Un barlume di civiltà
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di Michele Nardelli
(22 giugno 2016) “Non ha vinto nessuno“, scrivevo qualche giorno fa a proposito del primo turno delle elezioni amministrative. E mi sbagliavo. Forse speravo in cuor mio che i ballottaggi non sconvolgessero in maniera così forte le indicazioni uscite dal primo turno. E invece il secondo turno ci racconta di sonore sconfitte e di un affermazione del Movimento 5 Stelle che va oltre l’esito scontato (ma non in queste proporzioni) di Roma. Lasciando intravedere nuovi scenari.
Il dato emerso nei 25 Comuni capoluogo parla chiaro. Se nelle elezioni precedenti su 25 Comuni 21 erano andati al centrosinistra e 4 al centrodestra, ora la situazione appare decisamente più complessa: 8 Comuni vanno al centrosinistra, 7 al centrodestra, 3 (fra cui Roma e Torino) al M5S, 3 alla destra, 2 alle civiche, 1 alla sinistra (Napoli) e 1 al centro. Se si allarga l’analisi ai 125 Comuni maggiori il quadro è ancora più netto. Perde seccamente il centrosinistra che passa da 70 a 42 comuni, aumentano le Liste Civiche da 17 a 29, crescono il centrodestra (da 20 a 27) e la destra (che conquista da sola 8 Comuni a fronte di nessun Comune nella tornata precedente). Ma soprattutto si afferma il M5S che vince nella quasi totalità dei ballottaggi in cui era presente e si candida come una forza politica in grado di contendere, dopo Roma e Torino, il governo del paese.
Credo sia bene dunque interrogarsi su ciò che è accaduto domenica scorsa, tanto nel manifestarsi di una mobilità elettorale senza precedenti come nel delinearsi di tendenze peraltro non riconducibili al solo panorama nazionale.
Il voto a metà
La prima considerazione è che nei ballottaggi la metà dei cittadini non si è avvalsa del diritto di voto. I partiti nel loro insieme dovrebbero riflettere sul proprio grado di rappresentatività e provare a riflettere se esiste un nesso fra questo e la cultura plebiscitaria che ha pervaso il paese a partire dall’introduzione del sistema maggioritario. Certo, la crisi della politica ha ragioni più profonde e più ascrivibile ai suoi strumenti interpretativi di un mondo in profonda trasformazione che ai tecnicismi elettorali. Ma la semplificazione politica e la sua crescente personalizzazione hanno contribuito a produrre una progressiva perdita di rappresentazione, avvenuta nel nome della governabilità. Vero e proprio mantra, quest’ultimo, che ha svilito il valore della politica come capacità di incontro e di mediazione, ridotta a consociativismo. L’esito non mi pare sia stato dei migliori: pensiero debole, partiti liquidi, partecipazione pressoché cancellata.
Lo spaesamento
Termine con cui si è descritta in questi anni la perdita di identità sociale, lo spaesamento è cresciuto oltre misura facendo emergere un contesto privo di progetto sociale. In questo scenario abbiamo conosciuto un’estrema atomizzazione e un crescente corporativismo, dal “si salvi chi può“ al “non nel mio giardino“. Dopo il lavoro, anche i quartieri delle nostre città hanno smesso di rappresentare identità sociale e visioni, tanto da assistere ormai da tempo ad una sorta di rovesciamento di senso, con le periferie povere e degradate che votano le espressioni politiche dei ricchi e i quartieri un tempo più conservatori chi dovrebbe rappresentare le istanze della povera gente. A questo spaesamento, mix di bisogni reali, paure e rancore rispondono i populismi, quelli antisistema come quelli di governo (per usare una bella espressione di Marco Revelli)1. Tanto che politica ed antipolitica si avvicinano (più o meno consapevolmente) fin quasi a sovrapporsi.
La solitudine del PD
Abbiamo sin qui parlato di centrosinistra come se si trattasse di una coalizione di sensibilità diverse. In realtà salta agli occhi la solitudine del PD. Figlia della cultura maggioritaria e dell’autosufficienza, è paradossale che il partito fino ad ora di maggioranza relativa sia anche quello più isolato, ovvero incapace di sviluppare aggregazione plurale intorno a sé. Anche così si può spiegare come a fronte di una maggioranza (molto relativa) al primo turno non si aggreghino altre sensibilità nei ballottaggi. Altro “rovesciamento“, tanto da perderli. Quel che invece riusciva in passato al progetto ulivista (ed anche oggi nelle alleanze ad esso ispirate come nel caso di Cagliari), nel realizzare piattaforme comuni fra soggettività diverse. Mi permetto di dire che l’anomalia trentina era anche questo, la capacità di aggregare sensibilità diverse (riformismo, popolarismo, federalismo, radicalismo sociale, ambientalismo…) attorno ad un comune progetto riformatore. Ma l’idea dell’autosufficienza del PD ha portato, in Trentino come in Italia, allo smarrirsi di un progetto che di una originale sintesi culturale faceva la sua ragion d’essere e che non temeva di aprirsi ad altre culture politiche.
