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“La maledizione di vivere tempi interessanti‘ (85)

di Michele Nardelli

Quel che accade nel dibattito politico italiano potrebbe apparire sconcertante e per certi versi lo è. Penso altresì sia pienamente descrittivo del cortocircuito in cui sono finiti i corpi intermedi e con essi le istituzioni e la società nel non saper far corrispondere alla fine di un’epoca un nuovo sguardo e nuove strade. La sensazione di insicurezza, poi, fatta di fantasmi ma anche di dati reali riconducibili all’insostenibilità globale del modello di sviluppo imperante, fa sì che il disorientamento diventi rancore e paura. Che si traducono in aperta ostilità e violenza verso ciò che viene percepito come insidia al proprio status. Le cronache di questi giorni ci raccontano di questa deriva, oltremodo legittimata da chi ogni giorno soffia sul fuoco, ora anche da posizioni di potere.

Provo dunque a percorrere alcuni dei tratti di questo cortocircuito.

“Prima noi“. Il razzismo sdoganato

Non è che improvvisamente l’Italia, l’Europa, il mondo intero siano diventati preda del razzismo. La mancata elaborazione del Novecento (che del primato della razza è stato il secolo) combinata con il venir meno dell’illusione positivistica secondo la quale lo sviluppo della scienza e della tecnica avrebbero reso vano il concetto di limite, ha fatto sì che il fantasma del “prima noi“ tornasse prepotentemente in auge fino a diventare il programma politico delle nuove destre e non solo. Il sovranismo è diventato la risposta popolare agli effetti della globalizzazione e della finanza internazionale. Come era accaduto nel cuore dell’Europa nel primo dopoguerra. “Deutschland über alles“ fu allora la risposta, non molto diverso dall’“America first“ che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca o al “Prima gli italiani“ che ha aperto le porte del Viminale a Matteo Salvini. Ad essere diverso è il contesto, nello sgretolarsi delle identità sociali e nel vuoto ideologico. E, mi permetto di dire, nella subalternità culturale di una sinistra smarrita che cerca di recuperare consenso nei suoi vecchi elettori ormai in libertà. Cosa questo significhi lo possiamo vedere nella barbarie quotidiana cui assistiamo.

Dignità cercasi…

Non ho mai guardato con indulgenza al M5S ma non si può certo negare che l’esito delle politiche sul lavoro del centrosinistra – in nome della cosiddetta flessibilità – abbia portato all’aumento della precarietà. Si sono sbandierate cifre sull’aumento del numero degli occupati mettendo nel conto attività riconducibili a qualche ora di lavoro settimanale, nei fatti è continuato a crescere il numero di lavoratori a chiamata o intermittenti o in somministrazione come effetto del Jobs act. Precarizzazione non estranea alla crescita degli incidenti e delle morti sul lavoro. Per non parlare di fenomeni come il caporalato e le nuove schiavitù. Mettervi mano sarebbe questione di civiltà (sotto ogni latitudine), ma il confronto sul “Decreto dignità“ del ministro Di Maio è condizionato dalla reciproca propaganda e dal “carattere indiscutibile“ del primato delle imprese e del mercato. Dove sta, dunque, la dignità?

Marchionne, gli operai e il ragazzo di Bolzano

Il fatto è che anche su questo misuriamo la sconfitta, quella delle idee ben prima di quella elettorale. Così gli operai FCA intervistati sull’improvvisa uscita di scena del loro amministratore delegato sembrano rimpiangerne le gesta. Malgrado le loro buste paga e l’incertezza sul futuro. Sergio Marchionne se ne è andato, sepolto ancor prima che la morte ne avesse il sopravvento. Il figlio del maresciallo dei carabinieri Concezio Marchionne, l’uomo che si era fatto da sé, migrante e grande fumatore, a quanto ci raccontano le cronache, aveva un rapporto maniacale con il lavoro, laddove quest’ultimo occupava la sua vita in maniera totale. Eppure del suo male in FCA non sapevano nulla, il che ci racconta tante cose, fra tutte come tale identificazione avesse nell’esercizio del potere il suo collante ma anche di quanto possa diventare fragile e sfarinarsi di fronte alla tragedia dell’io, in presenza della quale – come scrive Luca Rastello1– il noi diventa un ossimoro. La FCA si è affrettata a rimpiazzarlo con un nuovo manager senza scrupoli come Mike Manley che, possiamo starne certi, proseguirà nell’opera di finanziarizzazione del gruppo intrapresa dal suo predecessore. Qualche sera fa a Bolzano, durante la presentazione del libro “Sicurezza“, a Paul Renner che s’indignava per un contesto nel quale un calciatore viene pagato 140 volte quel che un operaio riesce a guadagnare in una vita intera, un ragazzo (immagino utente della cooperativa che ci ospitava) ha ribattuto che quei soldi Cristiano Ronaldo li vale. Quando dico che abbiamo perso…

Ilva, si può fermare il progresso?

