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Di sovranismo, produzioni belliche e … inversione morale

“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (70)

di Michele Nardelli

“Data la condizione dell’uomo, determinata dal fatto che sulla terra non esiste l’uomo, bensì esistono gli uomini, libertà e sovranità sono così lontane dall’identificarsi da non poter neppure esistere simultaneamente. … Se gli uomini desiderano essere liberi, dovranno rinunciare proprio alla sovranità‘

Hannah Arendt, Tra passato e futuro (1954)

Fincantieri, mercato, sovranità

Il dogma sembra svanire. Improvvisamente la legge del libero mercato, per decenni mantra indiscutibile nel “consesso civile“, non corrisponde più all’ondata di “sovranismo“ che serpeggia ovunque, in un rovesciamento che accomuna trasversalmente Trump e Macron. In nome del “prima noi“, conservatori e progressisti si trovano a rispolverare quel paradigma, la “sovranità nazionale“, che nell’interdipendenza sembrava destinato a svanire.

Accade così che una scalata finanziaria, l’acquisizione da parte di Fincantieri della Stx (la società che controlla i cantieri navali francesi, peraltro a maggioranza sudcoreana), si trasformi in una crisi diplomatica fra Italia e Francia, due dei paesi fin qui considerati europeisti. E la pressione dell’opinione pubblica è tale che si affaccia pure l’ipotesi (in realtà ben più di un’ipotesi), fino a ieri una bestemmia, della nazionalizzazione. Viene da sorridere pensando alla Fiat in mano alla Philip Morris, alla Telecom passata alla Vivendi, alla siderurgia italiana finita nel colosso anglo-indiano di AercelorMittal, a buona parte dell’agroalimentare italiano nelle mani di multinazionali come la Nestlè, all’Inter e al Milan nei pacchetti azionari dei cinesi …

In questa cornice di neo-sovranismo, l’Europa sta andando a pezzi. O, meglio, a pezzi sta andando il disegno di un’Europa politica capace di un progetto insieme sovranazionale e federale, in grado di interagire con i flussi lunghi della globalizzazione ma anche con le istanze di autogoverno dei territori. Dopo i muri e i reticolati per fermare i migranti, ecco il risorgere di vecchie e nuove contese per superare le quali settant’anni fa venne immaginata la Comunità del carbone e dell’acciaio. Niente male…

Produzioni civili e … militari

Se poi andiamo a vedere un po’ più da vicino la vicenda Fincantieri/Stx scopriamo che in ballo non ci sono solo o tanto le navi da crociera, ma la produzione bellica per mezzo mondo. Come indicato nel rapporto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) negli ultimi quattro anni l’Italia ha aumentato le proprie esportazioni militari del 48% risultando fra i cinque paesi dell’Europa occidentale con il maggior export di armi. E a farla da padroni sono Finmeccanica e Fincantieri (http://books.sipri.org/files/FS/SIPRIFS1602.pdf). Inglobando Stx si profila un’opportunità di commesse stimata nel breve periodo in oltre 40 miliardi di euro.

Sovranismo e produzioni belliche sono facce della stessa medaglia. Se la terza guerra mondiale – quella che si sta giocando fra inclusione ed esclusione – è di tipo non convenzionale (ma non per questo meno cruenta) fatta in primo luogo di controllo delle materie prime, di privatizzazione dei beni comuni primari, delle biodiversità e dei saperi (ma anche di paure, muri, filo spinato e armi convenzionali per difendere il proprio giardino), questo non esclude affatto il ricorso alla guerra nelle sue forme tradizionali e nuove.

Basta scorrere le situazioni di conflitto armato che l’insostenibilità produce, tanto diffuso è l’esercizio della violenza dopo la fine del suo monopolio da parte degli stati e tanti sono i novelli “Stranamore“ alla testa di paesi che destinano quote crescenti dei propri bilanci alle spese militari. E che vorrebbero sperimentare il nucleare di nuova generazione, più adatto ad un uso circoscritto. Sembrano davvero lontani gli impegni per lo smantellamento degli arsenali.

