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Proprio da non credere. Sono passati trentacinque anni dal primo disegno di legge sull’agricoltura biologica (del 1986 a firma Paolo Tonelli). Sono poi seguite leggi, ordini del giorno, mozioni a sostegno del biologico e dei biodistretti, che si sono scontrate di volta in volta con un muro di gomma ancora più subdolo dell’opposizione palese.

Ne so qualcosa anche personalmente (se così si può dire) in quanto primo firmatario di quella che poi è diventata la LP 13/2009, più comunemente conosciuta come legge sulle filiere corte (anche se andava oltre questo concetto, indicando il sostegno ai prodotti agroalimentari a basso impatto ambientale e ponendo il tema dell’educazione alimentare). Legge che prevedeva per quanto riguarda il biologico soglie crescenti (da rinnovare periodicamente) di prodotti biologici nella ristorazione collettiva (ospedali, case di riposo, scuole, asili, mense interaziendali), in relazione al fatto che in Trentino non c’erano prodotti biologici sufficienti a coprire anche solo questa fascia di utenza. Disposizioni della legge purtroppo rimaste inapplicate.

Oppure quanto approvato nella Legge Finanziaria 2013 che prevedeva l’istituzione e il sostegno dei distretti biologici ma anche il ricorso e il sostegno alla certificazione nutraceutica dei prodotti agroalimentari. Perché è paradossale, ma la frontiera del biologico – pur da presidiare – potrebbe risultare in un certo senso datata rispetto a quelle della certificazione qualitativa dei prodotti.

Ancora più grave è la non applicazione della Legge Provinciale 4 agosto 2008 n.15, che istituiva il Distretto Agricolo del Garda trentino. Perché si trattava di un Disegno di legge di iniziativa popolare (l’unico diventato legge), rimasto lettera morta per un sordo ostruzionismo da parte dei Comuni coinvolti ma anche da parte dell’amministrazione provinciale.

Altra legge rimasta inapplicata è la LP 3/2011 sui Fondi rustici, le proprietà pubbliche non soggette a uso civico. Si prevedeva un censimento di tali fondi e la loro assegnazione secondo criteri di finalità sociale e di occupazione giovanile nell’agricoltura.

Provvedimenti legislativi che basterebbe applicare e rifinanziare, che si scontrano con la non volontà di darne piena attuazione. Un muro di gomma, insomma. Il che ci parla della scarsa cultura istituzionale che caratterizza la politica trentina.

Anche da questo possiamo dedurre che la politica agricola trentina da tempo non è di promanazione pubblica, ma dei centri di potere che condizionano le scelte di fondo nel settore. Logica alla quale non sono affatto estranei i settori più conservatori della cooperazione e dei sindacati di categoria, delle istituzioni scientifiche e formative del settore.

In altre parole, conservatorismo culturale, interessi corporativi e politiche di scambio segnano pesantemente l’agricoltura trentina, determinandone l’incapacità di un ripensamento generale. E questo malgrado l’effervescenza che negli ultimi anni si respira nel settore, espressione di nuove sensibilità sia verso le biodiversità che verso l’ambiente e la salute.

Un processo di nuova consapevolezza cui dovrebbe corrispondere un nuovo approccio interdisciplinare, capace di mettere in dialogo l’agricoltura e la zootecnia con la gestione dell’ambiente (compreso quello rurale) e della montagna, con la salute e l’educazione alimentare, con il turismo e la ristorazione. Questa capacità di rete e di dialogo dovrebbe essere in buona sostanza il valore aggiunto del biodistretto trentino.

Potrebbe dunque il referendum sul biodistretto trentino aiutare a disarticolare questo blocco di potere e favorire una nuova stagione di dialogo?

Per come si sono messe le cose, temo di no. Perché invece che affrontare le questioni di merito prevalgono i fattori simbolici. Perché la scelta dello strumento referendario tende a spaccare più che a dialogare. Perché il referendum viene vissuto come una sorta di intrusione di una cultura prevalentemente urbana nelle cose del mondo rurale. Perché infine il referendum non può sostituirsi alla politica e al compito di visione e mediazione.

Servono processi di cambiamento e un dialogo permanente con tutte le componenti del mondo rurale, non vincitori e vinti come è invece nella logica referendaria.

Mi auguro solo che con un flusso significativo di persone al voto di domenica, arrivi a tutti un messaggio che indichi la necessità di riqualificare l’agricoltura trentina e tenere aperto un confronto a partire dalla semplice considerazione che questo settore rappresenta è un patrimonio di tutta la nostra comunità.

Un bene comune che va difeso e tutelato, accompagnando tutte le iniziative di riconversione verso modelli sostenibili sia dal punto di vista ambientale che sociale.

Per questi motivi siamo convinti che il superamento del quorum e il sostegno al Si possano rappresentare un segnale di speranza per costruire comunque le basi di un auspicabile cambiamento e un passo avanti sulla strada della costruzione di una nuova classe dirigente all’altezza delle sfide alla vera transizione ecologica.

 

Il quesito del referendum propositivo è il seguente:

«Volete che, al fine di tutelare la salute, l’ambiente e la biodiversità, la Provincia autonoma di Trento disciplini l’istituzione su tutto il territorio agricolo provinciale di un distretto biologico, adottando iniziative legislative e provvedimenti amministrativi – nel rispetto delle competenze nazionali ed europee – finalizzati a promuovere la coltivazione, l’allevamento, la trasformazione, la preparazione alimentare e agroindustriale dei prodotti agricoli prevalentemente con i metodi biologici, ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 2282001, e compatibilmente con i distretti biologici esistenti?»

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