Se la parte migliore del Novecento è stata rimossa, così non si può dire del modello di sviluppo che ancora incombe in tutta la sua insostenibilità. Così, se una città muore, è il prezzo che si deve pagare allo sviluppo. E’ un film che abbiamo già visto un’infinità di volte, non ha risparmiato nemmeno una città come Venezia e la sua laguna. Ma la madre di tutte le acciaierie d’Europa, l’Ilva di Taranto, è un mostro che sembra ancora vivere di vita propria. Come il Leviatano, nessuno lo può fermare. Si può forse fermare il progresso? E se quei filibustieri dell’Arcelor Mittal oggi presentano un piano strategico che migliorerebbe di gran lunga le condizioni di produzione dell’Ilva precedentemente concordate con il governo italiano, vuol dire che sin qui avevano giocato d’azzardo sulla pelle dei lavoratori, degli abitanti e dell’ambiente (e che il precedente governo aveva accettato). La legge è vecchia quanto il capitale: massimizzare il profitto. Sono specialisti nel rilevare mostri e metterli al lavoro, lo hanno fatto prima ancora che a Taranto anche dall’altra parte del mare, senza farsi troppi scrupoli né di ordine sociale, tanto meno ambientale2. Ed ecco il coro degli epigoni dello sviluppo a dire che non possiamo rinunciare all’acciaio italiano (pensando alla multinazionale anglo-indiana vien da sorridere), che sarebbe un colpo mortale ad un Mezzogiorno che non può fare a meno di uno dei suoi poli nevralgici, che ambiente e lavoro devono trovare un compromesso equilibrato che garantisca la crescita e così via. Comprendere che questa piccola e fragile parte dell’Europa potrebbe vivere e far vivere delle sue unicità è chiedere troppo?

TAV, la vecchia logica delle grandi opere

Un coro che conosciamo bene anche in altre latitudini. Che la TAV, l’alta velocità ferroviaria che sta bucando le Alpi occidentali contro la volontà di un’intera valle, sia un’infrastruttura già oggi considerata inutile poco importa. Nello schema culturale che ci ha portati sin qui la crescita è un dogma che si nutre di grandi opere che fanno girare l’economia. Che danno lavoro, salari che a loro volta sostengono i consumi e l’economia. E così all’infinito. Basta percorrere le autostrade italiane intasate dai Tir per comprendere la follia di uno schema che porta il pianeta a consumare quasi due volte quello che gli ecosistemi terrestri sono in grado di produrre. Ci sarebbe tutta la rete ferroviaria ordinaria da sistemare, ma quello non produce risultati finanziari sufficienti, mentre il trasporto merci su rotaia è ridotto a percentuali mai così insignificanti (siamo il fanalino di coda in Europa con appena il 6%, quando l’obiettivo europeo entro il 2030 del trasporto merci su rotaia è il 30% ). Mi vengono in mente le accese discussioni negli anni ’80 sullo squilibrio da correggere fra il trasporto su gomma e quello su rotaia quando le percentuali erano ben diverse. E un convegno – era il marzo del 1982 – dove erano relatori con me anche Franco Dalvit, Osvaldo Dongilli, Filippo Strati e Orlando Galas a proposito dell’interporto di Trento nord. La dimostrazione che tutto si sarebbe giocato sulla logistica e ben poco sull’intermodalità è venuta negli anni successivi. Prendere lezioni dal passato? Al contrario, la logica delle “grandi opere“ non è affatto cambiata. Tanto che oggi si cerca di rilanciare l’intermodalità proprio grazie al traforo del Brennero, l’ennesima grande opera, appunto. E se la strada fosse quella di interrogarci e rallentare?

Cambiamenti climatici, fra indifferenza ed emergenza

Che le cose abbiano oltrepassato il limite è evidente ad occhio nudo. Le conferenze mondiali sul clima non hanno potuto che riconoscere la realtà, ma da qui ad un’inversione di tendenza il passo è ancora lungo. Quando nel 1972 il Club di Roma varò il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo si gridò al catastrofismo. Ma quelle previsioni si sono abbondantemente avverate. Se un paese pesantemente tecnologico come il Giappone – provato dalla tragedia infinita di Fukushima, dove le radiazioni nucleari sono 100 volte oltre la media – si dibatte fra impressionanti alluvioni e torride siccità, vorrà pur dire qualcosa. Se la Grecia e la California bruciano, se nei paesi scandinavi le temperature salgono facendo saltare gli ecosistemi precedenti, se il surriscaldamento erode le superfici ghiacciate dell’Antartide e del Polo Artico e i ghiacciai si ritirano, se i picchi di calore investono le nostre città da dover ricorrere ai condizionatori (per chi se lo può permettere) e ad un consumo di energia senza precedenti… significa che “il clima è fuori dai gangheri“3. Le risposte non possono essere né l’indifferenza che mette in conto due/tre miliardi di esuberi (quelli che papa Francesco definisce gli scarti), né la cultura dell’emergenza, visto che le dinamiche con le quali abbiamo a che fare sono strutturali. Per quanto potrebbe sembrare il contrario, non c’è nulla di eccezionale in quanto sta accadendo. Occorre “semplicemente“ cambiare rotta.

Nessun territorio è un’isola

E nemmeno il Trentino lo è. La stagione dell’anomalia è finita. Sarà utile farne un bilancio, soppesando pregi e difetti di un ventennio che comunque ha saputo tenere questa terra almeno parzialmente al riparo dallo spaesamento. Ma il vento che spira qui come altrove avrebbe richiesto molto di più, sul piano della capacità di far tesoro del passato, nel leggere i segni di un tempo in rapida trasformazione, nella capacità di costruire nuove e diffuse classi dirigenti. Non la mera difesa delle prerogative autonomistiche, ma un nuovo disegno all’insegna del “fare meglio con meno“. Al quale far corrispondere un cambiamento profondo, nel pensiero come nell’agire, di tutti quegli ambiti che hanno contribuito a fare diversa questa terra. Il non averci lavorato espone il Trentino al peggio e non credo che sarà un colpo di teatro a pochi mesi dal voto a farcelo evitare. Ma di questo ne parleremo, se non altro per tentare la “riduzione del danno“.

1 Luca Rastello, Dopodomani non ci sarà. Chiarelettere, 2018

2Ne abbiamo parlato in http://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4043

3Gianfranco Bettin, Il clima è fuori dai gangheri. Nottetempo, 2004

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