L’inversione morale

In questo susseguirsi di emergenze, indice dell’assenza o della povertà di visione della politica, dopo aver seminato la democrazia nel Vicino Oriente (nelle forme e con gli esiti che conosciamo), mentre si gioca col fuoco nella penisola coreana dove un’improbabile leader viene legittimato da un miliardario tanto arrogante quanto ignorante nei panni del comandante in capo del paese più armato del pianeta, mentre nell’altro emisfero l’ex autista di Chavez chiude il cerchio del caudillismo dimostrando di che pasta era fatto “el socialismo del siglo XXI, va in onda l’“inversione morale“ che si sta giocando nel Mediterraneo, in Italia e in Europa.

Di fronte alla tragedia di migliaia di persone che cercano fortuna scappando da paesi devastati dalle guerre e dai cambiamenti climatici e dove si è smarrita un’idea di futuro che non sia di accettare quell’orizzonte come proprio scenario di vita, prima si inventa il reato di clandestinità (ossimoro del tempo globale), poi si opera l’ipocrita distinzione fra migranti economici e non (dimenticandoci che l’emigrazione italiana nel mondo era di persone che se ne andavano da questo paese per far fortuna), ed infine si criminalizzano le Ong europee che cercano di salvare vite umane di fronte al dramma quotidiano che si consuma nel Mediterraneo, come se il problema fossero loro e un diritto del mare considerato anacronistico anziché le tragedie che stanno a monte.

Quest’ultima operazione di stravolgimento della realtà – costruita ad arte dall’estrema destra xenofoba – ha trovato un terreno favorevole nel deserto della politica, che preferisce cavalcare la paura in cerca di consenso piuttosto che immaginare scenari diversi improntati ad un nuovo umanesimo. Se si vuole fermare l’emigrazione, cominciamo con la drastica riduzione del commercio delle armi e tutto il resto (vedi in questa rubrica il commento di Ilda Curti http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=3964). E poi, per combattere gli scafisti e la criminalità organizzata nella tratta degli esseri umani, basterebbe un ponte aereo e un accordo fra i paesi europei. Ma questa ovvietà sembra oggi fantascienza. Come se si fosse già messo in conto che tre miliardi di esseri umani sono di troppo in questo pianeta che non sa mettere in discussione i propri insostenibili stili di vita.

Minniti, ancora lui

Così ecco apparire l’astro nascente (ma c’è chi lo conosce bene) della politica italiana, il ministro di ferro Marco Minniti. Con la sua proposta di codice comportamentale delle Ong, replica quanto accadde nel 1999 in occasione della Missione Arcobaleno a seguito della guerra in Kosovo e Serbia alla quale il governo italiano guidato da Massimo D’Alema aveva fattivamente partecipato. La missione Arcobaleno rappresentò allora una sorta di spartiacque nel mondo delle Ong fra la subalternità verso chi quella guerra la volle contro ogni evidenza (gli accordi di Rambouillet erano più favorevoli all’autonomia del Kosovo che quelli stipulati a Kumanovo dopo settanta giorni di bombardamenti della Nato) e chi scelse un’azione (anche umanitaria) ma lontana da chi con una mano bombardava e con l’altra ricostruiva. Il “deus ex machina“ di quell’operazione fu il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti.

In quegli anni ero spesso in Kosovo e vidi con i miei occhi gli effetti di quella missione, quelli materiali nell’insostenibilità di gran parte delle attività che venivano implementate senza alcuna relazione con il territorio (se non con i signori della guerra), e quelli culturali su un mondo – quello delle Ong – in via di degenerazione e dove gli stanziamenti erano funzionali al mantenimento dei propri apparati piuttosto che alla rinascita del tessuto sociale. In quella circostanza iniziai a parlare del “Circo umanitario“ che passava in maniera disinvolta da un’emergenza all’altra, smarrendo l’autonomia culturale e politica in virtù dell’accesso ai finanziamenti. Il Kosovo uscì da quella guerra in ginocchio, un cumulo di macerie piene di uranio impoverito e deprivato della leadership nonviolenta (quella di Ibrahim Rugova) che per dieci anni aveva consentito di risparmiare quella regione dagli orrori della guerra che dilaniava ciò che rimaneva della Jugoslavia.