La fatica di un approccio europeo
Chi invece ha saputo interpretare meglio di altri questo passaggio di tempo (fra “il non più e il non ancora“ diciamo spesso), giocando sulle paure e sugli umori, sono stati i populismi. Che hanno in comune la difesa di stili di vita minacciati dall’insostenibilità globale in cui ci siamo cacciati e l’avversità ad un progetto europeo che se vuole procedere deve saper articolare una proposta capace di parlare tanto ai paesi che sin qui hanno beneficiato del compromesso fra capitale e lavoro quanto alle aree più deregolate preda del turbocapitalismo. E’ il tema della sovranità, già al centro dello scontro sulla Grecia, sulle migrazioni ed oggi del referendum sulla Brexit, che a guardar bene rappresenta il cuore della questione europea, laddove il paradigma dello stato-nazione vanifica tanto una visione sovranazionale quanto l’autogoverno dei territori. E su questo i populismi si intendono alla perfezione.
“Onestà, onestà…“
… si grida nelle piazze cinquestellate di Roma e di Torino dopo la vittoria. Uno slogan che racchiude in sé il vuoto progettuale. Quella che dovrebbe essere una precondizione dell’agire politico (di qualsiasi schieramento), l’onestà, è diventato invece programma politico, tanto nella città di “mafia capitale“ quanto nell’austero salotto sabaudo. Del resto ben poco ci si è interrogati sul carattere postmoderno della Banda della Magliana come sulla finanziarizzazione dell’economia laddove un tempo c’era la capitale dell’automobile. Così nelle periferie abbandonate di Roma come in quelle ben servite di Torino si vota allo stesso modo, in un moto indistinto che riconduce tutto ad un unico immaginario, confuso e cinico. Roma, Torino, Trento… “Onestà, onestà…“ sarebbe questo il progetto capace di interagire con i cambiamenti profondi del nostro tempo?
Il “sovversivismo delle classi dirigenti“
Matteo Renzi, quand’anche a denti stretti, riconosce la sconfitta e cerca di piegarla a suo favore. “E’ un voto di cambiamento“ – afferma – quasi che ad essere sconfitto non fosse il partito di cui è diventato “padre padrone“ ma quel che ancora c’è nel PD del passato. Dopo l’immagine non proprio nonviolenta del lanciafiamme riferita al risultato di Napoli (ma Valeria Valente non era una renziana doc?) e del Mezzogiorno, il premier-segretario sembra cambiare i toni ma rilancia un referendum costituzionale in cui si gioca tutto senza nemmeno mettere in discussione l’Italicum, la legge elettorale che visti i risultati di domenica scorsa aprirebbe un’autostrada per Palazzo Chigi al M5S. La minoranza PD (e non solo) lo chiede in queste ore a gran voce ma la vera svolta sarebbe quella di procedere allo “spacchettamento“ del referendum affinché il voto di autunno diventi nel merito dei contenuti anziché sul futuro del premier. Temo che non avverrà né l’uno, né l’altro, perché Renzi intende invece cavalcare proprio il “voto di cambiamento“ con quella sorta di populismo dall’alto che Gramsci ebbe a definire come “sovversivismo delle classi dirigenti“.
Darsi il tempo
In altre parole, Renzi rilancia. Del resto non gli si può chiedere di essere interprete critico di una situazione che ha fortemente contribuito a determinare. Né la minoranza del PD potrà spingersi oltre la richiesta di modificare la legge elettorale e di distinguere, separandole, le funzioni di segretario e Presidente del Consiglio. Voglio dire che sarebbe sbagliato pensare ad una qualche resa dei conti in un contesto culturale prima ancora che politico che fatica ad immaginare nuovi paradigmi e nuovi scenari. Questo è il tempo per ricostruire un tessuto fatto di analisi e di nuovi approcci, non per tirare fuori qualcosa di magico dal cappello. Cercando nel frattempo di limitare i danni, come quelli che potrebbero arrivare a breve se la frana europea dovesse mettersi in moto. Un lavoro paziente, non la fretta di rimettersi in gioco.
1Marco Revelli, Dentro e contro. Edizioni Laterza, 2015