazzo di vetro provo ad immaginare quali saranno le reazioni e in cuor mio non riesco a gioire per questa pur condivisibile prova di orgoglio delle Nazioni Unite, quasi che il nastro della storia si fosse riavvolto per proiettarci in un film purtroppo già visto.
E se il presidente palestinese Abu Mazen afferma: “Il mondo ha parlato“, quello israeliano Benjamin Netanyahu mette in mostra l’aggressività di cui è capace, dice che il vero responsabile di questa risoluzione si chiama Barack Obama, convoca minacciosamente gli ambasciatori dei paesi che hanno approvato la risoluzione (oltre agli USA, che si sono astenuti) e dà il via libera ad un nuovo insediamento illegale con la realizzazione di 618 abitazioni a Gerusalemme est quale sfida aperta al mondo intero. Donald Trump si affretta a legittimarlo, affermando che le Nazioni Unite sono “un club di chiacchiere“ e che fra meno di un mese sarà lui a ristabilire le cose nel loro ordine.
Provo soprattutto ad immaginare quale sarà la frustrazione del popolo palestinese di fronte ad un diritto internazionale che si ferma di fronte alla palese illegalità del governo israeliano, se non quella di credere ancora meno ad una soluzione politica e alle istituzioni che la dovrebbero ricercare e – espletati tutti i passaggi – imporre. Il fatto è che di fronte allo Stato di Israele il diritto internazionale sembra sospeso. Per il senso di colpa verso la tragedia ebraica del Novecento, per la forza condizionante della più potente lobby internazionale, per essere diventata una potenza militare dotata di armamenti nucleari…
Solo gli Stati Uniti potrebbero essere in grado di costringere a più miti consigli il governo israeliano, staccando la spina degli aiuti militari e finanziari. Ma sin qui ha prevalso il condizionamento israeliano, nonostante il presidente Obama pur fra mille difficoltà (interne alla sua stessa amministrazione) avesse cercato di riavviare (invano) i negoziati. Non oso immaginare cosa potrà accadere con la nuova amministrazione nordamericana.
Ci si potrebbe augurare un cambio di direzione politica in Israele, cosa auspicabile certo, ma del tutto improbabile considerato che questo paese già segnato in origine come stato ebraico (e dunque etico-religioso) ha avuto un’ulteriore involuzione per effetto di flussi migratori provenienti soprattutto dall’est europeo che ne hanno oltremodo accentuato il carattere religioso. E modificato l’orientamento politico ora stabilmente nella mani della destra. Il tutto a discapito dello stato di diritto e della disponibilità al dialogo.
Ostinarsi a pensare che la risposta sia quella fondata sulla violenza è esattamente quello che l’attuale leadership israeliana vorrebbe, per risolvere la questione alla radice. Sbagliata, fuori dalla realtà ed autolesionista.
E allora? E allora provo sommessamente a dire che forse la strada maestra è un’altra. Sia chiaro. Se la sede preposta all’esercizio del diritto internazionale – per quanto in crisi di credibilità e bisognosa di essere riformata – esprime una netta condanna verso l’aggressiva politica degli insediamenti, questo ha un grande valore e – in una condizione normale – dovrebbe essere sufficiente a far desistere Israele dal suo intento. Ma non è così e le Nazioni Unite non sono in grado di far rispettare nulla che sia in contrasto con la volontà di chi può esercitare il diritto di veto.
Ho già provato – in passato come più recentemente (vedi il mio intervento sulla questione palestinese che potete trovare nella rubrica “Primo Piano“ di questo blog) – ad affermare che occorre un cambio di prospettiva, “un mutamento di paradigma nel quale il riferimento non sia più lo “stato-nazione“‘ bensì un nuovo assetto regionale e sovranazionale nel quale potrebbero trovare soluzione anche altre aree di crisi che stanno devastando il vicino Oriente.
Una proposta che superi la prospettiva rivelatasi astratta ed impraticabile (per effetto dell’aggressività dell’attuale governo israeliano) dei “due popoli per due stati“ a cui pure fa riferimento la risoluzione 2334. Un cambio di sguardo per niente facile, considerato che l’attuale assetto geopolitico internazionale ma soprattutto culturale è ancora fondato su un principio, quello della sovranità nazionale, in sé discutibile e comunque reso obsoleto per effetto di un’interdipendenza che ha eroso i margini di (relativa) sovranità degli Stati.
E – mi sia permesso dire – ciò riguarda anche le Carte del diritto internazionale che non possono fare a meno di interrogarsi sul mondo nuovo seguito alla fine del Novecento e di quella storia, nel quale sembra affermarsi ancora più drammaticamente non la forza del diritto ma il diritto della forza.
Se bene ha fatto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a condannare il comportamento di uno Stato che viola il diritto internazionale, sappiamo sin d’ora che quell’atto non determinerà almeno nell’immediato alcun cambiamento di rotta da parte di Israele.
Credo quindi necessario un generale ripensamento, per immaginare nuovi scenari europei e mediterranei, nuove idee e nuove classi dirigenti nei paesi arabi in grado di andare oltre i loro interessi di bottega rilanciando una grande confederazione plurinazionale fondata sullo stato di diritto, una nuova consapevolezza (e una nuova classe dirigente) in un paese come Israele che per vivere in sicurezza deve – come ha scritto lo storico israeliano Ilan Pappe – “strappare dall’oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina‘1 perché solo così la riconciliazione potrà avere una possibilità. E infine una nuova e coraggiosa leadership palestinese che di fronte al sopruso permanente sappia far propria la forza della nonviolenza, immaginando quel che rimane del territorio palestinese come un laboratorio di educazione alla pace per il mondo intero.
1Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina. Fazi editore, 2008