Distrazione di massa

Il Codice proposto dal Governo come condizione per l’approdo ai porti italiani delle navi cariche di persone sottratte alla morte sta avendo effetti analoghi. Tanto sul piano del diritto internazionale, come se la Convenzione delle Nazioni Unite sul salvataggio in mare fosse aggirabile attraverso un Codice di comportamento proposto da un Governo. Quanto nel distogliere l’attenzione verso il problema di fondo e rovesciare le responsabilità.

In realtà, vi si può leggere qualcosa di più, ovvero l’attacco al papato di Francesco che – come ha scritto qualche giorno fa l’amico Raniero La Valle – “con i gesti di Lampedusa e Lesbo, ha squarciato la cortina dell“omertà e ha posto la questione politica e morale della risposta da dare alla più grande tragedia del nostro tempo, quella delle migrazioni di massa‘. Pensiero critico considerato intollerabile, contribuendo così ad aprire (o a rendere palese) un duro scontro anche dentro la Chiesa Cattolica, come si evince dalla presa di posizione del presidente della Cei Gualtiero Bassetti che richiama la necessità di “rispettare la legge“. Ma quale legge?

Un’inversione morale che racconta di un tempo smarrito, dove il genocidio che si consuma nel Mediterraneo viene scambiato per un problema di ordine pubblico o tutt’al più come emergenza umanitaria. Dove la politica rincorre il consenso. Nel quale l’ignoranza e la paura devastano le coscienze, creando un terreno diffuso di guerra fra poveri, a difesa di quel che si ha. E dove – tragica beffa di questo tempo – inclusi ed esclusi a guardar bene la pensano allo stesso modo.

1 Comment

  1. vincenzo ha detto:

    E la sinistra che fa? spunti per un dibattito “territoriale”.

    Idee ricostruttive della sinistra interetnica
    Spunti programmatici

    La cartina di tornasole dei rapporti fra i vicini/lontani che abitano il bacino dell’Adige virerà in rosso se alle celebrazioni del 4 novembre 2018 si inneggerà ancora alla vittoria dagli uni e alla perdita della libertà per gli altri. Lasciare in quella data a bersaglieri tirolesi e alpini il compito di firmare, in nome della comune patria europea, le nuove “compattate”, e assumere, da parte della sinistra, la data del centenario come momento di riflessione su di una guerra che, attraversando la comunità regionale, fu così devastante da travolgere insieme agli uomini la natura stessa, come ci ricorda lo storico Diego Leoni nella sua “Guerra verticale”.
    Dell’assenza politica della sinistra, su questi temi, è testimone la cronaca quotidiana: “La forza dell’Euregio? Non pervenuta. I rapporti privilegiati con l’Austria? Svaniti”. Sono le parole forti di Faustini a commento dell’intenzione austriaca di resuscitare il confine del Brennero. Quel confine, inventato da Tolomei, che nemmeno gli imperatori Augusto e Napoleone si erano sognati di tracciare, torna sulla scena, come ai tempi dell’italietta sabauda; “torniamo allo statuto!” è la parola d’ordine che la sinistra deve fare propria, riecheggiando l’implorazione sonniniana vecchia di un secolo, dove per statuto si intende non l’albertino, ma il degasperiano, quello che mise in sicurezza la convivenza fra le genti dell’alto bacino dell’Adige e che è ancora ben lungi dal compiere il secolo di vita. Di fronte alla lungimiranza dei padri dell’Europa, il balbettio a cui assistiamo oggi spinge ad amare riflessioni, pensando alle tante vite sacrificate, dal 1848 ad oggi, per l’idea degli Stati uniti d’Europa. L’Euregio alpina in costruzione, il luogo in cui, grazie all’esperienza maturata in tanti anni di speciale autonomia, si può qualificare come modello a cui ispirarsi per la necessaria opera di integrazione e pacifica convivenza nei tempi di ferro e fuoco in cui viviamo, novella Gordio in cui può essere sciolto il nodo che minaccia la pace continentale, trova sul suo cammino novelli generali macedoni pronti al colpo di spada risolutivo. Impedire che nascano nuove barriere nelle aree transfrontaliere dei paesi europei è un obbiettivo strategico a cui le genti alpine non possono rinunciare, pena la negazione della loro stessa storia millenaria. Degasperi ideò un modello di comunità per trentini e tirolesi, dentro l’amicizia italo-austriaca, dettato dall’esperienza maturata, lui trentino, in un’intera vita segnata dal dolore per le sofferenze subite dalle genti alpine sotto il ferro e il fuoco di due guerre mondiali. Nessuno può essere autorizzato oggi a smantellare l’edifico della convivenza costruito grazie al sacrificio di intere generazioni, ed è bene che un moto di popolo si desti a rivendicare la vocazione non violenta di questi territori e la ferma intenzione di portare a termine il disegno federalista dei padri dell’Europa. Non si tocchi l’edifico istituzionale che regge la nostra regione alpina, si aprano tavoli di dialogo con i nostri vicini delle grandi pianure a nord e a sud, si concentrino gli sforzi per vedere pienamente realizzati i principi incardinati nella nostra Costituzione repubblicana, autentica base della futura Costituzione europea, come fu nel disegno tenacemente perseguito per anni da Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli. Bisognò attendere il 1961, il convegno del Mulino a Bolzano, per udire, dal grande europeista Altiero Spinelli, parole di verità: “Non so se gli amici del Mulino, scegliendo il 4 novembre per tenere a Bolzano questa riunione, l’abbiano fatto per caso o se di proposito, per tentare di dare a questa data un significato differente da quello che ha finora avuto. Il 4 novembre è comunque una data molto importante, per gli italiani, per i sudtirolesi, per gli austriaci. … dovrebbe quindi essere considerato, se noi fossimo persone serie, data di lutto per noi e data di lutto per gli austriaci: una delle varie date della atroce guerra europea dei trent’anni; e normalmente le date di guerre civile non vengono considerate come giorni di festeggiamenti”. Grande è la responsabilità nelle mani dei governatori delle nostre regioni alpine, i quali per porre le basi della futura cittadinanza europea hanno bisogno del sostegno convinto di tutte le genti, comprese quelle di antica e nuova immigrazione, che vivono ai piedi delle Dolomiti. E’ necessario quindi tornare alla Regione, nello spirito dell’articolo 5 della nostra Costituzione, non per rispolverare l’antica propensione nazionalistica delle due storiografie (la tedesca e l’Italiana, che Emanuele Curzel richiama nell’editoriale dell’ultimo numero di “Studi trentini di scienze storiche”) quanto per fare i primi passi verso una più ampia regione alpina in cui la rilevanza geopolitica dello spartiacque finisca per sfumare, al punto di ridursi, come auspicato da Silvius Magnago, ad un filo di seta. Fra questi primi passi non dovrebbe mancare un’intesa fra università, centri di ricerca, municipi (Trento, Bolzano/Bozen e Innsbruck), tutte realtà istituzionali per le quali è oggi urgente un rilancio. Obbiettivo primario puntare ad una comune azione di salvaguardia ambientale, nella consapevolezza del fatto che quello che siamo chiamati a gestire è un “Patrimonio dell’umanità” e non solamente un bene dei pochi che vivono ai piedi delle Dolomiti. Si abbia il coraggio, avvalendosi, come suggerisce il Presidente della commissione dei 12 Lorenzo Dellai, degli organismi collegiali esistenti, di affrontare i temi trasversali dell’economia e del lavoro che corrono lungo l’asse del Brennero, senza limitare lo sguardo al solo proprio Maso, aperto o chiuso che sia.